IL PROLETARIATO GIOVANILE
IL NUOVO LINGUAGGIO


Dei migliori graffiti di questi anni sono stati fatti innumerevoli crestomazie e florilegi. Vi sono slogan del ‘68 che giustamente hanno superato l’usura del tempo; come questo (inventato forse dal giovane Andreas Baader): «Buon dio, dacci il Quinto Reich, il Quarto è uguale al Terzo». Ve ne sono del 77 destinati probabilmente a una uguale immortalità; come alcuni di quelli fioriti sotto i portici di Bologna: «Dromedarizza il tuo barone», «Viva chi pensa, abbasso i pensatori», «Sono solo una voce, mi manca l’eco». Aver riscoperto la fanciullezza della parola, la freschezza dell’invettiva, la liberazione dell’ingiuria è stato come un soffio d’aria pura nel chiuso di quel dialetto specialistico, astruso e pieno d’uggia, che è da trent’anni il gergo politico nazionale; e il merito di questa boccata d’ossigeno va riconosciuto indubbiamente al settore creativo del movimento giovanile. (...) Secondo Umberto Eco la «generazione dell’anno nove» (nove anni, cioè, dal ‘68), che pure non ha letto nè Celine nè Apollinaire che è arrivata alla parola attraverso la musica, il dazebao o il concerto pop, oggi pratica e capisce «alla perfezione» il linguaggio che finora era pascolo eslusivo della cultura alta. «L’uomo di cultura prendeva in giro il borghese che al museo, di fronte a una donna con tre occhi (...) diceva «non capisco cosa rappresenta». Ora lo stesso uomo di cultura è di fronte a una generazione che si esprime elaborando donne con tre occhi e graffiti senza forma e dice «non capisco cosa vogliono dire». Ciò che gli pareva accettabile come proposta di laboratorio gli pare inaccettabile quando si presenta in carne e ossa». Eco appartiene alla schiera di coloro i quali — di fronte al movimento dei giovani — sostengono che «innanzitutto bisogna capire». La sua ipotesi in sostanza è che il linguaggio delle avanguardie artistiche sia diventato, per una serie di fenomeni sociali e psicologici, la «parlata» quotidiana delle masse giovanili. Ma francamente, davanti a certi saggi di prosa, i tentativi di capire a volte risultano defatiganti. Un esempio, tratto dall’opuscolo Primavera ‘17: «Il processo rivoluzionario è al tempo stesso il risultato dell’emergenza di un inconscio collettivo rimosso nello scenario politico e represso nel processo di produzione, ed il momento di liberazione di flussi libidinali che costituiscono la pratica di deterritorializzazione rispetto al ruolo produttivo e la condizione della collettivizzazione. Il processo rivoluzionario è concatenazione significante e un’organizzazione razionale di segni significativi. È l’inconscio che parla nella lotta di classe, così come d’altra parte è la lotta di classe che parla nell’inconscio». L’autore del «pezzo» è Franco Berardi; il quale, peraltro, in altre occasioni, sa usare un linguaggio perfettamente accessibile al lettore anche proletario come in questo brano (tratto da "Bologna, marzo 1977"...): «Quando si scrive «Domani, lunedì riprende il lavoro nelle fabbriche» si scrive un falso. Un’altra versione linguistica dello stesso evento potrebbe essere: «Domani, lunedì, venti milioni di uomini venderanno la propria vita per otto ore». La prima informazione «falsa» è vera per il potere, e produce l’evento (oggettivo) di far apparire normale la morte di lavoro, la prestazione della vita. Le altre due informazioni (false, nel senso di «parziali», soggettive) producono l’evento (oggettivo) di smascherare il carattere storico, non naturale, contraddittorio, del lavoro». (Continua)