home Green Rock Alpine Club

attivita

4000

arrampicata

alpi

relazioni

diari

storie

fotografie

4000

arrampicata

altre montagne

club

membri

contatti

guestbook

link

vari

sito

mappa

news

updates

disclaimer

diaristorie


attivita

relazioni

fotografie

club

link




home diari Polluce scheda       precedente successivo

Polluce

Via normale, cresta sud-est

10-11 luglio 1999
Mirko, Andrea

Questa volta al Polluce dovevamo essere in parecchi: io, Silvano e Galis, al solito, poi anche Barbara e Tiziana e Michele. Poi è successo un casino: Michele è stato a fare una passeggiata in Valtellina, da solo, è scivolato su un sentierino, è caduto male e si è lesionato i legamenti del ginocchio destro; ne avrà per tutta l'estate; Silvano è stato invitato per una festa di addio al celibato di un compagno di master; Tiziana non sta bene e Barbara ha preferito andare a fare una corsa, non so dove. Siamo rimasti in due. Come la canzoncina: se prima eravamo in sei a dovere andare al Polluce, adesso siamo in cinque a dovere andare al Polluce... se prima eravamo in cinque... Fino al due. Praticamente ce la siamo passata tutta nelle diverse telefonate che io e Galis ci siamo scambiati prima della partenza per comunicarci l'evolvere degli eventi... e dei partecipanti. Anche al rifugio ha dovuto telefonare: ha chiamato una prima volta per prenotare per sei persone, poi per quattro, poi per tre. Ci presenteremo in due. Peccato.

Il viaggio di andata è stato più tranquillo della settimana passata: niente gran premi da superare. Non abbiamo fretta perché questa volta il viaggio è più corto e non abbiamo veri e propri orari massimi da rispettare; oltre al fatto che riusciamo anche a partire una mezz'oretta più presto. Non esistono funivie che salgono da St. Jaques in Val d'Ayas ma, come già abbiamo fatto una volta qualche anno fa, potrebbe essere utile avvalersi dell'aiuto di una jeep che ci potrebbe portare fino all'Alpe di Pian Verra superiore: dai 1600 metri del paese ai 2400 dell'alpe è un bel guadagno. Alla partenza non abbiamo idea di cosa faremo, anche se a me personalmente farebbe molto piacere evitarmi la camminata 'supplementare' fino all'Alpe: prima di tutto perché gli zaini non sono da poco con tutta l'attrezzatura che ancora ci dobbiamo tenere in spalla, e domani avremo da fare un bel po' di fatica; poi perché non si sa come si metterà il tempo: sono previste perturbazioni e precipitazioni per il pomeriggio e non ho una gran voglia di farmi tutta la camminata fino al rifugio sotto l'acqua. Le due ore che la jeep ci farebbe risparmiare potrebbero essere due ore di pioggia in meno. Povero, giovane, inesperto, sfaticato ragazzo; ma non lo sai che una volta per raggiungere il rifugio Mezzalama non esistevano le jeep e bisognava partire a piedi da St. Jaques? Anzi, da Champoluc. Anzi, da Quincinetto. A parte il fatto che da St. Jaques al Mezzalama me la sono già fatta a piedi una volta, sotto la grandine... ma chi se ne frega? In questo momento penso solo alle due ore di pioggia risparmiabili.
In Val d'Ayas ci arriviamo poco dopo le tre ed è chiaro fin da subito che il tempo fa abbastanza schifo. Dibattiamo un po' sul da farsi e alla fine conveniamo definitivamente che sarà meglio abbreviare la salita affidandoci alla jeep per il tratto fino all'Alpe. Attraversiamo l'ultimo tratto della valle fino a St. Jaques lentamente e con attenzione, per individuare il bar in cui si può chiedere per il passaggio in macchina, ma non lo notiamo; solo un posto mi sembra vagamente familiare; una volta conoscevamo il nome del bar, ma ora proprio ce ne siamo dimenticati. Arrivati fino al paese senza ispirazione, giriamo la macchina e riprendiamo al contrario la ricerca del bar. Raggiungiamo il posto che mi era sembrato familiare ed è proprio quello giusto: "Le Petit Coq", ora che lo leggo meglio mi ricordo anche del nome (il piccolo uovo alla ...coq...).
Dentro troviamo una signora sulla trentina e una ragazzina; alla signora chiediamo della jeep e dopo un breve dibattimento via radio con suo marito ci dice che ci porterà su lei. Andiamo al parcheggio del paese in macchina, ci prepariamo e quindi lei ci raggiunge con un vecchio Toyota, enorme e ben molleggiato. Ci porta fino all'Alpe di Pian Verra Superiore, ai suoi 2400 metri di quota; per strada si chiacchiera delle montagne delle nostre ultime estati, e dell’eventualità di schiacciare qualche marmotta in macchina per farsela arrosto... una ragazza simpatica, questa guidatrice.

