Pensieri Sparsi
Prime esperienze di arrampicata. Pochi giorni fa abbiamo comprato una corda. In effetti non si tratta di una corda intera ma solo di uno spezzone da 20 metri, diametro 11 mm, buona per appenderci un TIR, ma per chi non ha nessuna esperienza seria di montagna più una corda è larga meglio è, no?
Il problema è che dopo la prima uscita su ghiacciaio la calza esterna si è rovinata, direi quasi infeltrita, e la corda ora invece di essere flessibile come dovrebbe si è trasformata in una specie di gomena per ancorare una petroliera, e sembra inamidata da tanto è rigida.
Ad ogni modo se febbraio ti regala un pomeriggio assolato con 20 gradi di temperatura tutte queste lamentele si possono dimenticare, da qualche parte ho letto che negli anni ’30 qualcuno più al verde di noi arrampicava usando un filo per il bucato...
Siamo nel lecchese, su un sasso alto 20 metri che a noi sembra la Nord dell’Eiger, difficoltà dichiarata nel libro - anche questo un recentissimo acquisto, come la corda - di terzo grado. Mi trovo a circa 10 metri di altezza e abbiamo già fatto una sosta perché la corda non scorre. Per cercare i punti deboli della parete continuiamo a muoverci a zig-zag, triplicando la lunghezza della via.
Sono assicurato in sosta e lascio scorrere la corda, Mirko sta arrampicando da primo (come sarebbe avvenuto nei successivi 10 anni, ma allora non lo sapevo).
All’inizio del tiro la progressione era abbastanza spedita, ma all’improvviso la corda si è fermata. Lascio passare un minuto, del resto ci abbiamo messo circa un quarto d’ora per alzarci di 10 metri, poi grido: “Mirko, com’è, più difficile di prima?”.
Nel mio immaginario dietro lo spigolo che mi impedisce di vedere il mio capocordata c’è sicuramente una placca liscia di sesto, magari settimo grado, superabile solo con lancio di corda oppure ricorrendo alla tecnica della piramide umana, Cassin docet.
La risposta, immediata, è: “Abbastanza più difficile”.
Ma che razza di grado è l’ “abbastanza più difficile”?
Sarà un sesto? EX? Magari c’è dell’artificiale?
Fortunatamente la corda riprende a muoversi, e dopo un’ora abbondante ci ritroviamo tutti e due in cima al sasso-parete, sotto i nostri piedi una via di 20 metri che il libro valuta di terzo grado, ma che a me è sembrata la cosa più difficile che un essere umano possa immaginare di arrampicare.
Sono sfinito, giuro a me stesso che mai più metterò le mani sulla roccia.
L’estate successiva siamo in Grignetta, destinazione non ancora decisa. Il libro dice che ci sono diverse guglie, ed ognuna di queste presenta molteplici vie di salita. Ci avventuriamo sul sentiero della Direttissima, che dovrebbe, sempre a parere del libro, portarci proprio sotto alcune tra le pareti più frequentate.
Dopo mezz’ora di cammino vediamo di fronte a noi una parete immensa, ma da quando la Marmolada si è trasferita in Grignetta? Una cordata è impegnata a circa un terzo di via.
Io e Mirko ci guardiamo: lì si arrampica, no? Andiamoci anche noi. Non importa se non sappiamo di che guglia e di che grado si tratti, abbiamo la certezza che di lì sale una via.
Abbiamo gli scarponi da montagna - le scarpette da arrampicata le avremmo comprate solo l’anno successivo – e ci mettiamo un’ora abbondante per due tiri di corda da 25 metri l’uno. Quando torniamo alla base scopriamo, perché ce lo dice la cordata che ci ha preceduto, di aver fatto la via Corti alla Torre.
Io mi lancio in: “Un bel terzo, vero?”
La risposta è: “A dire la verità si tratta di due tiri di quinto”.
Il libro conferma.
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Da allora sono passati più di dieci anni, non so quante volte abbia arrampicato, quanti giorni abbia passato in montagna. Mi è capitato di trascorrere la notte appeso in parete, di dormire all’aperto e senza attrezzatura da bivacco a quasi 4000 metri di quota, Mirko e Andrea mi dicono che ho salito 31 quattromila. Ho sfruttato abbondantemente il loro traino, arrampicando quasi esclusivamente da secondo di cordata, ma nel mio piccolo ho vissuto esperienze che rimarranno indelebili nella mia memoria.
Nel frattempo mi sono laureato, ho avuto la fortuna di incontrare Elena, che ho sposato. Gli impegni di lavoro mi permettono sempre meno di andare in montagna, ma una volta ogni tanto sfrutto i compagni di sempre: mio fratello Mirko, inseparabile capocordata, e Andrea, amico con il quale ho condiviso tante esperienze indimenticabili.
L’anno scorso, sapendo di avere a disposizione i primi giorni di agosto, ho chiesto se potevano essere interessati ad andare sul Bianco.
“A fare cosa? Cresta Ovest delle Jorasses? Les Aiguilles du Diable?” mi chiedono.
“Mi basterebbe fare una passeggiata su ghiacciaio, se poi arrivo in cima per la cresta delle Bosses toccherei veramente il cielo con un dito” è la mia risposta.
In effetti più che una domanda la mia è una supplica: so bene che Mirko e Andrea sono stati in cima diverse volte, e farlo di nuovo per la via normale non deve destare in loro grandi entusiasmi. Però accettano, l’amicizia è davvero una grande cosa.
Inaspettatamente, nonostante la mia totale assenza di allenamento riusciamo a portare a termine l’impresa.
Al rientro a Chamonix guardo la vetta del Bianco, gli occhi mi brillano dalla contentezza.
Andrea e Mirko mi chiedono: “Allora... un commento... un giudizio sull’ascensione...”.
La risposta può essere una sola: “Abbastanza più difficile”.
Silvano Sala Tesciat
20 novembre 2005
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