Modernità Crisi e Information Technology
__concept sviluppato dopo la lettura di: GAMEZONE, playground tra scenari virtuali e realtà di Alberto Iacovoni

 

ArcheoCaad: archeologia e interattività di Giustino Di Cunzolo

L’idea trainante della rivisitazione del concept nasce dalla struttura progettuale e analitica riscontrata nel testo Gamezone di Alberto Iacovoni, di cui ho curato su questo sito la recensione. Dalla lettura del saggio nasce il seguente sviluppo che ne ripercorre passo dopo passo le stesse tappe, riadattandole al tema di mia specificità. Nella prima parte, infatti si cerca di individuare e discorrere sulla crisi e sul campo specifico di applicazione. La seconda parte, invece, prevede una ricerca dei caratteri costruttivi del gioco ArcheoCaad. La terza e ultima parte, invece analizza tutte le applicazioni possibili, da quella propria del progetto nel sito archeologico dei Fori Imperiali, sino alle avveniristiche applicazioni nella città.


00_intro

00_1_modernità, archeologia e information technology
La crisi che oggi siamo obbligati ad affrontare è quella di cercare una connessione tra la città storica e la stratificazione di quella moderna, poiché vivendo un periodo di rilevante e veloce progresso tecnologico ed informatico abbiamo a disposizione dei mezzi di comunicazione e progettuali capaci di ridurre e forse annullare il definitivo distacco tra dimensioni temporalmente distanti “anni luce”.
Molte metropoli moderne vogliono imporsi come capitali della cultura europea o mondiale e, per riuscirci, devono compiere questa operazione di forte integrazione per un più congruo sviluppo urbano.
La crisi è ancor più lampante se pensiamo alla situazione italiana, ove qualsiasi reperto Storico-Archeologico diviene un “soprammobile urbano” di pregio da lasciare nella sua ieraticità, per la paura di sporcarlo con i “fumi del progresso”. Le colpe oggettive istituzionali lasciano indietro tutto questo mondo che sembra appartenere ad un layer intangibile sovrapposto alla nostra percezione della realtà.
Bisogna però effettuare una distinzione tra due campi di Manufatti:
_il primo concerne tutti quei luoghi, siti, monumenti con potenziale di alta trasformabilità, ovvero quelle Architetture che presentano in seme la possibilità di essere rifunzionalizzate ed integrate all’interno delle dinamiche urbane moderne, mediante proposte di destinazioni d’uso;
_il secondo riguarda tutti quei luoghi, siti, monumenti che non godono delle suddette potenzialità ma che sopperiscono a questa mancanza con un forte grado di comunicazione ed informazione, anche se in maniera latente davanti ai nostri occhi.
Ed è per ovvie ragioni che la nostra attenzione si debba spostare a questo secondo gruppo, visto che lo sviluppo del primo campo è congelato solamente da un’attenzione istituzionale alquanto morbosa. D’altronde il secondo campo comprende tutte quelle Architetture che, anche sbloccati i vincoli di protezione, rischiano di rimanere isolate proprio perché non riescono a distaccarsi dalla loro funzione base di museo di se stesso. Ovviamente la nostra percezione è fortemente influenzata da un certo fascino ruskiniano per il rudere, per la decadenza delle Architetture e per il concetto di tempo che corrode ogni umana creazione. In questa corsa al tempo l’uomo sostituisce continuamente il moderno all’antico in quasi tutti i campi di ricerca, tranne per pochi eletti che godono della potenza di conservare la “memoria storica”. Ciò significa che sia l’uomo che la città, intesa come macchina urbana, hanno il bisogno di ricordare il loro percorso fino ad oggi per potersi confrontare con l’incognita del futuro; questo però non deve essere un alibi a conservare qualsiasi cosa venga messa a nuova luce da scavi archeologici, o a rinchiudere parti di templi o basiliche all’interno di musei statici e poco comunicativi.
