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IL SUPERAMENTO DELLE "RADICI CULTURALI" ________________________________________________ Il tenere come punto di partenza una propria presunta "radice culturale", singolarmente intesa - cioè concepita come isolata dalle altre, presa da sola, sia essa cristiana, giudaica, islamica, induista, animista, pagana, etc - mostra ora tutti i suoi risvolti negativi. Intendo dire che un più onesto assunto debba allora considerare ogni radice come di pari diritto patrimonio dell'umanità, venga dai nostri antenati o no, e accettare tutte queste culture, nel loro complesso, come proprie. Alla stessa maniera in cui lo è l'opera d'arte, che apprezziamo indipendentemente dalle motivazioni originarie (cultuali, culturali, sociali, etc.). Facciamo propria l'arte greca senza avvertire il bisogno di venerare Zeus, o l'arte azteca (a ragione rifiutando i crimini dei conquistadores) e senza bisogno di ripetere i sacrifici umani, o l'arte bizantina senza pretendere di riesumarne la liturgia, e così via. Od ancora anche tali usi, costumi, liturgie, etc., comprese quelle a noi non accettabili, vanno rivisitate in sensi differenti; ripercorrendone cioè i nessi analogici, linguistici, la trama mitologica, sapendola astrarre e riportare nei canali delle simbolizzazioni adeguate a una nuova umanità internazionalizzata. Ad esempio mi riferisco al recupero in pittura di Orozco degli usi aztechi, con la doppia opera del Sacrificio ANtico (quello umano azteco) e del sacrificio moderno (quello dell'attuale capitalismo); od anche se entriamo nel discorso analogico sintattico, riappropriandoci delle connessioni del mito che sono proprie di tutta l'umanità. E di fatto ogni arte è proprietà di tutti gli uomini, quali ne siano la provenienza, la religione, le diversificazioni sia cronologiche che geografiche. Di riflesso la ricerca attuale non ha più tanto il compito di scegliere un linguaggio preciso, ma di parlare più linguaggi. L'unità è un filo conduttore che si snoda lungo un cammino il cui percorso non è una linea retta, ma una diramazione di molteplicità; è il saper navigare, seguendo il bandolo della matassa senza doverlo per questo districare. Le profondissime diversità che distanziano queste culture non devono più costruire barriere e confini, ma risolversi in una composizione generali di volta in volta reinventata; una nuova composizione di colori a differenti valori tonali e cromatici o, dove è contrapposizione, di bianco e nero. I confini culturali, se li prendiamo nel loro aspetto positivo (affiancato a quello negativo, la sbarra di confine non esiste in natura, ed è sempre realizzata con un taglio perverso della continuità - questo anche per la cultura), erano la pelle protettiva di un ambiente umano; poi quest'ultimo è cresciuto, la pelle è invecchiata, è necessario disfarsene. Dove prima al progresso dell'umanità potevano contribuire i piccoli contributi individuali racchiusi in questo involucro loro assegnato, ora i riferimenti principali superano il derma di questo piccolo involucro. Le radici si diramano ben oltre il guscio dei nostri avi, e con andamenti labirintici indistricabili. E al piccolo guscio viene meno la ragione di esistere. Paradossalmente, quando la barriera dovrebbe dissolversi, subentra una feroce nevrosi di insicurezza e di paura che riesuma quell'involucro morto, spinta dalla ricerca di autoprotezione difensiva, dalla paura dell'altro. La pelle nata per proteggere dalle infezioni è diventua la pelle di una mummia che anziché arrestare la malattie infetta e necrotizza essa pura il corpo vivo. E la paura genera follie nazionalistico-identitarie, la quale è in crescita da almeno un ventennio e della quale si vedono gli effetti sempre più disastrosi. Eppure anche per questo tipo di conflittualità esistevano degli antidoti concettuali, pure nel passato. Penso a Rumi che alla domanda "Ma la dottrina degli Ebrei contrasta quella dei Cristiani, quella dei Cristiani va per una via che allontana da quella dei Musulmani. Com'è possibile?", risponde: "Sono d'accordo con tutte quelle dottrine, e sono anche d'accordo con te circa le loro divergenze."