Per i seicento metri di dislivello che ci mancano fino al Mezzalama le guide indicano tempi medi di salita di un'ora e quaranta. Abbiamo tutte le intenzioni di metterci di più. Partiamo pianissimo e ci fermiamo spesso: gli zaini non sono da poco, non ci vogliamo minimamente stancare e i fiori che incontriamo valgono qualche tentativo di fotografia. Vediamo anche degli stambecchi, purtroppo lontani, sulla cresta della morena che inizialmente ci sovrasta, e delle marmotte (e relative speculazioni gastronomiche); ad un paio riusciamo ad avvicinarci molto e a scattare qualche foto. La salita termina ripida; andiamo sempre piano e arriviamo al rifugio appena in tempo per evitare le prime goccioline di pioggia. Tempo di salita: esattamente l'ora e quaranta dichiarata dalle guide. Molto bene, domani saremo in forma.

Nel rifugio c'è un gruppone di gente, tutti insieme, ma provenienti dai più diversi posti d'Italia: c'è un romano, un napoletano e diversi lombardi. La famiglia dei gestori si compone dei due coniugi e di un simpatico ragazzino di otto anni con cui faremo conoscenza più tardi. Per via del tempo il gestore è scettico circa le nostre possibilità di salita per l'indomani, ma per ora preferiamo non preoccuparci. Come sempre siamo sicuri che il tempo sarà brutto tutta la sera, che migliorerà nella notte e che sarà bello nella mattina fino ai rannuvolamenti del pomeriggio successivo. Uno schema che si è ripetuto sempre uguale per settimane in questi mesi dal tempo instabile. Il gestore ci liquida con un "va bene, poi ne riparliamo". Poco dopo di noi arrivano al rifugio due tipi di Firenze, marito e moglie, giunti a piedi dal passo della Bettolina; li avevamo visti salire e nell'ultima ora di strada li avevamo distanziati di almeno mezza. La ragazza arriva con un'aria piuttosto stravolta. Facciamo subito conoscenza e iniziamo a chiacchierare - Galis soprattutto, ovviamente - di viaggi e montagne. La conversazione dura tutta la sera; anche a cena: mangiamo allo stesso tavolo. Si parla dei pericoli dell'alpinismo; la ragazza si mostra abbastanza spaventata e confusa in proposito e Galis le racconta di tutto per dirle di come in realtà non ci sia niente di pericoloso quando le cose si fanno nel modo giusto e senza superare i limiti delle proprie possibilità. Arriva a dirle che una salita al Polluce per lui non è più pericolosa che l'attraversare la strada a Firenze per lei. Non so quanto possa essere giusto, ma a tratti lei sembra convinta. Ad ogni modo è una compagnia piacevole; anche i gestori sono simpatici e cordiali, in modo particolare la signora, più aperta e socievole. Io, al solito, resto ad ascoltare e a guardare dal mio angolino scuro.
La cena è molto buona: una pasta al ragù e una scaloppina non ci fanno certo rimpiangere di non avere portato cibo nostro negli zaini; abbiamo appena un panino per domani e qualche barretta energetica. Dopo cena ci infiliamo subito a letto: sono le nove passate e ci aspetta una sveglia per le due e venti. Intanto la pioggia continua ad aumentare. In camera ho la sorpresa di vedere il soffitto sgocciolare proprio sul mio materasso; per fortuna mi posso spostare dove voglio: siamo gli unici due occupanti di un intero camerone, completamente foderato di materassi e coperte. Passo una buona notte, cullato dal rumore della pioggia sul tetto.