Sul concetto di comunicazione bisogna quindi discutere e lavorare: ovvero bisogna domandarsi quanti e quali luoghi hanno ad oggi una scarsa “potenza comunicativa” non per loro carenza di valore ma per l’utilizzo che facciamo di essi.
Soffermiamoci per un attimo sulla nostra realtà quotidiana: ovunque dalle strade al luogo di lavoro, fin dentro le nostre case, siamo pervasi da quantità incalcolabili di possibilità di comunicazione; attraverso tutti i mezzi moderni, forniti dall’Information Technology, qualsiasi oggetto o concetto, anche il più scevro da qualsivoglia significato, decuplica la sua potenza comunicativa, fino a diventare soggetto immancabile nelle nostre vite. La vera potenza della comunicazione moderna è quella di riuscire a trasformare anche l’impossibilità di esprimere in necessità di parlare.
Questo, che effetti potrebbe avere sull’integrazione dell’Archeologia all’interno del costrutto urbano?
Riflettendo su quello finora detto, le tecnologie diverrebbero le corde vocali che permetterebbero a questi resti di tornare a parlare, di informare di se stessi gli utenti che spesso hanno una percezione errata del passato Architettonico: come ad esempio le convinzioni di architetture prive di qualsiasi colore (architetture greche), o le perfette murature  romane in opus a facciavista. Chi è specialista del settore ovviamente non risente del problema di queste lacune, al massimo può risentirsi della mancanza di verità, ma la realtà in cui viviamo è quella di una società di massa che utilizza l’informazione, soprattutto quella passiva (ovvero il bombardamento mediatico giornaliero), come mezzo di conoscenza e formazione.
Oggi, dare un’informazione significa condizionare la vita del singolo soggetto così come quella di una comunità; non fare informazione, o farla in maniera errata, significa che un determinato fatto può essere anche non esistito: a testimonianza di questa affermazione pongo come, un fatto di cronaca nera supportato dall’informazione dei media, possa coinvolgere l’intero globo terrestre, e come un altro di uguale o addirittura superiore gravità non supportato da comunicazione lasci nella totale indifferenza l’umanità.
Deduzione logica è che l’Archeologia non esiste per la comunità globale se non è supportata da una quantità adeguata di informazioni; se essa non esiste per la comunità, non può essere rispettata dallo sviluppo urbano delle nostre città.
Allora perché non intervenire con progetti che sfruttino le infinite potenzialità dell’Information Technology per superare questo gap?
Con un uso calibrato di questi mezzi si potrebbe scavalcare il concetto di tempo che slega queste due realtà attualmente sovrapposte, concretizzando la “macchina del tempo di Wells”; vivendo questi nuovi luoghi si avrebbe una esperienza empatica e culturale maggiormente significativa di qualsiasi libro, documentario televisivo o ricostruzione digitale chiusa nei limiti fisici di uno schermo da 19 pollici.

