Una notizia da Roma: la "ragionevole durata del processo" si è mangiata il "giudice naturale"

di Valerio Savio

Un fantasma - pardon: un sintagma -- si aggira per l'ordinamento giudiziario e per le nostre conversazioni di lavoro: la "ragionevole durata" del processo, che, come si sa, "la legge assicura".
E' una espressione figlia di un concetto semplice semplice, perfino banale, che sarebbe piaciuto a Lapalisse: "è meglio un processo ragionevolmente breve piuttosto che un processo irragionevolmente lungo".
Tra tanti temi di contrasto sulla giustizia, finalmente una cosa su cui tutti possono essere d'accordo, e su cui tutti sono stati d'accordo (le cronache non ricordano discussioni in Parlamento sul punto). Oltretutto, un modo di essere o quantomeno di sentirsi anche più europei, che diamine. Un obiettivo programmatico, buttato lì dal legislatore del nuovo art. 111 della Costituzione, attento a ben altre e più solide questioni, senza impegno, perfino con nonchalance, forse con il senso di colpa di chi sa di avere contestualmente posto nuove regole che tutto possono tutelare tranne, nelle condizioni date, la celerità del processo. Certo, una parolina magica inserita nella Carta con non compiuta consapevolezza della sua forza evocativa e suggestiva, della sua capacità seduttiva, delle sue grandi potenzialità, delle sue immediate capacità di modificare prassi ed orientamenti interpretativi.
Puoi stare a discutere di regole di formazione della prova, di nullità, di rapporti tra Uffici, di tabelle, di sofisticate questioni processuali od ordinamentali, di ruolo e potere dei dirigenti. Stai magari confrontando complesse ricostruzioni normative e costituzionali di questo o quell'Istituto, ragionando magari in forma dubitativa, della migliore soluzione ad un annoso ed irrisolto nodo interpretativo o ad una spinosa questione organizzativa. Ti stai magari preoccupando di tenere conto e - come si dice tra giuristi - di contemperare nella ricerca di una risposta ad un quesito cinque sei diversi principi costituzionali in materia di giustizia, e hai magari anche tu evocato la celerità del giudizio come obiettivo da perseguire. Ecco che al culmine della discussione, quando già pensi che siamo tutti azzeccagarbugli ed i soliti sinistrorsi cacadubbi e nient'altro, ad un dato momento uno dei presenti, col tono e l'espressione di chi cala l'asso, si avanza e pronuncia il risolutivo riferimento: "attenti, colleghi, bisogna tener conto della ragionevole durata del processo".
Da quel momento in poi, la discussione è un'altra. Il volto degli interlocutori si rischiara. Cacchio, non ci avevamo pensato. L'albero dei dubbi e delle possibili soluzioni al problema in esame viene in pochi minuti sfrondato a colpi di machete. In un attimo, restano in piedi non più di due soluzioni. Semplici. Basta con le cose sofisticate, chi aveva proposto soluzioni anche solo apparentemente più complesse viene guardato con diffidenza, con rimprovero, con compassione, trattandosi chiaramente di soggetto legato ad anacronistici lacci e lacciuoli culturali e a logori riferimenti e schemi, di un poveretto che non si rende conto di quali devono essere i tempi della giustizia del 2000. Eppoi, colleghi, c'è la legge Pinto. Cosa si vuole, che ci condannino tutti a pagare di tasca nostra?

Sia chiaro. Alla "ragionevole durata del processo" ci teniamo evidentemente tutti. E tutti invecchieremo a discutere di quale sia tale durata "ragionevole", in relazione a tutti gli altri valori e a tutti gli altri obiettivi che il giudizio deve perseguire ed attuare, dato per condiviso che il celerissimo processo che in Cina porta in poche ore ad un doppio giudizio di merito e ad un colpo alla nuca dell'imputato, o in Iran alla rapida ed efficiente lapidazione di una adultera non abbia una durata, appunto, "ragionevole", nè sia un processo giusto.
In attesa di risultati comunemente accettati in ordine al significato ed all'ambito del principio costituzionale, il rischio però è che sin da ora il concetto, la parolina magica della "ragionevole durata", ci porti e ci abitui alla semplificazione argomentativa, non efficiente ma efficientista, a ragionare in termini superficiali e trancianti, a restare magari inconsapevolmente impigliati nelle logiche di una sorta di "pensiero unico aziendale" . Senza però che ci sia l'azienda.