A tratti mi sveglio e controllo le condizioni del tempo, senza aprire gli occhi. Alle due parlo con Galis, anche lui sveglio da poco; ho solo poche parole da dirgli: "spegni la sveglia". Il tempo non è migliorato ed uscire sotto la pioggia non è proprio il caso. Ho in risposta soltanto il beep dei pulsanti dell'orologio. Mi giro dall'altra parte e mi riaddormento; questa volta pesantemente, convinto di risvegliarmi solo molto tardi. Ad un tratto, però, sento Galis che mi chiama - mi dirà poi di avermi dovuto chiamare e scuotere per tre volte, per quanto profondamente stessi dormendo - e mi dice che sono le tre e mezza e che ha smesso di piovere. E' vero, non si sente più il rumore della pioggia, ma non è comunque incoraggiante: meno di un'ora e mezza fa stava piovendo e già altre volte, nella notte, ci sono state interruzioni di pochi minuti; ho paura che possa riprendere da un momento all'altro. Conveniamo comunque di alzarci e di scendere a fare colazione, visto che comunque c'è un tè e qualcosa da mangiare ad aspettarci sui tavoli della sala da pranzo. Scendiamo, diamo un'occhiata fuori dalla porta e vediamo condizioni poco incoraggianti: una nebbia e una nuvolaglia fitta non ci lasciano più che poche decine di metri di visibilità; con il buio non ho idea di come potremmo orientarci. Rientriamo e andiamo a fare colazione. Troviamo nutella ("oh! la nutella!"), marmellata e miele con fette di pane e tè caldo: una colazione che mi sono gustato moltissimo; tanto più che avevo parecchia fame. Dopo colazione, a stomaco pieno e una volta completamente svegli, le cose appaiono sotto una luce diversa: non mi importa più del caldo e dell'asciutto del rifugio; al contrario inizio a non sopportare il pensiero di un'intera mattinata passata sotto le coperte o bloccato nel rifugio a non fare niente, oltre alla misera discesa in valle dopo non avere combinato nulla di quello che ci eravamo prefissati. Decidiamo così di partire lo stesso, nonostante la nebbia. Pensiamo di partire, di fare il possibile nel cercare la traccia, sperando di non avere troppi problemi, e di arrivare fin dove riusciamo; se ci va bene, magari, arriviamo fino al Rifugio delle Guide della Val d'Ayas, forse ci fermiamo lì per una seconda colazione, o magari ci facciamo addirittura un giretto fino al passo di Verra. Non abbiamo idea di cosa potremo combinare ma decidiamo di partire comunque; dovremo solo fare attenzione alla strada che facciamo, per essere in grado di rifarla al contrario in caso di ritorno forzato; dobbiamo fare attenzione alla direzione, tra i sentieri della morena, e a non farci sorprendere dal vento o dalla neve, in caso di tracce labili sui nevai o sul ghiacciaio prima del rifugio.

