Les Courtes
Versante nord-est
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22-24 luglio 1997 Mirko, Silvano
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Partenza da casa la mattina presto ma grazie alle interminabili code in autostrada, per arrivare ad Argentiere ci sono volute quasi sette ore. In funivia si arriva ai Grand Montet a 3300 metri di quota, poi si attraversa il ghiacciaio dell'Argentiere, fino all'omonimo rifugio; solo una passeggiata, però con neve ormai molle e scivolosa (sono già le due e mezza). Si inizia a scendere, e si scende parecchio, perché la stazione della funivia è molto in alto e si deve raggiungere quota 2500, poi si attraversa tutto il ghiacciaio fino al rifugio; e ovviamente si risale.
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Il bacino dell'Argentiere; la nord delle Courtes appare sulla destra |
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Il posto in cui si arriva è uno di quelli più straordinari delle alpi, con vista sulle pareti nord di montagne come l'Aiguille Verte, Le Droites, le Courtes, il Triolet, ed ovviamente è frequentato da alpinisti in grado di salirle. Due anni fa ci eravamo già stati, in tenda, ed avevamo evitato l'interno del rifugio, l'ambiente umano, per così dire, ma l'impressione che ne avevamo avuto era stata completamente diversa: sembrava che non ci fossero, quasi, alpinisti diretti a quelle straordinarie pareti e che il 95 per cento delle persone radunate fosse lì per salire la normale all'Aiguille d'Argentiere, come noi, oppure per arrampicare tra le numerose vie di roccia spittate delle pareti che sovrastano il rifugio. Forse allora era così davvero, perché la stagione era ormai tarda e le grandi pareti nord non erano più in buone condizioni, ma quest'anno le cose stavano davvero all'opposto: abbiamo visto e sentito parlare solo persone dirette a pareti nord: una guida diretta alla nord delle Droites, italiani diretti alla via degli Svizzeri alla nord delle Courtes, altre cordate dirette alle Courtes; le stanze dedicate al riposo degli alpinisti diretti a Verte, Droites e Courtes erano piene. Di altre destinazioni nemmeno un accenno. Pensavamo di arrivare in un posto e di essere tra gli alpinisti bravini che lo frequentano, invece ci siamo resi conto che non sappiamo fare un cazzo. Nel modo più assoluto, ci siamo resi conto di essere degli incapaci assoluti e che andare in montagna non sappiamo neanche cosa significa. Ce ne stavamo al tavolo la sera al rifugio in attesa della cena proprio a fare queste considerazioni quando d'un tratto compare e si siede al tavolo vicino al nostro, a due metri di distanza, Jean Christophe Lafaille: avevo voglia di alzarmi e di tornarmene a casa.
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La sfilata delle imponenti pareti nord termina con il Triolet |
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No, non è vero, mi piaceva essere lì; e non è vero che eravamo i più imbranati, tant'è che tra tutte le cordate che il giorno dopo dovevano fare la Nord Est delle Courtes ne sono partite (o almeno ne abbiamo viste partire) solo cinque, noi compresi; e solo due (e di questo sono più che sicuro) sono arrivate in cima, noi compresi. Quindi, forse, proprio incapaci non siamo.
Ci siamo informati subito sulle condizioni del tempo e della parete, appena arrivati, o almeno Silvano si è informato, padrone com'è della lingua del luogo. Del tempo abbiamo sentito quello che sapevamo già: che nel pomeriggio del giorno dopo avremmo avuto cielo coperto e che il giorno successivo sarebbe stato brutto. Per noi andava bene: pressione stabile, mattinata buona, pomeriggio coperto solo negli strati alti. Per il giorno successivo alla salita alle Courtes potevamo pregare in una variazione delle previsioni, per tentare magari la normale alle Droites, ma l'obiettivo principale restava la NE delle Courtes e del resto non ci curavamo molto. Male ci si diceva invece della neve: il tempo era troppo caldo e la neve non gelava. Dappertutto c'era una grandissima quantità di neve e sembrava che la temperatura fosse stata regolata apposta per mantenerla abbondante e molle: troppo freddo per scioglierla abbastanza, troppo caldo per lasciarla gelare. La padrona del rifugio ci aveva informato che la neve gelava solo intorno alle cinque del mattino, cosa che abbiamo puntualmente osservato falsa: per tutta la parete avremmo trovato neve cattiva, molle, a volte tanto da sprofondare fino oltre il ginocchio; a volte migliore, ma gelata mai. Ci aveva informato anche delle condizioni della cresta sommitale, che avremmo dovuto seguire per la via di ritorno, o meglio di discesa: dovevamo scendere dal versante opposto, in direzione del Refuge du Couvercle: la cresta era abbondantemente innevata e il Col des Cristaux, da cui avevamo in programma di passare per scendere era troppo pericoloso per via delle enormi cornici instabili che lo orlavano. Ringraziamo dell'informazione, prendiamo nota e decidiamo di scendere per la via normale, che sebbene più innevata e non in buone condizioni sarebbe stata forse più complicata, ma certo più sicura. E non meno importante, più corta.