00_2_fori imperiali a Roma e interattività
La maggior parte dei ragionamenti e delle soluzioni progettuali nascono sempre dalla constatazione personale di situazioni di crisi che coinvolgono la nostra sfera quotidiana o comunque delle quali siamo adeguatamente informati; dunque il problema, analizzato nella prima parte, non può sottrarsi a questa dinamica.
La constatazione della realtà romana di questi anni mi porta a riflettere sull’immobilità della cultura architettonica in materia di reperti Storico-Archeologici. Ovviamente le motivazioni, delle più disparate, variano da colpe oggettive istituzionali, a paura di errare nel creare una crasi tra pregio storico-archeologico e supporti tecnologico-informatici.
La situazione turistica romana è una realtà oggettiva mondiale, ovvero il fascino dell’antico richiama milioni di visitatori all’anno nella capitale italiana; ovviamente il fascino della rovina, come suddetto, diviene pregnante nella valutazione della qualità artistico-architettonica della città, dimenticando o non conoscendo le reali potenzialità comunicative di un determinato sito sul suo passaggio nei secoli/millenni. Passeggiando per Roma si ha la sensazione che due realtà, su piani dimensionali diversi, abbiano trovato casualmente una sovrapposizione nella città. I problemi che ne derivano sono innumerevoli, e sarebbe inutile discuterne in questa sede; la crisi però più sconcertante è che siti del valore dei Fori Imperiali, non abbiano altra possibilità di esistere se non come musei della propria decadenza: l’utente è condizionato, a mio parere, a vedere la bellezza del sito per un fattore indotto, ovvero è condizionato dal concetto ruskiniano misto al senso di rispetto profuso da questi luoghi. Io apprezzo quella colonna in rovina perché mi offre una verità incommensurabile: l’uomo lillipuziano messo a confronto con la maestosità e la forza del tempo e della natura; è la condizione umana che si rispecchia nell’Architettura.
Una visione innegabilmente affascinante, che non va cancellata, ma al quale vanno accostati/sovrapposti nuovi layer che diano all’utente la possibilità di interagire empaticamente e sensorialmente con il sito. Queste nuove formulazioni sono già state espresse in musei interattivi, dove diviene fondamentale stimolare verso la conoscenza il fruitore, ponendolo al centro dell’azione ludica: l’utente trasforma l’ambiente, e non è più costretto a sottostare a regole predeterminate da una condizione statica. Estendendo l’applicabilità di questo nuovo metodo progettuale, lo si potrebbe trasferire in siti archeologici, quali appunto i Fori Imperiali, dove attraverso stimolazioni multisensoriali (suoni, visioni olografiche, odori, ecc.), ovviamente supportati dalla progettazione di componenti architettonico-tecnologiche, si possa offrire una ampia gamma di possibilità interattive all’utente con il sito. Egli diverrebbe il protagonista, colui che sceglie quale dimensione storica visionare, quale layer sovrapporre alla realtà non più solo decadente del sito.  
Si badi che questo discorso non vuole arrivare alla promozione di un nuovo tipo di ripristino architettonico, che ridia alle architetture l’antico fasto; la reale intenzione è quella di iniziare a sperimentare concretamente l’utilizzo di avanzate tecnologie per permettere a determinati siti “morti”, di tornare ad essere interessanti, comunicativi: lo scopo è far rivivere l’Architettura del passato in un modo nuovo, moderno, in linea con le Architetture della crisi che gli attuali  ricercatori/progettisti sperimentano in vari ambiti. E’ l’applicazione materiale di un nuovo “paesaggio mentale” che sta nascendo come sensibilizzazione verso questa problematica: si potrebbe menzionare il lavoro dello studio Light Architecture di Gianni Ranaulo, dove ho ritrovato un esempio di applicazione di nuove tecnologie che stimolano una partecipazione attiva/interattiva con i monumenti. L'Archeoscreen è solo una piccola possibilità rispetto a quello che si potrebbe attuare attraverso un nuovo approccio progettuale e sperimentale in materia.
L’essenziale è trovare cosa e come queste architetture devono comunicare: la potenzialità di questa idea/progetto è che non definisce un unico tipo di comunicazione, ma dei livelli di informazione sovrapposti che a discrezione del soggetto variano sulla realtà, mostrando quello che realmente in un determinato momento interessa. Sorpassa le sperimentazioni di ricostruzione digitale già effettuati in altre occasioni, risultate inadeguate e povere poiché mettevano in campo parametri predeterminati e non continuamente modificabili. Qui la scelta diviene varia, così come la vita del manufatto nei secoli, e va dalla sua nascita alla sua condizione attuale di rudere; ovviamente il pericolo di non avere adeguate informazioni per determinati stadi dell’evoluzione storica può divenire fondamentale per l’operazione. Ed è qui, in una ulteriore crisi, che la soluzione può nascere. Si potrebbero inserire una serie di parametri modificabili direttamente dal fruitore che a sua discrezione potrebbe ricostruire condizioni anche mai esistite; questo porterebbe ad un passo successivo la progettazione di questi spazi, non più visionati staticamente, ma elaborati attivamente come software ricchi di informazioni. Non è altro che dichiarare apertamente quello per cui i Fori Imperiali sono stati tramandati fino a noi: essere memorie di parte della storia dell’uomo.
Ma cerchiamo di procedere per gradi, per capire a che livello di difficoltà siamo pronti a giocare.