Partiamo alle quattro e venti, con più di un'ora di ritardo sulla tabella di marcia originale. Ci avviamo lungo le tracce di sentiero che tra roccioni e ometti risale la morena in direzione della parte superiore del ghiacciaio di Verra. La nebbia è fitta e il buio peggiora notevolmente le cose; dopo pochi passi ci troviamo sulla piazzola dell'elicottero ed io inizio a pensare che forse abbiamo già sbagliato, che forse il sentiero giusto e quello per l'elicottero sono due distinti; invece no, va bene ugualmente, il sentiero procede e lo seguiamo senza eccessivi problemi per un buon tratto. Periodicamente io mi giro indietro per dare un'occhiata all'aspetto della traccia nel senso della discesa per avere qualche riferimento al momento del ritorno e periodicamente mi ripasso mentalmente il tracciato, le curve e i punti fissi che possiamo riconoscere in discesa. Prima si risale dritti lungo la morena, si raggiunge un primo nevaietto, si piega decisi a destra, qualche ometto, si segue il filo della morena, grossi roccioni, un altro nevaio più ampio da attraversare sulla sinistra - buone tracce, speriamo che restino - si sale un po' ripidi su neve, alle rocce si piega decisi a destra per evitare grossi lastroni, roccette più impegnative, un piccolo colatoio ghiacciato, una strozzatura, un ripiano roccioso da attraversare piegando a destra. Poi il ghiacciaio sotto al rifugio, è l'ultimo tratto di cammino per raggiungerlo e sembra essere ben tracciato anche questo; dapprima su neve, poi su lastroni ghiacciati, poi attraverso i blocchi di una slavina, poi ancora neve semplice e inzuppata dell'acqua caduta fino a poco fa. Ci muoviamo bene, siamo in forma e non abbiamo esitazioni a tenere la traccia; gli ometti e i bolli gialli - purtroppo questi quasi totalmente invisibili nelle nostra condizioni - non ci aiutano a trovare la strada, ma se non altro quando li incrociamo ci assicurano di non averla smarrita. L'ultimo tratto di ripida salita prima del rifugio ce lo ricordavamo totalmente diverso: qualche anno fa avevamo seguito per intero il pendio di destra abbondantemente innevato; la neve era bella ed era un piacere salirci. Ora troviamo poca neve, decisamente impercorribile; è troppo bagnata e molle ed è impossibile sprofondare meno di una trentina di centimetri ad ogni passo; ci rassegniamo a salire per le tracce ripide, fangose e scivolose dello sperone, sulla sinistra della neve; fango e sassacci brutti e instabili. Arriviamo al rifugio in cinquanta minuti di cammino, contro l'ora e venti preventivata.
