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Verismo e Decadentismo

Quando Pirandello scriveva le sue prime opere l’Italia era ancora inebriata dalla vaticinante poesia del Carducci e dalle esuberanze espressive e sensuali del d’Annunzio. Egli però non si lascia attrarre da quel genere di poesia e di prosa e mostra già la sua particolare predilezione al canto sommesso, ad una prosa più disarticolata, ad un linguaggio privo di velleità espressive,tendenti solo ad aderire al mondo che andava rappresentando secondo una sua non ancora ben definita concezione della vita:un mondo tragico e grottesco insieme, un mondo privo di ogni ordine in cui l’uomo trascina la propria esistenza dolorante nella vana ricerca di una giustificazione della sua pena. Apparentemente le sue prime novelle e i suoi primi romanzi sembrano collegarsi all’esperienza veristica e, soprattutto, a quelle del suo grande conterraneo Giovanni Verga del quale fu uno dei primi a riconoscere la grandezza e a difendere la validità artistica di fronte alla prosa lussureggiante del d’Annunzio; ma, a ben riflettere, l’animo e il modo col quale si avvicina a quegli stessi ambienti denotano ad una sua ed originale visione del mondo e della vita.

L’arte del Capuana e del Verga vuole essere , almeno intenzionalmente, oggettiva, impersonale:il poeta si colloca fuori dal mondo per ritrarlo con la stessa indifferenza di un obiettivo fotografico.Il modo di rappresentare del Pirandello è ben diverso.Il suo Verismo, se così si può chiamare,è addirittura invadente:egli cioè cerca di riempire di sé i personaggi della è propria fantasia sottoponendoli ad una continua e dolorosa metamorfosi psicologica.In sostanza egli non crea dei personaggi ma dei manichini e li porta in giro per il calvario del mondo e della vita mostrandone la mancanza di personalità e di autonomia.

Se per Verga la vita è dominata dal fato che nella sua imperscrutabilità assume quasi un valore religioso, per Pirandello la vita è dominata dal caos, dal capriccio, dall’arbitrio, e non è possibile evaderne poiché il caos, il capriccio, l’arbitrio non sono fuori di noi, ma in noi stessi in quanto società. Concezione questa già presente nei suoi primi romanzi "Il Turno" e "L'ESCLUSA" ma che diventa più chiara in seguito fino a fare da substrato intellettuale e poetico al "Fu Mattia Pascal". In questo romanzo il protagonista dopo aver tentato, fingendosi morto, di sfuggire alle leggi sociali che lo costringono a vivere con una moglie che non ama e dalla quale non è amato, e con una suocera che odia, dovrà rendersi presto conto che …"fuori dalla legge e fuori di quelle particolarità liete o tristi che siano per cui noi siamo così….non è possibile vivere". Questa è l’amara conclusione del romanzo.

Non è vita infatti quella di Adriano Meis (è il nome assunto dal Fu Mattia Pascal) se non può esercitare nessuna professione, non può stabilire rapporti di amicizia senza doverla necessariamente e continuamente tradire per le menzogne a cui è costretto a ricorrere per nascondere la sua reale condizione di "morto presunto" che non vuole ritornare a vivere, se non può accusare un ladro, se non può amare una cara e dolce fanciulla, se non può acquistare un cagnolino che possa fargli compagnia delle lunghe ore di forzata solitudine.

Siamo, quindi, schiavi ed oppressi se viviamo nella società ma ancora più schiavi, se cerchiamo di vivere fuori di essa.

Pare anzi che l’unica possibilità per cui l’uomo è qualche cosa, se non per sé almeno per gli altri, sia data proprio dalla convivenza sociale per quanto oppressiva questa possa essere. Tutto questo è già fuori dalla tematica verista e fa di Pirandello uno dei maggiori esponenti del decadentismo italiano ed europeo.

Il Decadentismo, infatti, sotto qualsiasi forma si presenti, scaturisce sempre dalla dilacerazione spirituale dell’uomo che acquista coscienza di non poter vivere una vita assolutamente libera, di essere oppresso da forze estranee siano umane che trascendenti.

Ebbene forse nessun altro ha mai portato con estreme conseguenze questa dilacerazione e ne ha rappresentato le cause e gli effetti con tanta potenza artistica e forza drammatica Pirandello, dopo aver rappresentato in "Il fu Mattia Pascal" il dramma di chi deve rinunciare a vivere fuori dalla società di cui avverte il peso e le restrizioni, passa infatti a considerare il rapporto dell’uomo nell’ambiente più ristretto della famiglia e degli amici e il valore che esso viene ad assumere nella loro stima o semplicemente immaginazione. Si ha allora il romanzo "Uno, nessuno e centomila il cui il protagonista, Vitangelo Mostarda, impazzisce e, nella pazzia, cioè nell’essere nessuno, ritrova finalmente la sua libertà, perché si accorge, dopo anni di matrimonio, che la moglie Lucietta non ha amato lui, ossia quello che lui credeva di essere, ma un altro uomo immaginario e tuttavia non meno reale. Noi, infatti, non siamo che quello che gli altri credono di vedere in noi; "Per me, io sono colei che mi si crede" dice tristemente la signora Ponza nella commedia "Così è (se vi pare)".

Tutti, quindi, ci definiscono secondo un loro particolare modo di vedere, ci catalogano o fra i disonesti, fra i coraggiosi o fra i vili per un’azione del tutto fortuita e per niente rispondente a quello che veramente siamo.

Così finiamo col vivere una vita non nostra, ma quella che gli altri ci hanno dato fino ad arrivare al punto di non poterci riconoscere in nessun modo.

C’è una possibilità di essere "qualcuno" per noi? Pirandello lo esclude: non è possibile svestirsi dell’abito che gli altri ci fanno a volta a volta e, capricciosamente, indossare, e alla fine moriamo nudi! "e allora … volli farmela per la morte almeno, una vestina decente… quella di fidanzata; ma per morirci, per morirci soltanto e basta. E bene no! No! Non ho potuto avere neanche questa! Lacerata addosso, strappata anche questa! No, morire nuda! … Questa morta – ecco qua- non si è potuta vestire". Cosi si conclude il dramma."Vestire gli ignudi", dramma fra i più dolorosi che il poeta abbia scritto perché, se da una parte accomuna l’ansia di redenzione da un peccato commesso, ma dal quale ci si sente spiritualmente redenti, dall’altra si vede la drammatica impossibilità di ritornare a vivere una vita pura in una società che giudica unicamente secondo un’astratta scala di valori.

Il pessimismo di Pirandello tocca cosi il suo fondo: la vita dell’uomo diviene quella di una marionetta, di un "pupo" nelle mani di altri innumerevoli "pupi" che credono di poter dire:"io sono". Sono proprio questi ultimi a suscitare quello che è stato definito " l’ umorismo di Pirandello": un umorismo amaro che quando assume toni scherzosi e paradossali, perché il poeta non si ritiene fuori dalla comune sorte di "marionetta" e di "pupo", ma solo di averne coscienza, cosa che certamente non lo rallegra. E proprio questa coscienza e consapevolezza di non poter vivere la propria vita, di essere condizionato dal mondo che ci circonda e ci opprime, che fanno di lui uno dei massimi rappresentanti del Decadentismo europeo e, in particolare, di quella schiera che vede l’uomo annichilito e sgomento nel flusso infinito dell’universo.

 

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