Happening, teatro improvvisato in piazza, durante i cortei, slogan ipersurrealisti,
giochi di parole e filastrocche, caroselli e girotondi, mimi e clown e danze
indiane, culto della beffa, dellinsulto e delliconoclastia verbale;
Totò come leader di una Quinta Internazionale: la creatività (secondo
Vladimir Majakovskij, riscoperto da Franco Berardi) vorrebbe dire «produrre
testi in piazza, dipingere di rosso la forma della vita». Ma si può
far politica con lironia e lazione teatrale? Allinizio il
movimento del 77, nelle sue diverse componenti, risponde che è
lunico modo. «La rivoluzione o è una festa o non si fa»;
una risposta che è diretta non solo ai conformisti della vecchia sinistra,
ma anche ai «musoni» della nuova. La massima espressione della «creatività»
modello 1977 è forse lo slogan «Potere dromedario»;
che è una variante soprattutto inventata contro quei «rompiballe»
dei gruppi «storici» che per anni hanno invocato il potere operaio.
«Siamo stanchi dice lindiano Beccofino
di ripetere, duri duri senza un pianto nè un sorriso, Potere
operaio, mentre alloperaio il potere continua a non darglielo nessuno.
Per questo diciamo Potere dromedario: suona come potere proletario
ma in più fa ridere. E se si ride insieme, anche far politica diventa
vita sociale, stare insieme, non solo contarsi ma anche cantarsi».
Qual è la verità rivelata dal 68? Che per fare la rivoluzione
non basta cambiare i rapporti di produzione, liquidare lingiustizia e
lo sfruttamento, occorre anche cambiare la «qualità della vita»,
fondare una nuova morale; e questo non è possibile se alla rivolta non
si accompagna la libertà, il gioco, linvenzione. È per questo
forse che a volte si ha limpressione che ci sia qualcosa di molto vecchio
(il Sessantotto non è ormai preistoria?) nei giovanissimi di oggi. Chi
non ricorda i primi gruppi omosessuali del Gay Liberation Front, che sì
costituirono nel luglio del 69? Liconoclastia antipicista del 77
(«ll Pci non è qui, lecca il culo alla Dc», «Gramsci
Togliatti Longo Berlinguer, che cazzo centra il primo con gli altri tre»)
non rammenta forse gli insolenti diciottenni della Sorbona e di Nanterre, che
chiamavano i venerandi leader del Pcf «schiuma stalinista» e «legione
straniera della borghesia»? Oggi ci sono le pirotecnie delle nuove «tribù
indiane». Ma non era forse pirotecnia politica di alto livello quella
di Mario Capanna che, come un guerriero medievale, sfondava con le travi il
portone dellUniversità o arringava con un megafono, dal monumento
di piazza della Scala, i contestatori che lanciavano uova marce sui frac dei
palchettisti scaligeri? E gli odierni «metropolitani» non sono forse
gli epigoni di quel gruppetto romano di creativi sessantotteschi chiamati «gli
uccelli», che andavano a pigolare sui tetti, nelle Facoltà e nei
salotti romani allunico scopo di épater la gente col loro comportamento
dissacrante? Definire tutto ciò, come qualcuno ha fatto, vitalismo deteriore,
goliardia riverniciata, regresso al disimpegno, virtuale spoliticizzazione non
sembra giusto. Lo slogan (cantilenato sul motivo di «Caramelle»)
«Cacciabombardieri non ne vogliamo più», non suona
affatto disimpegnato; e neppure quella scritta di sapore quarantottesco, romantico,
barricadiero, apparsa sui muri di Bologna nel marzo 77: «Quando
fai lamore non esagerare, devi andare a combattere; ma quando combatti
ricordati dellamore, altrimenti cosa combatti a fare?». La riapparizione
ciclica del coté beatnik, col suo messaggio tra lutopico, lorfico
e il dionisiaco, è una costante delluniverso culturale giovanile.
E tuttavia (...) se cè qualcosa che appare profondamente estraneo
alla tradizione del movimento operaio è certamente il vitalismo «creativo».
La spettacolarità e la stravaganza dellabito e del gesto sono stati
i simboli classici del trasgressivismo borghese. Il militante operaio tradizionale,
anche diciottenne, non proclama mai (questo, almeno, fino alla comparsa dei
Circoli giovanili) attraverso il gesto, linvettiva, labbigliamento
la sua aspirazione a una società più giusta. Il militante della
nuovissima sinistra, invece, sì. Dobbiamo prendere atto di questa nuova
volontà di chiamarsi «diversi» attraverso forme vistose di
ribellismo. Ma se la volontà di chiamarsi politicamente «diversi»
attraverso il modo di vestire o di parlare è condivisa da tutto il movimento,
diverse sono le interpretazioni settoriali della creatività. Per gli
autonomi, per esempio, creatività vuol dire «sentire mille suoni
nella raffica sparata dal tuo mitra, vedere i mille colori del sangue dei tuoi
nemici, leggere il terrore di morire in chi è abituato a comandare».