01_play: ArcheoCaad


“-Questo è struttura, il nostro programma di caricamento, possiamo caricare di tutto…vestiti, equipaggiamento, armi, addestramento simulato, tutto quello di cui abbiamo bisogno.
-In questo momento siamo all’interno di un programma?
-Abbastanza facile da capire (…).
-Questo non è reale?
-Che vuol dire reale? Dammi una definizione di reale. Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere, quel reale sono semplici segnali elettrici interpretati dal cervello…”


(Morpheus e Neo, Matrix)

01_1_a che gioco giochiamo?
E’ la prima domanda cui bisogna dare una risposta precisa che serva ad individuare e restringere il campo di scelta, in modo da determinare una serie di regole alle quali i giocatori devono tacitamente sottostare per poter interagire. Ed è proprio quest’ultima la parola chiave, l’azione fondamentale, basilare, per la costruzione del nostro gioco. Questo gioco si chiama ArcheoCaad: Archeo sta per l’argomento a cui è applicato, ovvero l’Archeologia; mentre Caad sta per tutte quei software interattivi che permettono lo svolgersi del gioco. La tecnologia Caad è il dado che bisogna lanciare per far muovere gli elementi, mentre l’Archeologia è il tesoro, lo scopo, il fine ultimo del play. Ovviamente la parola gioco non deve sviarci dalla serietà con cui vogliamo sviluppare il progetto, l’aspetto ludico dell’evento è tutto racchiuso nella possibilità di ricostruire in maniera altamente soggettiva la realtà, o meglio ancora la sovrapposizione di più layer. Essendo soggettivo, il gioco propone un’altra caratteristica fondamentale: quella di accrescere la creatività, ovvero la potenzialità di riscrivere e ridisegnare le texture, i pixel, le immagini predeterminate che compongono la visione virtuale della realtà. Inoltre, altro aspetto fondamentale per la riuscita del gioco è la mobilità, ovvero la scelta dell’ampiezza del campo di gioco. L’aspetto ludico diviene il mezzo scatenante la curiosità e la volontà d’intervento dell’utente, che deve conquistare il sito archeologico: la conquista avviene mediante l’uso del mezzo principale e primordiale di comunicazione dell’uomo, ovvero il disegno che non importa sia vettoriale o raster. L’importante è che questo disegno vada ad aggiungere un nuovo tassello alla realtà attuale per renderla complessa ed integrabile nella città moderna, oppure veritiera o possibilista all’interno della storia secolare o millenaria di cui fa parte il luogo.
La scelta più complessa è stata attuata, ora cominciamo a definire il gioco in tutte le sue parti.

01_2_facciamo finta che…
In ogni gioco si mescolano varie componenti atte a divenire le motrici di questa enorme macchina che stiamo costruendo. Quelle sopra analizzate sono tutte unite nello scopo di ricostruire e simulare realtà passate o fittizie, attraverso l’utilizzo di specifiche tecnologie che ne ricalchino luci, immagini, suoni, colori, odori: lo scopo è offrire all’utente varie possibilità di sentire una realtà tra tante, forse di viverla intensamente anche se essa rivela essere una illusione. La ricerca dell’illusione, il far finta di riconoscere come vera una realtà ricomposta, è il propulsore che innesca la spinta al continuum ludico: il gioco non può avere una fine se possiamo continuamente illuderci, dal latino in-ludere che significa “entrare nel gioco”. Quindi se lo scopo diviene entrare nel gioco, da ciò si deduce che siamo catapultati in una sorta di labirinto, composto di più tunnel, da percorrere mediante i nostri sensi, dove ogni soluzione ci riporta nel vivo del play; è impossibile uscire se vi sono nuovi ingressi, non esiste il game over. Una volta entrati nel tunnel e accettate le regole di questo nuovo spazio, siamo liberi di muoverci, creare e sentire, le tre componenti principali per far finta che questo non sia solo un semplice gioco.