Emblematica di questo rischio una discussione su di una rilevante questione organizzativa, dai problematici profili ordinamentali, in corso da mesi all'interno del Tribunale di Roma, anche tra esponenti di Md, e di recente riprodottasi in Consiglio Giudiziario.
Al Tribunale Penale di Roma vi sono nove sezioni penali dibattimentali. Ciascuna raggruppa a regime nove giudici ed un Presidente, ed è strutturata in quattro collegi. Ogni singolo magistrato svolge sia funzioni collegiali, in un solo collegio, sia funzioni monocratiche. In ogni Sezione il terzo ed il quarto collegio , di istituzione coeva all'unificazione, sono composti da giudici a latere provenienti dalla soppressa Pretura, ed hanno iniziato a funzionare a settembre 2000, partendo senza arretrato, a ruolo zero. I giudici di tali collegi proseguono peraltro nella trattazione dei loro ruoli di ex pretori ( dai 150 ai 400 processi, a seconda dei casi). Dal canto loro, e al contrario, i giudici a latere dei primi e secondi collegi proseguono nella trattazione dall'arretrato collegiale preesistente, partendo come monocratici a settembre 2000 a ruolo zero.
Tale assetto di partenza del Tribunale Penale unificato - cardine e base dei criteri di assegnazione - è stato quindi fondato sulla simmetria per cui si è dato per scontato e fisiologico che per un biennio circa gli ex Pretori lavoreranno principalmente come monocratici ed i magistrati già parte del Tribunale prevalentemente sul versante collegiale, fino ad un progressivo riallineamento dei ruoli.
Il diavolo però fa le pentole, ma non i coperchi. I primi mesi di vita del Tribunale unificato, il primo anno di vita della "legge Carotti" evidenziano infatti un afflusso di processi per reati a "competenza" collegiale - quali che ne siano le cause - in concreto largamente inferiore al previsto. Molti giudizi, anche per reati gravi, si "fermano" in abbreviato all'udienza preliminare (e passano, dinanzi al GUP , dai 205 del 1999 ai 494 dell'anno 2000: in alcuni casi si tratta di processi da Corte d'Assise, in un paio viene irrogato l'ergastolo dal GUP).
Si crea quasi subito una situazione di squilibrio, in tutte le Sezioni. I terzi ed i quarti collegi lavorano solo sui pochi processi "nuovi", sopravvenuti al settembre 2000, e sono in condizione di definirli in tempi rapidi. I primi ed i secondi funzionano di fatto come "uffici stralcio" per i vecchi processi, continuando peraltro a riceverne anch'essi di nuovi, in eguale misura rispetto ai terzi e ai quarti collegi.
Al 31.12.2000 i dati delle pendenze sono i seguenti (forniti dalla Presidenza): I Sez., dal primo al quarto collegio, rispettivamente 224, 134, 40, 32; II Sez., 265, 168, 27, 51 ; IV Sez., 196, 274, 27, 44; VI Sez., 183, 134, 9, 14; VII Sez., 178, 112, 6, 12; VIII Sez., 101, 135, 14, 23; IX Sez., 357, 214, 37, 31; X Sez., 45, 200, 37, 19 ).
Alla V Sezione, in particolare, la situazione delle pendenze è la seguente, dal primo al quarto collegio: 60 - 338 - 23 - 27. Una serie di trasferimenti e di incompatibilità ha creato l'abnorme pendenza presso il 2° Collegio.
La Presidenza Scotti decide di intervenire su questa situazione, di comune accordo con il Presidente della V Sezione dott. Mario Bresciano, e con il consenso dei magistrati interessati (tra i quali, caso unico tra le nove Sezioni, non vi sono ex Pretori, sì che neanche si pongono per tale Sezione problemi di perequazione nei carichi di lavoro, le assegnazioni monocratiche essendo state da settembre 2000 identiche per tutti). Con decreto di variazione tabellare 21.2.2001 la Presidenza stabilisce che circa 90 dei processi pendenti dinanzi al 2° Collegio, individuati, con criterio generale, per il loro essere "ancora privi di istruttoria dibattimentale" - perché mai iniziata o perché da ricominciare, per mutata composizione personale dell'organo giudicante - vengano spalmati, con criterio "a scorrimento", sugli altri tre collegi.