Appena sotto al rifugio incrociamo due ragazzi che scendono: uno si sente male e tornano in basso già così presto. Una volta aggirato l'edificio, invece, vediamo in lontananza una cordata - l'unica, pare - diretta lungo il ghiacciaio verso il passo di Verra. Considerata l'assenza totale di vento e il chiarore che migliora la nostra visibilità decidiamo di proseguire, fin dove possibile. Alle finestre un paio di persone affacciate ci vedono passare; stanno considerando la situazione, probabilmente vogliono aspettare di vedere qualcuno davanti prima di decidere se partire; come sempre, in questi casi, non si muove mai nessuno e poi, appena uno fa un passo, partono tutti insieme. Noi, intanto, siamo all'inseguimento dell'unica cordata in cammino; li raggiungiamo in pochi minuti. Quando ci vedono vicini, praticamente a contatto, il secondo dei loro dice a Galis, che sta in testa, che gli sembriamo stanchi! Vabbè... prima cosa ti abbiamo recuperato duecento metri di distanza in trecento di cammino, il che vuol dire che andiamo al triplo della tua velocità; seconda cosa, siamo partiti dal Mezzalama un’ora fa, e non dal rifugio delle Guide come te appena adesso. In altre parole noi con un'ora di cammino nelle gambe andiamo al triplo del passo di loro che sono partiti da due minuti e mezzo. Però gli sembriamo stanchi... Tanto perché siamo stanchi ce ne rimaniamo in coda, buoni buoni, a riposarci, lasciando a loro due il compito di battere la pista. Così imparano. Come volevasi dimostrare, la velocità cala drasticamente e ora procediamo calmi e riposati. Vanno proprio piano; senza contare quanto sono impacciati; ma questo lo vedremo solo una volta sulla cresta rocciosa del Polluce.
All'attacco della cresta arriviamo dopo un'altra ora di cammino. I due che ci precedono, sentito che noi andiamo al Polluce, decidono di fare lo stesso; erano rimasti indecisi tra questo e la Roccia Nera, ma ora decidono per la nostra stessa meta. Ormai siamo in confidenza, Galis chiacchiera spesso e non supera mai. Lascia sempre al primo di loro il compito di battere la pista, anche nel tratto ripido prima del raggiungimento delle rocce, all'inizio della cresta sud-est. E' da questo momento che viene fuori l'indecisione dei due; indecisione tecnica, intendo dire, l'impreparazione al terreno su cui ci muoviamo: nella salita ripida vanno lentissimi e al termine, in un tratto di traverso un po' esposto e gelato, quasi si bloccano e ci vuole parecchio perché lo superino; non più di cinque o sei metri tutto sommato elementari. Io avrei una gran voglia di passare davanti, ma pare che Galis preferisca restare dietro, e la cosa è strana perché di solito è sempre lui quello che punta a superare tutto il superabile, e io quello che tende a frenare e lasciare gli altri al loro posto.
Ora siamo in cresta; loro due sempre davanti, anche se a volte la lentezza diventa deprimente; non vogliamo rompergli troppo le scatole. Verso la metà della cresta