01_3_è un gioco da bambini?
Fin da bambini si rimane affascinati dalle possibilità che l’immaginazione ci dà di ricreare delle realtà simultanee, di viverle estraniandoci, ma non dimenticando, la vera essenza delle cose. Qualsiasi oggetto nell’infanzia può divenire ispiratore di nuove forme e personaggi. Con la crescita la parola gioco si macchia di significati di evasione e illusione, dimenticando lo scopo originario: creare. E’ maggiormente grave dimenticare che determinate realtà, come quella archeologica da noi analizzata, sono bloccate per l’incapacità di saper interagire, quindi giocare, creare partendo da loro. Una paura che non esiste nei bambini, capaci di proiettare queste dimensioni attraverso nuove narrazioni, ricreando nuove storie. Quindi il gioco è molto più maturo e costruttivo se si pensa alla coscienza con la quale si deve affrontare questo tema: il recupero. Un recupero non proprio materiale, ma della memoria storica, di un edificio ad esempio, attraverso la sperimentazione di milioni di creazioni, alla ricerca di quella più soddisfacente e attinente alla realtà. Non bisogna dare l’edificio costruito, ma gli elementi prefabbricati, o i mezzi per crearne di nuovi, da scomporre e ricomporre continuamente fino ad una soluzione mai certa, ma soddisfacente per la nostra mente. Guardare con occhi ignoranti la realtà, per poterla modificare da vari punti di vista; una situazione di completa libertà dove l’imposizione culturale non ha potere, visto che la materia che andiamo a modificare è priva di sostanza.

01_4_qual è il nostro ruolo?
L’utente, in questo complesso panorama, è la figura principale e senza la quale non si potrebbe svolgere nessun gioco. Egli è la figura che accetta un determinato range di regole, che ne modifica e ne stabilisce di nuove; è colui il quale lancia i dadi, ovvero utilizza i software che rendono mutevole la realtà. L’utente è la personificazione del concetto di interazione; non è più relegato a mero spettatore, ma sale sul palco e diviene protagonista in quanto gioca, ovvero si mette in gioco, partecipa attivamente al costruirsi dell’evento. La realtà si plasma a nostro piacimento, e non siamo noi ad adattarci alle condizioni immutabili forniteci dal sito. Tutto è racchiuso nella capacità di mettere continuamente in discussione le nostre scelte, e così creare e ricreare fino a concretizzare la nostra coscienza sovrapponendola alla visione del reale. Il digitale è il mezzo per compiere questo processo.

01_5_e le regole?
Usciamo dalla quotidianità, e quindi dalle regole imposte dalla nostra società, evadibili solo a caro prezzo, e immergiamoci in un mondo dove lo scopo è quello di creare e modificare continuamente le norme per poter trovare una soluzione al gioco. Dobbiamo dunque strutturare finalmente il gioco, creando parametri fisici che incorporino i concetti finora espressi. Bisogna costruire prima di tutto il percorso all’interno del nostro sito: un susseguirsi di tunnel e bivi, in continue diramazioni, che invadono lo spazio archeologico e lo trasformano in una sorta di universo composto da dimensioni parallele, tangenti mediante una pellicola invalicabile, ma che lascia intravedere l’altra realtà, in modo da rendere possibile la sovrapposizione. Quindi lo spazio fisico di percorrenza è limitato solo fisicamente, ma i sensi possono travalicare questi limiti attraverso le operazioni virtuali. Non vi sono divieti, a parte quello ovvio di rimanere nei limiti fisici del percorso. Le pareti trasparenti ospitano le proiezioni virtuali, modificabili attraverso operazioni proiettive e geometriche, ma anche una serie di funzionalità che permettono una personalizzazione di tavolozze di strumenti e colori, per creare elementi non prefabbricati digitalmente (una sorta di programma raster). Tutto selezionabile e modificabile mediante tecnologia touch-screen, in modo da rendere il gioco immediatamente fruibile e coinvolgente. Inoltre speciali dispositivi, trasformano o emettono nuovi suoni ed odori, atti a condire la scena under construction con alternative metodologie di percezione. Il percorso, quindi, è completamento chiuso e semitubolare, in modo da non avere spigoli che disturbino la sovrapposizione dei layer virtuali a quelli reali. In determinate occasioni, ovvero in presenza di architetture di rilievo, si potrebbero creare delle protuberanze-postazioni, in cui condensare nello specifico i concetti espressi nei tunnel-labirinto. Quindi semplici regole, prettamente di definizione delle aree fruibili, per una completa libertà di movimento virtuale.