Innegabile la grande novità del provvedimento. E' lo stesso Scotti, nel corso di una riunione interna, a definirlo un provvedimento pilota, di possibile estensione a tutte le sezioni, ove approvato da CG e Csm. Di fatto, si procede con esso alla riassegnazione in blocco di processi penali già assegnati secondo gli ordinari vigenti criteri tabellari. Giudizi che dovrebbero continuare dinanzi ai collegi primi assegnatari così come originariamente composti ovvero - dove ciò non è più possibile - così come integrati in base alle previsioni tabellari su interpelli e supplenze vengono invece spostati ad altro Collegio, ad altro Giudice, per decisione del Dirigente.
Da subito, tutti indistintamente riconoscono che il provvedimento affronta una situazione di disservizio effettivamente sussistente, e che con esso la Presidenza si fa carico di una situazione dagli ovvi negativi riflessi sui tempi di trattazione e definizione dei dibattimenti, diversissimi a seconda dell'epoca del rinvio a giudizio, e diversissimi pure tra processi andati a giudizio dopo il settembre 2000, ma a collegi nell'un caso nuovi e a pendenza vicino allo zero e nell'altro gravati da annosi arretrati.
Ancora, da subito tutti riconoscono che il criterio utilizzato per individuare il Collegio nuovo assegnatario è generale ed oggettivo, e che tale criterio è espressione di una apprezzabile autolimitazione di discrezionalità da parte della Presidenza.

E' però sul modo scelto di affrontare questa situazione, che presto nasce la discussione, che da allora ha percorso e percorre le Sezioni , ed anche Magistratura Democratica. E nel corso della quale - per riallacciarci al nostro discorso iniziale - compare la parolina magica.
Si è così obiettato - ad es. da chi scrive - che il provvedimento integra una incontestabile violazione del principio di precostituzione del giudice naturale (per giurisprudenza costituzionale consolidata - è bene ricordarlo perché vi è ancora chi sostiene il contrario - riguardante non solo l'Ufficio, non solo la Sezione, ma altresì la composizione fisica dell'organo giudicante). Si è così opposto che i sopra descritti criteri adottati per la scelta dei giudizi da riassegnare e per la scelta del collegio nuovo assegnatario sono sì generali ed oggettivi , ma non sono e non avrebbero evidentemente potuto essere predeterminati. Che il decreto è animato di buone intenzioni, ma che di buone intenzioni si sa quale strada sia lastricata, e che ove il Csm dovesse avallare un simile provvedimento si creerebbe un precedente pericoloso, in mano a Dirigenti, magari di Tribunali più periferici, che per motivi meno oggettivi e commendevoli di quelli che certo hanno ispirato Scotti volessero spostare qualche processo da un Collegio, o da un giudice monocratico, all'altro, con la scusa della pendenza (e che sarebbero così autorizzati a farlo, creando ad hoc un criterio generale ed oggettivo di riassegnazione che ovviamente ricomprende il processo che interessa). Che in tal caso con l'approvazione dell'organo di autogoverno si compirebbe un ulteriore passo verso la gerarchizzazione non tanto dell'amministrazione della giurisdizione, quanto della giurisdizione medesima, con grave vulnus all'indipendenza interna del singolo magistrato. Ancora, e con meno nobile argomento, che è pericoloso stabilire il principio che se si forma troppa pendenza questa la si redistribuisce sugli altri, perché non sempre questa come nel caso in questione è frutto di situazioni oggettive ed incolpevoli e perché come è noto non tutti in magistratura ambiscono al premio Stakhanov per il socialismo. Infine, e soprattutto, che la soluzione adottata non sia necessitata, poiché è disponibile una soluzione alternativa, un altro modo di affrontare lo stesso problema: vale a dire, agire, anziché sul vecchio, sul nuovo: anziché riassegnare giudizi già incardinati dinanzi al loro giudice naturale predeterminato, prevedere con provvedimento di variazione tabellare un congruo lasso di tempo - sei , dodici , 24 mesi? - nel quale tutti i giudizi che per i vigenti meccanismi tabellari sarebbero di competenza del 2° collegio ipergravato siano assegnati secondo criterio oggettivo e predeterminato agli altri tre, riequilibrando così progressivamente ruoli e tempi di definizione dei processi.
E' a questo punto della discussione, calati questi argomenti, che compare la parolina già magica.
Che si sia in una riunione di Sezione, in un incontro con il Presidente ed i suoi Segretari, al bar, o in Consiglio Giudiziario, a questo punto , che si discuta con il colto o con l'inclita in tema di ordinamento giudiziario, non ti viene solo obiettato , come prevedibile, "che non si può continuare a ragionare e a decidere come se in Magistratura ci sia una folla di mascalzoni" ( che è argomento vecchio e corporativo: siamo todos caballeros, o no? ), non ti viene solo obiettato che così facendo i tempi di perequazione delle pendenze tra i diversi collegi si allungherebbero , che salterebbe l'abbinamento tra pm titolari delle indagini e singoli collegi, e che per l'intanto ci sarebbero processi nuovi definiti in tempi velocissimi e che passerebbero avanti a quelli pendenti da anni e non definiti dinanzi al collegio ipergravato ( che sono argomenti ragionevoli, al di là delle obiezioni pure opponibili, e che dimostrano per l'ennesima volta come in materia di ordinamento giudiziario non vi siano mai soluzioni che rispondono a tutte le esigenze in gioco, e scorciatoie per il Paradiso). No. Ti viene calato l'asso: "caro collega, hai ragione, bisogna considerare il giudice naturale, siamo tutti affezionati a tale principio, ma non si deve rimanere ancorati a schemi antiquati, gli uffici devono andare avanti, dobbiamo dare risposta alle domande di giustizia, non hai considerato che ora c'è la ragionevole durata del processo, che specifica il principio di buon andamento della P.A. dell'art. 97 Cost., e che diamine, bisogna contemperare i vari principi, e il decreto bene contempera, ottenendo da un lato un immediato effetto di redistribuzione e di efficienza, e dall'altro operando con criteri oggettivi e generali".
Calato l'asso, evocata la ragionevole durata, magicamente la discussione, come nel caso di altre questioni, non è più quella di prima. Si prova a far valere l'argomento che con il sistema alternativo proposto si possono se si vuole spostare più processi che con l'altro. Che laddove un collegio non ha un ruolo eccessivo e può definire in tempi rapidi, avendo raggiunto od essendo in condizione di raggiungere a breve l'obiettivo di efficienza e di rapidità nella chiusura dei processi per il quale si è fatta la riforma del giudice unico, non è opportuno intervenire, ed affossare l'isola di efficienza (si fa per dire ). Che contemperare significa contemperare, e cioè tentare di tutelare in contemporanea le diverse esigenze ed i diversi principi, e non pretermetterne uno a totale vantaggio dell'altro, e che laddove il sistema del decreto 21.2.2001 pretermette totalmente il principio del giudice naturale, quello alternativo proposto appunto contempera. Ma è tardi. Comparsa la ragionevole durata del processo, a prescindere da cosa essa esattamente significhi - al riguardo: buoni studi a tutti - è come se avanzassero i carrarmati contro la cavalleria: obiettare ed argomentare diviene operazione in salita, ti senti vetero, non convinci.