Mirko sulla cresta della via normale

ci fanno passare loro, ma poi li aspettiamo di nuovo. Procediamo sempre a stretto contatto. Li facciamo ripassare. Tutta la cresta è molto incrostata di neve e ghiaccio; questa notte ha nevicato parecchio, qui, e ora ne paghiamo le spese dovendo ripulire tutto il possibile, bagnandoci e congelandoci le mani sulla roccia incrostata, affrontando quei traversini ghiacciati brevi ma esposti, dove non c'è più traccia. Abbiamo il nostro da fare nell’aggiramento (fuori via) di un roccione, poco prima delle catene, lungo un diedrino appoggiato ghiacciato, viscido e esposto. Non è per niente elementare, questa crestina in queste condizioni. Una volta alle catene sono davanti loro, e diventa opprimente l'attesa: ci sono delle comodissime catene da usare a mo di ferrata, e invece il primo va avanti senza assicurarsi alla catena, pianissimo, con lentezza esasperante, arriva al termine della prima catena e piazza un rinvio, poi la seconda catena, ha parecchi problemi a passare il piccolo caminetto, si ferma in continuazione, sembra sfinito, un'altro rinvio, una fettuccia; ogni tanto parla col compagno fermo all'inizio delle catene; Galis gli dice che forse farebbero meglio a muoversi in stile ferrata, il secondo si dice d'accordo, il primo pure, ma poi una volta alla fine, il primo dice che mette un rinvio e un mezzo barcaiolo per il secondo, poi un'altra fettuccia... Ma che cosa diavolo stanno combinando? Il secondo parte, ovviamente molto lento anche lui; scivola parecchio sulla roccia; noi lo seguiamo da vicino e nonostante i ramponi ai piedi ci muoviamo decisamente meglio. Per superare il primo tratto di caminetto impiega più di cinque minuti, non riesce a capire come fare; io e Galis lo passiamo in quattro o cinque secondi. Tutto il tratto di catene è così: lui sale lento per qualche minuto mentre io e Galis ce ne rimaniamo fermi a scaldarci le mani, poi in qualche secondo ripartiamo e lo raggiungiamo. Finalmente le catene finiscono e arriviamo alla statua della Madonna, al termine della parte rocciosa di cresta. Ora non rimane che un piccolo tratto su neve. Sta nevischiando, ma il cielo, sopra di noi, si va rischiarando; non che ci sia dell'azzurro, ma la luce diventa più chiara e intensa, le nuvole paiono assottigliarsi; arriviamo a vedere il pallido disco del sole oscurato dalle nuvole ancora troppo persistenti.
Questo ultimo tratto di salita ce lo godiamo tutto: lasciamo gli zaini alla spalla, vicino alla statua e saliamo con infinita calma; facciamo ogni genere di fotografia, saliamo, scendiamo, cerchiamo le posizioni e i panorami... Panorami si fa per dire: si tratta di semplici angolazioni di visuale sul solo Polluce, perché intorno tutto è ancora nascosto dalle nuvole. Arriviamo in cima quando manca un quarto alle sette, dopo due ore e mezza di cammino complessivo, dal Mezzalama. Siamo contenti perché ci sentiamo in forma perfetta. Siamo contenti anche perché siamo riusciti ad arrivare in cima al Polluce in una giornata come questa, in cui al principio sembrava di non potere fare altro che sedersi al tavolo del rifugio ad aspettare il termine della pioggia prima di tornare in valle. Siamo contenti perché la salita dalla via normale del Polluce si è trasformata in un'ascensione tutt'altro che banale e molto divertente.
In cima ci restiamo parecchio; vogliamo prolungare questi momenti. Io ho l’impressione di sentirmi più sereno e in pace di quanto non mi sia mai sentito in cima ad una montagna, senza un minimo di fretta, senza nessuna voglia di fare niente se non di guardarmi intorno e assaporare il momento dell'essere dove mi trovo. Istanti molto speciali. Il tempo, tra l'altro, va migliorando; si apre uno scorcio di visuale verso la Roccia Nera, poi si intravede il Castore, la cresta, non la cima, purtroppo. Sotto di noi le nuvole persistono ma al di sopra il cielo va aprendosi. Scendiamo fino alla spalla, agli zaini, immersi in una luce irreale, giallastra, proiettata da un sole all'alba, ancora velato dalle nuvole. Quando raggiungiamo la spalla le nuvole sono definitivamente sparite e sopra e intorno a noi il sole e le montagne che ci circondano sono perfettamente visibili. Il Castore, la Roccia Nera, i Breithorn... In discesa ce la prendiamo calma, perché dopo essere arrivati in cima ancora in anticipo rispetto alla tabella di marcia originale che prevedeva la partenza un'ora prima di quello che in effetti era stata avevamo tutto il tempo.