01_6_e il campo da gioco?
Di solito le regole definiscono il campo da gioco, ne delimitano la grandezza, gli ingressi e le uscite, nonché la funzionalità delle varie parti: ciò che praticamente è stato nel paragrafo precedente visualizzato. Ora il problema è capirne i limiti di applicazione. Bisogna tornare al punto di partenza e ricordare il gioco per il quale abbiamo costruito questa macchina sofisticata: ArcheoCaad, ovvero una rete complessa di software a disposizione dell’archeologia dei Fori Imperiali. Ovviamente questa vuole essere una specificità all’interno del tema; l’applicazione del gioco, non avendo il play radici stabili in un determinato luogo, è fattibile ovunque ci sia la materia prima della nostra disamina: siti con grande potenzialità comunicativa di tipo museale ma inespressa poiché lasciati nella loro eterna condizione di rudere. Ma se sleghiamo per un attimo il progetto-gioco dal nostro concept, ci rendiamo conto che ha un grande potenziale a livello di applicazioni urbane. Pensiamo ad esempio che un ramo di questo labirinto sbandi, uscendo dal sito dei Fori Imperiali ed, entrando nella città, inizi ad indagare tutti quei vuoti o quelle aree riqualificabili attraverso nuovi interventi. L’ArcheoCaad diverrebbe lo strumento per prefigurare architetture non più del passato, ma del futuro, ancora non costruite, ma solo disegnate, mostrando istantaneamente l’impatto del progetto sulla realtà. Si potrebbe inoltre far interagire l’utente che potrebbe lasciare appunti e annotazioni su possibili modifiche o idee di integrazioni che in un successivo step sarebbero analizzate criticamente da tecnici del progetto. Sarebbe la concretizzazione di un vero e proprio cantiere evento e ancor di più di un percorso progettuale partecipato.
Possibilità di ricostruire, prefigurare, distruggere, spostare, e mille altre operazioni, con un solo tocco dello schermo o click di un mouse per entrare in un sogno onirico di composizione e creazione continua della città. Possibilità di narrare vecchie o nuove avventure. ArcheoCaad o UrbanCaad.

02_playground

02_playground01_punti di vista
E’ il primo passo verso il nostro gioco, ovvero cancellare tutti i preconcetti che non ci permettono di modificare e pensare a nuove realtà. E’ il passo decisivo per entrare in un nuovo mondo, quello dei bambini, dove non vi sono dati certi, ma tutto è demandato alla coscienza dell’utente che può vedere la realtà da vari punti di vista, attraverso vari vetri che contengono ognuno una realtà parallela, integrativa ma profondamente diversa da quella che siamo abituati a vedere ogni giorno. La scelta è complessa perché bisogna accettare la facilità e la leggerezza dell’intervento da attuare con il gioco: una colonna non è solo più il rudere di se stesso, ma è l’utente che decide la sua storia che essa sia ricavata dalla memoria dell’architettura o sia del tutto fittizia. Non ha molta importanza la scelta tra queste categorie, l’essenziale è lo scrollarsi di dosso gli occhiali che ci condizionano ad una visione collettiva della città. Ogni utente deve imparare a leggere i vari layer, e a giocare con essi. ArcheoCaad è l’icona del gioco, ovvero lo spazio, il sistema operativo, la struttura che contiene il software, la metafora della mutazione continua, ovvero la possibilità di rendere la realtà soggettiva attraverso i sensi del singolo utente. Quindi punti di vista non solo riferito alla percezione oculare, ma anche a quella olfattiva e uditiva se non tattile; il gioco è reinventare la storia o il modo di raccontarla.