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La parete nord delle Courtes |
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Diciamo di volerci alzare intorno all'una: vogliamo arrivare alla spalla per le cinque, in tempo per affrontare il pendio finale, ripido, quando la neve, secondo la padrona del rifugio, è gelata. Ci sistema nella stanza di quelli che partono per la Verte, ci dice, perché quelli che vanno alle Courtes si alzano alle due. Questo secondo lei, perché quello che vediamo in realtà la mattina successiva, quando ci alziamo, è che nessuno sta andando verso la Verte, nessuno verso le Droites, solo qualche cordata verso le Courtes. Questo ancora non me lo spiego, il perché sul ghiacciaio che separa il rifugio dalle pareti Nord non si vedeva nemmeno una luce di pila frontale, nemmeno un puntino in movimento. Quello che credo è che tutti siano partiti in anticipo sui tempi soliti, previdenti delle cattive condizioni della neve, e che al momento della nostra uscita chi voleva andare alla Verte o alle Droites, doveva già essere lontano, probabilmente già in parete. Oppure tutti hanno avuto paura del brutto tempo che potrebbe arrivare e non si sono mossi dal letto...
Quando usciamo dal rifugio ci rendiamo conto immediatamente che la temperatura è troppo calda: non sentiamo freddo, non c'è vento, non usiamo guanti, abbiamo bisogno di un solo pile, io uso quello leggero. Siamo almeno cinque gradi sopra lo zero, e quando tocchiamo il ghiacciaio lo troviamo ovviamente in cattive condizioni: all'una e mezza di notte sul ghiacciaio si affonda di una trentina di centimetri. Camminiamo piano; a metà ghiacciaio ci fermiamo per legarci, osserviamo le luci delle frontali di una cordata sulla via degli Svizzeri; un'altra cordata appena davanti a noi si sta dirigendo verso la stessa via. Mentre siamo lì fermi ci raggiungono tre altre cordate, partite pochi minuti dopo di noi dal rifugio, e ci superano: sono dirette come noi alla NE delle Courtes. Poi vediamo un'altra cordata diretta alla via degli Svizzeri. A questo punto ci sono sette cordate in movimento: una in parete sulla via degli Svizzeri, due dirette alla stessa via, quattro, noi compresi, dirette alla NE. Degli italiani che la sera precedente ci avevano detto di voler fare la via degli Svizzeri nemmeno l'ombra: dovevano alzarsi a mezzanotte e partire presto e noi pensavamo che fossero i due già impegnati in parete, gli unici che non avevamo visto in faccia, ma avremmo scoperto poi, una volta in cima, che l'unica cordata partita veramente presto per la Nord era costituita da due inglesi; li avremmo incontrati proprio sulla cima. Non mi tornavano i conti e avrei mantenuto la stessa impressione per tutta la giornata: avevamo passato la serata ad ascoltare discorsi mirabolanti di salite e pareti Nord e adesso non vedevamo in giro nessuno: erano partiti in pochi, non quanti ci aspettavamo, e durante la salita avremmo assistito ad una serie continua di ritiri. Tanti discorsi e nessun risultato era la sensazione che mi sarebbe rimasta dentro e che avrebbe rafforzato la mia convinzione, una volta di più, che ascoltare i vanti di chi non si conosce è quanto di più inutile, insensato e controproducente si possa fare. Per il proprio morale, intendo dire.