Ci fermiamo

Mirko in cima al Polluce

molto, alla spalla, per qualche foto, per metterci l'ormai utile crema solare, gli occhiali, per bere e per guadare un panorama finalmente grandioso; a Galis viene voglia di tornare in cima per guardarsi intorno senza le nuvole, ma siamo sicuri che se ci riavviassimo verso l'alto le nuvole tornerebbero: abbiamo una specie di contratto, quest'anno, con le montagne, redatto non si sa da chi: cima si, ma tempo di merda. D’altra parte è sempre meglio così piuttosto che non combinare niente sotto ad un bel sole...
Dopo avere atteso troppo ci avviamo verso il basso, ma vediamo che stanno arrivando, lungo le catene, diversi alpinisti; sono tedeschi, più di una decina, con guide al seguito. Sono parecchio lenti e ci tocca aspettare non poco che transitino tutti. Poi è il nostro turno; partiamo veloci, a metà incrociamo due italiani. Quando arriviamo alla base delle catene troviamo una decina di altre persone a riposare, sedute ai margini di un comodo spiazzo nella cresta; ne sopraggiungono immediatamente quasi altrettante; pochi passi più avanti ancora molte... Stanno salendo proprio in tanti, ora, e Galis - spesso interpellato - descrive a tutti il tratto di salita che resta da fare.
Molte delle cordate che salgono sono legate a formichiere - ci piace definire così impropriamente le cordate che viste da lontano sono fatte da tante formichine vicine, legate insieme; dovremmo definirle piuttosto 'sciami', o 'millepiedi', ma ormai ha attaccato 'formichieri'... Da una parte ci dà un po' fastidio incrociare così tanta gente e doverci fermare così spesso e così a lungo per poter passare sulla traccia migliore, ma dall'altro lato ci fa piacere constatare che la traccia che in salita era stata impegnativa, viscida, scivolosa, infida, delicata, ora è qualcosa di più simile ad un sentiero strabattuto che ad una via di alta montagna; su una simile autostrada scendiamo molto veloci.
Arriviamo alla base della cresta in tempo per vedere i due ragazzi che ci avevano accompagnato in salita dirigersi verso il Rossi e Volante, probabilmente per salire alla Roccia Nera. Noi puntiamo verso casa. Prima scendiamo velocemente sulla neve assolata, poi ci rituffiamo nelle nuvole che dai 3700 - 3800 metri non si sono mai tolte. Con la luce non abbiamo nessun problema a trovare la pista giusta, nemmeno sulla morena in basso, dove ometti e bolli gialli indicano molto chiaramente la direzione giusta. Riconosciamo un paio di tratti in cui in salita avevamo decisamente sbagliato strada. Alla fine, intorno alle dieci e venti, raggiungiamo di nuovo il rifugio. Siamo contenti: per la splendida salita, per una cima raggiunta nonostante il tempo pessimo, per una via resa più divertente proprio dal tempo pessimo, per gli spettri intorno alle montagne, per come ci siamo

Roccia Nera al ritorno al passo di Verra

sentiti in quota e per la velocità tenuta: senza il minimo problema, sei ore precise tra salita e discesa, con tutto il tempo che ci siamo fermati in cima, alla spalla e in cresta per via di tutta la gente incrociata... Prima della partenza avevamo pronosticato pessimisticamente da due a tre ore in più.

I fiorentini sono ancora nel rifugio; lì il tempo è stato schifoso senza tregua; anche ora sta piovigginando. Galis racconta tutto mentre ci godiamo un tè caldo e mezzo panino avanzato ieri. Facciamo migliore conoscenza con i gestori e il loro figlio; ormai siamo nel rifugio solo noi sette e chiacchieriamo come vecchi amici.
Ripartiamo intorno alle undici e mezza, con la prospettiva di una lunga discesa fino a St. Jaques. Discesa senza storia, lunga, piacevole per il posto, per il caldo nonostante la pioggerella fine che ci bagna ogni tanto. A tratti pesante, per i piedi ormai provati e le spalle ben cariche. Stiamo tutta la prima metà sul filo di cresta della morena che scende dal rifugio, a tratti franata. Man mano che si scende la fatica aumenta, ma il buon umore per la giornata trascorsa - trascorsa solo per metà in realtà, ma per la luce scarsa e per l'orario precoce della sveglia sembra già di essere a sera - non ci ha ancora lasciato e non ci lascerà per lunghe settimane, ancora.
In paese ci cambiamo sotto l'acqua, cosa a cui andiamo abituandoci... Poi il ritorno verso casa. Era prevista una cena dai compagni anche questa volta, ma anche questa volta non se ne fa niente: una specie di nubifragio si sta abbattendo su tutta la Brianza e nei boschi di Cabiate scorrono fiumi dove dovrebbero esserci sentieri; la festa dell'Unità è chiusa, tutto abbandonato; a casa, quindi, deviamo per una cena in pizzeria. Bello comunque. Dai compagni sarà per un'altra volta. Ma alla fine quello che conta è stare in compagnia. O no?


Mirko Sala Tesciat
1999

scheda       precedente successivo
© 2007  Green Rock Alpine Club  v2.0             built: 27.05.2007