Il Consiglio Giudiziario ad esempio non si è convinto, approvando a maggioranza il decreto in parola. La ragionevole durata del processo almeno in questa sede si è mangiata il giudice naturale. Vedremo cosa farà il Consiglio Superiore. L'unica cosa certa è che farà bene a prendere una delibera motivata. Dovrà cominciare a dire qual è il nuovo punto di equilibrio ed appunto di contemperamento tra giudice naturale, ragionevole durata, buon andamento della pubblica amministrazione giudiziaria.
Sarà una delibera importante. La sicura sensibilità istituzionale e democratica di molti di coloro che hanno difeso questo decreto , dentro e fuori Md, impone di valutare questa vicenda con equilibrio. Forse è possibile trovare soluzioni intermedie, varare il decreto sottolineandone l'assoluta eccezionalità, e magari stabilire che il collegio destinatario debba essere individuato a sorteggio per evitare ogni residuo di discrezionalità.

Al di là della soluzione del caso, forse - io non credo - controvertibile, di una cosa dobbiamo stare tutti attenti: che la ragionevole durata del processo , obiettivo comune, non diventi l'argomento passepartout per semplificare ogni ragionamento sulla sofisticatissima materia dell'ordinamento giudiziario ed ogni questione processuale, il totem cui portare in dono, anzi: all'ammasso, decenni di elaborazione politico-culturale e scientifica sul modo migliore di avere un processo giusto, civile, democratico, quindi , certo, anche rapido.
Forse dobbiamo tutti solo studiare e ragionare su cosa significhi quell'aggettivo, ragionevole, e quindi su quale sia la ragione cui vogliamo fare riferimento.

Roma , 26 maggio 2001

 

 

 

 

 

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