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La parete nord delle Droites |
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Dopo un'oretta di ghiacciaio arriviamo alla base del primo pendio; la montagna inizia a salire dolcemente ed aumenta la sua pendenza con regolarità, senza strappi bruschi. Appena la pendenza si fa faticosa peggiora anche la consistenza della neve, si affonda al ginocchio ormai e la cordata più vicina a noi arranca con fatica; all'ennesima scivolata i tre si fanno da parte e ci lasciano passare; indubbiamente la meno preparata delle cordate del gruppo, procede molto lentamente. Le altre due ci precedono di una cinquantina di metri. Intanto la pendenza continua ad aumentare; ad un centinaio di metri dalla crepaccia terminale si fermano per mettersi i ramponi; ne approfittiamo anche noi, facciamo una breve sosta per riposare e per bere un sorso d'acqua. Quando ci accorgiamo che la sosta si fa troppo lunga decidiamo di passare in testa; sono avanti io a battere la pista ed è piuttosto faticoso; arrivo fino alla crepaccia terminale seguendo l'ombra di un vecchio passaggio non completamente cancellato: porta direttamente ad un salto verticale di tre o quattro metri; il muro al di là della crepaccia è brutto, insidioso, instabile; sarebbe necessario salire a forza di ramponi e piccozze ma la neve è pessima e una piccozza infissa con tutto il manico nella neve non basta a reggere il peso di una persona e raggiungere il proseguimento delle tracce al di sopra del muro sembra impossibile. Rimaniamo qualche istante ad analizzare la situazione; intanto le due cordate veloci ci raggiungono. In testa c'è una guida cha appena arrivata fa un tentativo, osserva, poi torna sul pendio sottostante e mi chiede se voglio andare io. Roba da matti: ma che razza di guida è? L'ultima cordata fa in tempo ad avvicinarsi alla terminale, ad osservare la situazione e a piazzarsi a dieci metri di distanza in attesa che qualcuno faccia qualcosa.
Inutile aspettare; io e Silvano scendiamo di pochi metri e costeggiamo la terminale verso destra fino quasi alle roccette dello sperone che delimita il pendio; arriviamo al punto in cui la terminale si restringe ed il muro soprastante è meno ripido e più compatto, segnato da una linea di caduta di una slavina, che ha scoperto una traccia di neve più dura. Salgo io; il muro non è verticale, ma supera comunque di parecchio i 60°. In tutto una decina di metri, poi migliora di poco e per un'altra cinquantina di metri rimaniamo sopra i 50°. Ci va bene, però, perché la neve qui è buona. Silvano intanto chiama le altre due cordate per avvertire che dove siamo noi il passaggio è migliore. Ancora stavano trafficando con il muro del passaggio originale, ma senza perdere tempo al richiamo si avvicinano; attraversano e superano la crepaccia terminale; noi siamo già parecchio avanti. L'ultima cordata arriva al punto di attraversamento ma non supera la crepaccia e decide di tornare al rifugio. Siamo rimasti in tre cordate.
Dopo qualche minuto ci accorgiamo che continuare a seguire la linea della slavinetta in cui ci troviamo non va bene e che è necessario ritornare a sinistra per riportarci in piena parete: ci stiamo dirigendo troppo vicino al limite dello sperone roccioso che ci sovrasta. Usciamo così dallo scivolo e iniziamo un traverso che in un paio di delicati tiri di corda, corti, ci riporta sulla linea di salita corretta; gli altri ci vedono e capiscono quello che stiamo facendo, quindi escono anche loro dallo scivolo, più in basso di noi, e continuano a salire in diagonale, fino ad intercettare la nostra traiettoria e a passarci a pochi metri di distanza. Li lasciamo andare perché sono più veloci di noi. Noi continuiamo a fare le cose con calma; e con testa, soprattutto, cosa che non sembrano fare i nostri vicini di cammino, guida compresa. La salita si fa monotona e sempre più faticosa; il cielo è incerto sul da farsi ed alterna istanti di sereno a istanti di fitta nuvolosità; nuvolosità alta, fortunatamente.