Ma nel movimento qualsiasi altro modo di sentirsi creativi ha pieno diritto
di cittadinanza: quello dei Circoli proletari (»Dopo Marx aprile»);
quello dei disimpegnati («Ribellarsi è giusto / ed è
certamente bello / lo sarebbe ancora di + / se sempre sapessi /contro cosa mi
ribello»); degli «indiani» ortodossi (»Custer boia»)
e di quelli «gallisti» («lndiani in piazza, cowboys a letto»);
dei nostalgici della vecchia scurrilità goliardica («Ognuno
sta solo / trafitto da un raggio di sole / ed è subito sega»);
delle femministe («Riprendiamoci la notte»); degli oblomovisli
(«Non sprecare il tuo tempo, sdraiati»); degli omosessuali
(«Lotta dura contro natura»); degli ecologi («Al
contadino non far sapere quant'è buono luranio con le pere»).
Lecologia è uno dei terreni preferiti delle forme di creatività
che sono più congeniali allarea che è espressione della
sinistra borghese. Alla fine di luglio 1977 Paolo Aceto, un militante di base
radicale, ha avuto lidea di responsabilizzare i giovani sul terreno del
ritorno alla natura organizzando nel parco nazionale dAbruzzo una kermesse
ecologica per seimila giovani amanti degli orsi. Doveva essere una cinque giorni
arcadica e pastorale nella vereconda e maestosa cornice del parco; ma alla fine
della radunata la zona era ridotta a una pattumiera e gli abbeveratoi
dove i giovani facevano il bagno nudi a ricettacoli di lordure dì
ogni genere. Anche il festivalino di Guello, vicino al lago di Como, non è
stato un successo (sebbene non vi siano state nè droghe pesanti, nè
immondezzai, nè violenza). Laveva organizzato «Re Nudo»,
ma, stavolta, in modo quasi clandestino, perché la notizia non si diffondesse
e non arrivassero le solite torme di nomadi con la chitarra e il sacco a pelo.
Le proposte del campeggio di Guello erano: macrobiotica, meditazione, yoga,
massaggi zen, musica spontanea, tutta roba adatta (fin dal lontano 1955, a dire
il vero) a stimolare la «creatività». (...) Proclamare «civiltà»
il regresso a modelli arcadici, invocare la riduzione dei consumi a livelli
agropecuari, è un fenomeno che ventanni fa, sul piano individuale esistenziale,
prese il nome di rivoluzione beat; e che duecento anni fa, agli inizi della
rivoluzione industriale, e sul piano di massa, ebbe un nome altrettanto preciso:
luddismo, nonché una giustificazione socio-psicologica sacrosanta: lo
sfruttamento belluino del contadino-operaio nelle prime fabbriche-gulag del
nascente capitalismo. Oggi la giustificazione qual è? «Venite
a Montalto di Castro il 20 marzo a celebrare con noi la primavera e la vita
sul luogo dove le lingue biforcute vorrebbero costruire una centrale atomica
di morte. [...] Noi indiani delle colline chiamiamo i nostri fratelli delle
città al nostro soccorso per fare a Montalto una festa della nostra vita
e una festa della nuova primavera contro leterno inverno del potere atomico
bianco. Firmato: Geronimo e i suoi». Così gli «indiani
delle colline», la scorsa primavera, chiamavano i loro compagni delle
pianure. La manifestazione antinucleare di Montalto si è svolta alla
fine dagosto del 77. Il
corteo dei manifestanti si snodava lungo lAurelia, proveniente dal campeggio
organizzato sui terreni su cui dovrebbe sorgere una delle otto centrali previste
dal piano energetico, e risaliva lungo il borgo arrampicato sul colle. Arduo
era distinguere le componenti del movimento nella fila disordinata; anche perché
la «divisa» è monotona, uguale per tutti. Il guardaroba libertario
si ispira al principio della sciatteria raffinata e si compone di capi di vestiario
frusti ma canonici: al tempo dei socialisti della prima ora era la lavallière
nera, oggi sono stivaloni da buttero maremmano e bisacce di cuoio di Tolfa,
jeans depoca e maglioni fino alle ginocchia; inoltre sono sempre più
diffuse, anche tra i non «indiani», le facce dipinte a strisce e
le fettucce rosse intorno alla fronte. In ogni modo si riusciva a discernere
nel mucchio quella mutazione di specie pellerossa che è detta dei «cicorioni»,
i quali scandivano uno slogan di dubbio valore militante («Contro la
centrale nucleare facciamoci uno spinello naturale»); seguiti da un
gruppetto di anarchici urlanti «Nè Dio nè stato, nè
servi nè padroni»; dalle «streghe» dei collettivi
romani e laziali, calzate di sandali afgani e avvolte negli ampi stracci variopinti
incrostati di fili di corallo, che si comprano nei campi dei profughi ebrei
a Ostia; e infine dagli «autonomi», rigidi come soldatini, che levavano
ritmicamente le tre dita, nel segno della P38, non verso i poliziotti ma verso
i cittadini affacciati alle finestrelle del borgo. Assistendo alla sfilata la
prima cosa che veniva da chiedersi era fino a che punto i montaltesi riuscissero
a decrittare la proliferazione di stilemi espressivi che stava sfilando sotto
i loro occhi. (Continua)