02_playground02_il gioco del corpo nello spazio
La limitazione fisica del progetto all’interno di cunicoli prestabiliti per il corpo ma non per l’espansione della mente, che può divagare attraverso i sensi, ci riporta a questo nuovo meccanismo che indaga la reazione dell’utente alle limitazioni fisiche del campo da gioco. A queste il fruitore sopperisce attraverso l’attivazione degli altri sensi mediante l’utilizzo dei software, in modo da creare spazi fruibili con la mente; un intero mondo virtuale e sognante da sfruttare a propria discrezione in contrapposizione al circoscritto e meandrico labirinto chiamato ArcheoCaad. Uno spazio trasparente ma angusto poiché mostra spazi esterni non fruibili fisicamente; questa limitazione vuole essere uno stratagemma per innescare il meccanismo di superare la crisi del corpo nello spazio: la soluzione non può essere che quella di scatenare la fantasia per illudere noi stessi della possibilità di vivere dimensioni parallele. L’impossibilità di appropriarsi dello spazio fisico interno tramite il corpo stimola la volontà di appropriarsi dello spazio esterno tramite la mente, o meglio tramite la sua estensione virtuale che altri non è se non il software per editare la realtà. Quindi la mente rielabora l’esterno ricostruendolo per la propria comodità: genera una storia che vuole vivere anche se per pochi istanti.

02_playground03_il gioco invade la città
La città diviene l’intero campo da gioco; qui usciamo dalle limitazioni auto-imposteci all’inizio di questa digressione, ovvero quelle di restare nel campo dell’Archeologia, per indagare gli aspetti sociologici ed urbani di questo gioco, che coinvolge la struttura metropolitana per trasformarla e renderla partecipe delle dinamiche virtuali che già hanno invaso il sito archeologico. La città con tutte le sue regole ed obblighi è la reificazione della fissità, quindi applicare questo gioco significa costringere questo spazio ad essere mutevole ed adattarsi alle esigenze di ridisegno per il futuro. L’ArcheoCaad diviene la possibilità di prefigurare l’assetto e l’aspetto futuro delle nostre città, diviene il diario di bordo dove annotare le crisi da risolvere e le modalità per farlo, è la parete sulla quale affrescare la visione onirica della città che vorremmo abitare.

02_playground04_la città del gioco
E’ il momento più complesso, poiché scommettiamo su una società tutta disposta a giocare, non più una categoria interessata, ma l’ArcheoCaad dovrebbe piegarsi a nuove volontà di indagine della città e delle relazioni intercorrenti tra spazi pubblici e privati. Forse dovrebbe essere una grossa rete alla quale connettersi dalle proprie abitazioni, per le strade o nei parchi, attraverso la quale scambiare informazioni inerenti alle dinamiche costruttive e futuribili della città. O anche un mezzo attraverso il quale ricreare le condizioni del gioco effettuato precedentemente in sito, in luoghi distanti anche chilometri. In entrambi i casi l’essenziale è creare una rete di software di mutazione e ricostruzione della realtà, fruibili non più solo nel tunnel dell’ArcheoCaad, ma anche da una postazione domestica o di lavoro.

02_playground05_il gioco dell’architettura istantanea
Qui ritorna prepotentemente il concetto di sovrapposizione di due realtà, l’una fisica e materica, l’altra virtuale e mentale; commistione di due metodi di comunicazione che creano l’architettura istantanea, dove ogni elemento percettore o ricevitore che sia influenza lo spazio virtuale e reale, facendo perdere la cognizione dell’entità fisica all’utente. E’ la base sviluppata dell’ArcheoCaad portata agli eccessi del realismo digitale, dove l’illusione non è più il mezzo per giocare, ma diviene la capacità effettiva di meravigliare e confondere. Questa possibilità di playground è sconsigliabile, poiché rischia di diventare un’operazione fine a se stessa e di sovvertire l’idea originaria dell’ArcheoCaad, che è quella di sovrapporre attraverso layer indipendentemente leggibili varie realtà e non quella di mescolare dimensioni parallele, in giochi dove la perdita di percezione e orientamento è il tema e lo scopo ultimo.

 

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