Nella progressione rimaniamo a distanza costante dai francesi che ci precedono ed andiamo tutti piuttosto piano, ma circa a metà parete ci accorgiamo che il distacco si va riducendo. Ci rendiamo conto che non si stanno più muovendo solo quando siamo ormai molto vicini e quando li raggiungiamo vediamo che la guida inizia a calare le altre tre persone (entrambe le altre due cordate) su corda singola: tre persone calate contemporaneamente su corda singola assicurata da una piccozza, non è uno scherzo. Comunque il fatto è che anche loro si stanno ritirando e che noi rimaniamo soli in parete. Silvano scambia poche parole con la guida che interrompe così per un attimo gli insulti che sta lanciando ai suoi clienti, colpevoli di non sapere nemmeno come comportarsi durante la calata; veniamo a sapere che la linea di salita migliore è quella che piega leggermente verso destra; vediamo anche qui una linea di vecchie tracce. E' qui che do per la prima volta un occhiata all'altimetro; errore imperdonabile perché lo avevo regolato la sera prima al rifugio e poi non lo avevo più toccato; non riesco a credere ai miei occhi: poco più di quota 3300! Non è possibile: se è vero ci stiamo muovendo con un ritmo di 120 metri di dislivello all'ora! Lo vedo che siamo lenti, che siamo stanchi, ma per la prima metà della parete non eravamo andati così piano! Sono deluso e preoccupato perché le previsioni dicono che arriveremo in cima intorno alle 11. Durante il resto della salita tengo costantemente d'occhio l'altimetro e l'orologio e vedo che le previsioni non cambiano: ci muoviamo con un ritmo di poco superiore ai 100 metri all'ora e siamo spaventosamente in ritardo.
Ad un certo punto sentiamo sferragliare dietro di noi, ad un centinaio di metri di distanza. Una nuova cordata di francesi si sta facendo sotto e rimonta la parete a grande velocità; sono su una linea di salita molto più a sinistra della nostra e cercano di guadagnare una spalla sul limite sinistro della parete e sono su neve migliore della nostra considerato che una volta sentiamo addirittura battere un chiodo; noi continuiamo invece sempre in conserva a sette o otto metri e corda tesa in neve pessima. Mi chiedo se quella mirata dalla cordata in arrivo possa essere la spalla menzionata dalla relazione, la spalla da cui la pendenza della parete dovrebbe diminuire, ma secondo il mio altimetro si trova almeno duecento metri più in basso. In verticale sopra di noi, invece, si scorge una linea di cresta che interrompe la parete; la interpreto come la vera spalla e continuo perciò a seguire la traccia che le si avvicina direttamente. Durante l'ultima oretta di fatiche penso e spero, sogno, che il limite del muro ripido non sia solo la spalla ma addirittura la cresta sommitale e solo all'ultimo momento, a una trentina di metri di dislivello dalla linea di cresta, Silvano mi dice di avere la stessa speranza; non ci voglio credere perché se la speranza dovesse restare delusa finirei col sentirmi troppo male e stanco per i duecento metri di parete che resterebbero da salire; e poi il mio altimetro continua a dire 3600. E' la quota della spalla.
Quando la raggiungo vedo invece che si tratta veramente della cresta di vetta; arriva anche Silvano, siamo stanchi, sfiniti, ma felicissimi e dopo sette ore di cammino dal rifugio siamo quasi in cima. Con gli occhi sui panorami dell'Argentiere e della Mer de Glace consideriamo quello che era successo, consideriamo che la cordata di francesi, che nel frattempo abbiamo ridistanziato, si era diretta sulla vera spalla seguendo la linea di salita raccomandata dalle guide, consideriamo che noi, senza deviazioni, eravamo rimasti per tutta la lunghezza della parete sulla linea diretta che scende dalla cresta sommitale su pendio ripido, consideriamo che l'altimetro non aveva fatto che prenderci in giro e che negli ultimi cinquanta metri di dislivello si era mosso di quasi duecento. Soprattutto consideriamo che siamo quasi arrivati in vetta. Ci riposiamo alcuni minuti e poi ripartiamo lungo la crestina di roccette e ghiaccio fino alla cima. Ci arriviamo poco prima delle nove, in tempo per un paio di fotografie assolutamente inespressive, circondati come siamo da un'impenetrabile nebbia.