IL DISSOLVERSI DEI PUNTI DI RIFERIMENTO __________________________________________ La cultura del Secondo Millennio è necessariamente compresenza e commistione totale di culture, religioni, lingue. Il che apre la via ad infinite possibilità, infinite scelte, infiniti percorsi. Ma anche apre al dilemma della scelta, che nel caso della compresenza di elementi sivergenti significa optare per la sintesi, l'eclettismo, o la conflittualità. Il rapporto uomo-Universo, finchè resta inscritto nei confini di una cultura autonomamente definita, si articola in rapporti relativamente chiari e conclusi, costuisce un microcosmo con un suo punto di vista, e come tale fornisce punti di riferimento proporzionatamente semplici, o meglio semplificati, e ancor meglio immediati; oltre ai quali fluttua il magma indefinito del caos. Ma la commistione, l'inevitabile condizione umana dell'oggi, sconvolge tutto ciò. Tradotto in termini figurativi o pittorico-iconografici, questo fatto si mostra come problema dell’unità compositiva. La prospettiva rinascimentale lo aveva risolto nei termini della dimensione unica, quella dell'unico punto di vista attorno al quale si organizza la gerarchia della scena; e potendo questo punto di vista allo stesso tempo variare, questo ampliava la visuale entro certi margini di libertà. In tal modo si concepisce una filosofia capace di poter – o si crede di potere – organizzare il mondo forti di una propria logica scientificamente confermata. L'ideologia (a cominciare da quella religiosa, con la Controriforma) su questa base modella le sue certezze ed utilizza l'apparato scenografico come prova probante per conformava i propri assunti. Tutto concorre ad uno stesso fine, così come si fa convergere l'organizzazione dell'immagine visiva nel punto di fuga unico. Il primo momento in cui questa unicità di veduta si rompe è reso esplicitao in pittura nel Giuramento degli Orazi di David. La posizione espressa, dominante, eroica, stoica - quella del dovere civile – è solo una tra le vie possibili, non l'unica; e le sta accanto la direzione opposta, quella degli affetti femminili (delle sorelle degli Orazi una ama uno dei Curiazi e sono combattute tra l'affetto per entrambi, non fa parte del loro universo la fede bel dovere di stato), che ne dissolve l'assolutezza. Le donne piangenti, il momento culminante della scelta per la patria, il fanatismo eroico, sono tre posizioni alternative e compresenti, che non si incontreranno mai, ognuna seguirà la sua via; eventualmente entreranno in conflitto senza comprendersi. Non esiste più un solo imperativo condiviso collettivamente, affetti e dovere non vengono dalla stessa matrice, seguiranno sempre percorsi paralleli, si incroceranno, collideranno casualmente, e la visione unitaria è perduta. Il che appare ancora più espilicitamente in Goua: il suo Gigante è la Guerra che passa stravolgendo la vita degli uomini. Ma tra Gigante e uomini in fuga l'incontro è solo una collisione di cui non capisce niente, né il come nè tantomeno il perché. E Goya fa riemergere l’altro lato della medaglia del progresso: quello di una natura feroce, infame, che non si può dire abbia perduto l’innocenza perché non l'ha mai avuta. Si tratta del mondo dei Caprichos e dei Disastri della Guerra. Questi ultimi ancora si concludono con la compresenza parallela di percorsi differenti: il finale è a doppia soluzione, un cadavere martirizzato dalla guerra il cui testamento è “NADA. ello lo dis”, e quella del lavoro che lentamente ricostruisce la vita sociale. Entrambe le vie sono possibili, reali, ma senza convergenze. Così cambia il concetto di unità dell’opera, venuta mendo la direzione unica. L'elemento unitario in questa nuova condizione deve allora ricollocarsi per emergere dal magma fluido del caos dove tutto cambia collocazione, e si sposta nello spazio del non detto, lo stato potenziale che precede e partorisce la parola. E qui la commistione indifferenziata che è il punto inevitabile di arrivo del nuovo Millennio si mostra con tutta la sua irraggiungibile complessità. È un dato definitivo, abbiamo di fronte la duplice scelta se affrontarla per la via di sintesi civili, pur con le necessarie conflittualità, oppure per la via del sangue. Ma anche richiede una messa in discussione di ogni certezza. Questo partendo dai punti essenziali racchiusi in una cultura. Senza perdersi nei particolari, che si riducono ai folklorismi. E se l’essenza della commistione è anche la disgregazione delle precedenti concezioni, queste restano ma in questa nuova veste di disgregazione. Un esempio è quello che vediamo nei romanzi di Kafka: non è difficile trovare in queste labirintiche situazioni le memorie delle culture precedenti, ma esse sono state proiettate in una nuova realtà. Nel Castello la memoria di quello che era il Castello di Praga come città superiore e centro di una vita organizzata felicemente è divenuto un geroglifico incomprensibile; vediamo la presenza di quello che era l’Essere supremo del Monoteismo però decontestualizzato e mostrato nella sua finalità volta a pepetrare la propria essenza. Le essenze colte oggi in tal modo saranno ben differenti di quelle del tempo in cui ogni via era decisa (almeno in apparenza). Così in pittura a quello che era la ripresentazione della fiaba viva nel popolo, quella di Chagall, si possono contrapporre le mute presenze, ma forse per questo ancora più vive, di Soutine.