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Silvano in cima alle Courtes |
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Abbiamo fatto appena in tempo a raggiungere la cima, ma adesso siamo circondati dalle nuvole ed inizia dapprima a grandinare, poi a nevicare, sempre più fitto. Restiamo seduti pochi minuti perché fa un gran freddo e non riusciamo a rimanere fermi più di tanto. Appena ripartiamo in direzione della cresta della normale incrociamo due inglesi che arrivano dalla parte opposta, saliti dalla via degli Svizzeri, parete nord. Era la prima cordata partita la mattina; noi crediamo quella impegnata in parete mentre noi attraversavamo il ghiacciaio. Ci dicono di volere scendere dalla cresta opposta, per il Col des Cristaux, ma dopo che li abbiamo informati delle condizioni comunicateci dalla padrona del rifugio cambiano idea e dicono che scenderanno dalla normale anche loro, che ci seguiranno. Intanto si alza un grandissimo vento, incredibile, fastidioso nell'aria fitta di cristalli di ghiaccio: non si riesce a respirare, non si riesce a tenere gli occhi aperti; siamo costretti a mettere gli occhiali da sole, ma le cose cambiano di poco ed è quasi impossibile guardarsi intorno, impossibile capire dove ci si trova, impossibile guardare la linea di discesa, controllare quale può essere la migliore, controllare se è possibile un passaggio, distinguere tra la cresta principale ed uno sperone secondario, distinguere tra un pendio di neve ed un semplice canalino; impossibile capire da quale parte ci si deve dirigere, anche perché le nuvole riducono di molto la visibilità e anche quando si riesce a tenere gli occhi aperti per un due secondi consecutivi, non si vede a più di venti metri di distanza. Arriviamo sulla sommità di una piccola torre, proprio in cresta e ci fermiamo per valutare la situazione; gli inglesi che inizialmente avevano preso per una diversa crestina secondaria sono tornati sui loro passi ed adesso ci raggiungono; a poca distanza la cordata di francesi che ci aveva seguito sulla Nord Est. Ci guardiamo intorno per quanto possibile, scambiamo le nostre impressioni e le nostre valutazioni, ma per qualche minuto rimaniamo completamente bloccati. Ad un certo punto abbiamo la fortuna di un calo del vento contemporaneamente ad una improvvisa schiarita verso valle e possiamo distinguere la cresta di discesa, proprio davanti a noi e i pendii di neve che scendono in direzione del rifugio; più lontana la Mer de Glace. Gli inglesi sono già stati in questo posto e al mio richiamo di avvertimento nell'istante della schiarita, il capo-cordata esordisce con un categorico "I am shure now!": dice di avere riconosciuto la linea di discesa. Si deve aggirare la torre su cui ci troviamo da destra, per un pendio di neve e quindi immettersi nel canale appena sotto. Io non posso che immaginare che il canale che ci mostra sia una via d'accesso ai pendii di neve della normale. Partono gli inglesi, quindi i francesi e poi noi; la neve è pessima, si affonda fino alla coscia, ed il vento torna ad infuriare: per gran parte della discesa devo muovermi alla cieca, con gli inutili occhiali scuri ed il cappuccio di lana infilato fin sotto al naso. Do un'occhiata verso il basso ogni trenta secondi per assicurarmi della correttezza della linea di discesa.
Il canale risulta più lungo del previsto; va avanti Silvano; io resto dietro, più sopra, a una decina di metri e andiamo di conserva, a corda tesa. Scendiamo piuttosto lentamente e le altre due cordate si allontanano presto; dopo un'oretta di discesa gli inglesi scompaiono nel fondo di uno stretto canalino vetrato, li vediamo piegare leggermente verso destra nel punto in cui il canalino - punto terminale del canale più ampio in cui ci troviamo - sfocia su un pendio di neve aperto. A giudicare dal punto in cui siamo ho l'impressione di avere raggiunto i pendii di neve che sognavo, quelli della normale, punto da cui la discesa sarebbe diventata una semplice passeggiata, neve o non neve, vento o non vento; nebbia o non nebbia. Pensavo che la stanchezza di scendere per quel canale che non sembrava finire mai, lunghissimo, di neve molle, instabile e pericolosa, di 45° buoni di inclinazione avrebbe avuto termine presto, alla base di quel canalino stretto. Niente di più sbagliato: il canale diventava semplicemente più ampio per un piccolo tratto e piegava di poco verso destra; la normale era da tutt'altra parte, l'inglese si era sbagliato: la realtà era che avevamo fatto meno di 150 metri di canale e che ce ne restavano da fare altri 800!
La storia della discesa per quel canale, un toboga di neve molle e malsicura, è una storia di monotonia, pericolosità e incertezza costante; tutta la discesa si è svolta a calate di 50 metri: io restavo in alto, calavo Silvano per tutta la lunghezza di corda; lui preparava un'assicurazione con le piccozze nella neve quindi lo raggiungevo io, passo passo; li ho contati: da 150 a 170 passi per ogni lunghezza di corda, e ogni lunghezza non finiva mai; inutile dire della sicurezza psicologica che danno due piccozze nelle neve molle quando devono reggere una scivolata potenziale di cento metri. Ogni manovra, ogni calata, ci prendeva in tutto dai 15 ai 20 minuti. Sempre nella stessa neve, sempre sulla stessa pendenza, sempre con le stesse assicurazioni e le stesse manovre, a volte con un'assicurazione un poco migliore, fatta su uno spuntoncino di roccia al margine del canale, dove era possibile. Arriviamo al termine di quella ventina di calate, forse di più, al termine di quell'infinito canalone, fin sopra all'ultimo sperone roccioso sopra al ghiacciaio. In un canale sempre uguale, sempre con la speranza che la calata in corso potesse essere l'ultima, con la speranza che la pendenza della neve diminuisse e che diventasse possibile procedere un po' più speditamente a faccia in avanti. Ma mai niente da fare. Le altre cordate sono sempre state fuori vista e noi crediamo di avere almeno tre ore di svantaggio su di loro che vedevamo procedere speditamente di conserva nel primo tratto di canale. Vedevamo però qualcosa che ci sembrava ricordare delle rade tracce di passaggio, che ci confermavano che anche loro dovevano avere seguito il canale e che non lo avevano lasciato in direzione delle rocce di destra. Ad un certo punto, ancora nel canale, Silvano scorge una sagoma in fondo alla parete e dice di vedere gli inglesi alla base dello sperone, quello che delimita a destra il canale. Se era vero avevamo davvero quelle tre ore di ritardo; più in basso vediamo una traccia di orme scendere dal ghiacciaio e non abbiamo più dubbi: dovevano essere loro, già approdati al ghiacciaio e in cammino verso il rifugio. Uniche varianti in tutta la discesa una calata in corda doppia vera e propria, fatta su un cordino abbandonato immaginiamo proprio dagli inglesi e un bel bagnetto sotto ad una cascata di acqua gelata, nel bel mezzo del canale. Durante tutto il tempo le nuvole erano andate e venute, intorno a noi, e diverse volte avevamo avuto la possibilità di valutare la distanza dal ghiacciaio sottostante e dal rifugio. Mai abbiamo visto il sole. Fortunatamente il vento aveva fatto in tempo a calmarsi e non ci aveva dato fastidio nel canale.
Arriviamo alla fine del canale anche noi finalmente, in cima a quello sperone roccioso che dal ghiacciaio si alza in verticale di almeno centocinquanta metri. Le condizioni del tempo peggiorano rapidamente, le nuvole si rifanno fitte intorno a noi e inizia a piovere a dirotto; quando iniziamo a sentire i tuoni lontani iniziamo ad avere paura; quando invece iniziano i fulmini si levano anche le parolacce: abbiamo almeno cinque chili di materiale metallico a testa, addosso, e sentire fulmini non fa piacere. Valutiamo il da farsi, siamo bagnati fradici, restare fermi per un minuto basta a farci tremare, non siamo attrezzati per un bivacco; è impossibile rimanere dove siamo, è impossibile decidere di non raggiungere il rifugio al più presto. Ci leghiamo a pochi metri e scendiamo in conserva per i primi cinquanta metri di facili roccette. Arriviamo dove lo sperone termina con i suoi ultimi cento metri di placche verticali; le tracce degli inglesi sono sparite da un pezzo. Con un paio di calate lunghe forse riusciamo a raggiungere il ghiacciaio; ci sembra l'unica soluzione degna di essere presa in considerazione. Dal punto in cui siamo scende verso destra un ripido canalino di roccette marce; non sarebbe nemmeno impossibile da fare in arrampicata se le rocce fossero più stabili ma non ci si può fidare di nessuna. Calarsi per le placche sembra un suicidio perché sarebbe impossibile trovare ancoraggi di calata intermedi e noi non abbiamo chiodi: possiamo affidarci solo a spuntoni di roccia su cui lasciare una fettuccia. Il primo spuntone lo abbiamo già individuato: è di fianco a noi ed è ottimo. Decidiamo di calarci lungo il caminetto pregando il cielo di riuscire a recuperare le corde senza troppi problemi, senza fare incastrare il nodo e senza farci franare addosso sassi troppo grossi. Scendo io per primo; con la prima calata, lunga anche perché la discesa non è perfettamente verticale e sono costretto a rirecuperare e rilanciare la corda a diverse riprese per arrivare al termine, arrivo fino ad un terrazzino piuttosto comodo; le corde bastano appena, sono almeno 48 metri di calata. La cosa migliore è che lo stesso caminetto lungo cui sono sceso sembra proseguire fino alla base dello sperone e con un po' di fortuna la prossima calata dovrebbe bastare. Ho già individuato lo spuntone per la prossima assicurazione, buono quanto il primo, anche questo messo lì dov'è dal Cielo. Il posto in cui mi trovo sembra estraneo al resto della parete, curiosamente protetto su tutti i lati; lo stesso spuntone d'assicurazione non ha nulla in comune con la struttura del resto del luogo. La cosa peggiore è che le corde sono inzuppate d'acqua e che oltre a non scorrere bene nell'otto durante lo scorrimento si strizzano e mi riversano addosso un flusso costante d'acqua sporca, come da un rubinetto aperto al massimo; come se non fossi già bagnato abbastanza. Quando mi raggiunge Silvano recitiamo mentalmente una preghierina prima di recuperare le corde; le cose non potrebbero andare meglio: nessun incastramento e solo pochi sassolini minuscoli scaricati dal caminetto.
Siamo in un posto comodo, oltretutto, ed abbiamo tutto il tempo per decidere della prossima calata. Dal nostro terrazzino scendono due caminetti: uno è il proseguimento di quello della prima calata, sembra il più lungo ma arriva direttamente sul pendio nevoso facile, meta della nostra discesa; l'altro rientra verso il canale originale della nostra discesa, non ne vediamo la fine, ma deve essere più corto; siamo sicuri che prendendo il secondo caminetto si arriverebbe con una sola calata nel canale e poi, forse per neve ancora un po' ripida, al pendio nevoso. Decidiamo per il primo caminetto, più lungo ma più sicuro, solo sperando di riuscire a completarlo con una sola calata. Ancora scendo prima io; anche questa volta devo rilanciare le corde a più riprese e solo a metà calata mi accorgo che i capi delle corde raggiungono comodamente il pendio nevoso. Sono felice e lo comunico immediatamente a Silvano: ormai le cose complicate sono finite e la marcia fino al rifugio non sarà che una faticosa formalità. Silvano completa velocemente anche questa ultima lunghissima calata e anche questa volta non abbiamo il minimo problema nel recupero: un po' di fortuna in una giornata come questa ci è dovuta, dopo tutto.
Rimaniamo fermi a raccogliere e ripiegare le corde alcuni minuti; ci riposiamo un po' e quando il freddo ricomincia a farsi sentire al di sopra della felicità ci rimettiamo in marcia. Il pendio inizia sui 40°, poi spiana un po', ma dopo quello che abbiamo visto e fatto oggi non abbiamo problemi a scendere di corsa a faccia avanti. Silvano è avanti e si ferma quando raggiunge un crepaccetto; lo oltrepassa con un salto lungo; poi tocca a me, stesso salto, ma quando arrivo dall'altra parte affondo nella neve fino alla vita e impiego parecchio tempo per divincolarmi dalla morsa della neve, perché ho gli scarponi con i ramponi ancora calzati incastrati nella neve, compattata sotto di me. Faccio appena in tempo a disincastrarmi che un ragazzo mi si affianca scivolando sul pendio alla mia destra. Riconosco in lui uno dei due inglesi; il compagno è appena sopra di lui e i due francesi distanziati di una trentina di metri. Sono arrivati anche loro proprio in questo istante! Noi ce li facevamo già al caldo e all'asciutto, al rifugio, da un bel pezzo, e invece erano rimasti a vagare per le rocce dello sperone fino ad adesso, in cerca di un modo per scendere. Alla mia domanda di dove fossero stati tutto quel tempo avevo ricevuto in risposta un emblematico "Everywhere!". Mi ci riconoscevo, ma loro, con tutto il vantaggio che avevano su di noi, dovevano avere fatto un bel su e giù per ritardare fino a quell'ora il loro arrivo sul ghiacciaio.
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Il versante sud delle Courtes ripreso dal refuge du Couvercle; come si vede in perfette condizioni estive |
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Il resto del ritorno non è stato che una normale camminata; prima un lungo giro per evitare un complesso e invalicabile sistema di crepacci, poi la lunga traversata in direzione del Refuge du Couvercle. Gli inglesi ci distanziano subito, vanno davvero forte; i francesi poco meno, anche loro ci superano e ci lasciano indietro. Li reincontriamo dove si fermano a slegarsi, al limite della neve, dove inizia il sentierino che sale al rifugio, sentierino che non eravamo sicuri di saper trovare. Ci fermiamo solo per toglierci i ramponi, quindi ripartiamo con la corda a spalla. Al rifugio arriviamo tutti insieme alle sette e mezza, dopo 18 ore di cammino, 11 di discesa, con le caviglie a pezzi a causa degli scarponi rigidi, con uno stiramento al ginocchio destro e con le spalle doloranti come non le ho mai avute. Ma per adesso sono solo felice di essere arrivato, felice che siamo tornati. E siamo tornati dalla Nord Est delle Courtes, la salita più difficile che abbiamo fatto fino ad oggi; la discesa più difficile che abbiamo fatto fino ad oggi; curioso che la discesa sia stata più difficile della salita.
La mattina abbiamo dormito fino alle otto; dieci ore di meritato sonno; ci siamo svegliati con il rumore della pioggia nelle orecchie: l'avremmo avuta come compagna per tutta la marcia di ritorno verso Montenvers. Inutile pensare alle Droites: distrutti come siamo ci va già bene se arriviamo alla stazione del trenino e poi con la neve e il ghiaccio che ha messo giù ieri la normale diventa complicata; poi non consideri che sono le otto di mattina e sta piovendo e che se vuoi salire sulle Droites lo devi fare domani; e poi considera che anche se domani ti sentissi meglio la montagna sarebbe nelle stesse identiche pessime condizioni di adesso e che le previsioni del tempo non dicono niente di buono. La conclusione è una sola: ce ne torniamo a casa. Appena mettiamo il naso fuori dal rifugio smette di piovere e facciamo tutta la strada quasi al caldo; sulla Mer de Glace non abbiamo problemi a trovare la linea di passaggio a parte qualche zig-zag di troppo proprio alla fine; appena arriviamo alle roccette che risalgono verso la stazione inizia però di nuovo a piovere e il quarto d'ora di ferrata e sentierino che ci manca basta a farci infradiciare completamente.
Prendiamo il trenino fino a Chamonix, poi un taxi fino a Argentiere, dove abbiamo la macchina: per il treno per argentiere è necessario aspettare un'ora e mezza e decidiamo che possiamo fregarcene, per questa volta, dei soldi del taxi. Torniamo poi a Chamonix per un buon pranzo a base di hamburger giganti, quattro, quelli del "Chamburgher" e per una passeggiata per il centro del paese. Alle cinque ripartiamo in macchina e quattro ore dopo siamo a casa, barcollanti e a pezzi. E' stato ieri, mi fanno ancora parecchio male le gambe, ma domani ripartiamo alla volta del Dente del Gigante. Non vedo l'ora.
Mirko Sala Tesciat
1997
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