Ma Berlinguer, invece, parla di austerità, di sacrifici per tutti. E i giovani
dei Circoli (che nel frattempo sono cresciuti a oltre 50) rifiutano i sacrifici.
Nelle loro fila comincia a prevalere sull’ala creativa il coté duro degli autonomi.
È alle porte il novembre delle scorrerie: autoriduzioni, spese proletarie, assalti
ai cinema del centro. Nei volantini diffusi nei cinema si rivendica ancora l’ascendenza
sessantottesca, per pallida e sfocata che sia: «Siamo qui a denunciare la
società dei sacrifici come nel ‘68 eravamo davanti alla Bussola e alla Scala
a denunciare la società dei consumi. I sacrifici li facciano i padroni. (...)
Lo spettacolo migliore dell’autunno non è stato "Novecento", ma noi
a contestare "Novecento" a 2500 lire nei cinema di prima. (...) "Mondo
porno"; "Giovannona coscialunga"; "Quant’è bella la bernarda,
tutta bella, tutta calda"; Dracula cerca sangue di vergine, morì di sete.
Questa è la realtà che ci propone la borghesia». Il 27 e 28 novembre i Circoli
organizzano un happening nazionale del proletariato giovanile alla Statale di
Milano. Linguaggio e creatività «indiani» sono predominanti; nel manifesto c’è
scritto: «E ora che le tribù degli uomini si uniscano per scacciare dalla
faccia della terra i falsi amici dell’uomo». Ma dall’happening esce anche
la minaccia di sabotare l’inaugurazione della stagione scaligera «se il ricavato
della “prima” non sarà destinato agli organismi giovanili di base». E poiché
Paolo Grassi, sovraintendente della Scala, non cede, il 7 dicembre una quarantina
di Circoli muovono all’assalto del Tempio della Musica. Ao e Mls si dissociano
dall’iniziativa. L’unico dei gruppi a solidarizzare è Lc. Sui volantini che
cercano di giustificare l’iniziativa (conclusasi con un bilancio pesante: 30
arrestati, 250 fermati, molti ustionati e ricoverati in ospedale) si leggerà:
«La logica dei sacrifici è la logica borghese che dice: ai proletari la pastasciutta,
ai borghesi il caviale. Noi rivendichiamo il diritto al caviale. (...) E un
elemento nuovo dal ‘68: ieri uova marce, oggi autoriduzione (...). L’incasso
della “prima” deve andare ai centri di lotta contro l’eroina, la cultura deve
essere dei proletari». Si è parlato, a proposito di questi ragazzi, di aspirazioni
corporative (e subalterne) al lusso, al superfluo; si sono definiti i loro desideri
e bisogni, «brame di tipo apocalittico» o palingenetico. Non parlare più degli
altri ma di se stessi — si è detto — è segno regressivo, indice di egotismo.
Ma cosa c’è di egotistico nelle «ronde proletarie», lo strumento che i militanti
dei Circoli hanno inventato per indagare sul lavoro nero, reperire posti di
lavoro, tener d’occhio gli spacciatori di eroina, requisire stabili vuoti, colpire
i mercificatori dei rapporti umani? E regressivo sostenere che i «giovani
che finiscono in carcere per scippi, detenzione di piccole dosi di droga, furti,
non sono criminali; criminali sono i padroni»? affermare, a proposito della
violenza: «Sì, abbiamo addosso tutta la violenza che ci avete fatto e ci
fate ogni giorno»? Certo, i confini tra «esproprio proletario» e rapina
o aggressione armata possono sbiadire via via che si moltiplicano i raid, le
incursioni e le «ronde». Ma la violenza di queste bande è, innanzitutto, una
violenza alla violenza «sommersa» e difficilmente percepibile (tranne quando
viene brutalmente allo scoperto con le cariche e le scariche della polizia)
delle istituzioni. Un esempio di questa «controviolenza»? Per mesi i giovani
dei Circoli hanno affisso sui muri delle periferie milanesi lunghi elenchi di
spacciatori, con nomi, cognomi, luoghi ed esercizi dove la droga veniva spacciata;
alla fine, visto che nessuno interveniva, sono passati all’azione diretta, a
«difendere la propria vita» incendiando e assaltando bar ed esercizi incriminati;
e a quel punto, li hanno definiti teppisti, teddy boys, provocatori. Altro atteggiamento
che fa più scandalo in questi giovani: il rifiuto del lavoro. Ma come non c’è
nulla di nuovo in questo rifiuto, così non è nuova l’esecrazione dei ceti privilegiati
per l’«ozio» dei ceti subalterni. Nel contadino e nel lavoratore a domicilio,
costretti a entrare in fabbrica c’era stato, duecento anni fa, lo stesso «rifiuto»
e, nelle classi egemoni, la stessa accusa di «asocialità». La disciplina parve
anche allora agli sfruttati una mostruosità inaudita, rinuncia al proprio antico
diritto di scegliere quando, per quanto tempo e con quale intensità lavorare.
Del resto, già nel pamphlet di Paul Lafargue, genero di Marx, dal titolo «Il
diritto all’ozio», si legge: «Una strana follia possiede le classi operaie.
Questa follia è l’amore per il lavoro, spinto fino all’esaurimento delle forze
vitali dell’individuo e della sua progenie». Non dicono nulla di diverso
i militanti dei Circoli quando parlano dell’«angoscia» di «alzarsi ogni mattina
e trovarsi davanti 8 ore di schiavitù salariata»; o spiegano al cronista
del giornale borghese il significato dello slogan «Meglio una fine spaventosa
che uno spavento senza fine»: «Spavento senza fine è lavorare alla catena,
aspettare agosto per andare in ferie con la famiglia. lo sono stato alla catena.
Vedevo quelli che erano da 10, 20, 40 anni; non esistevano più, erano vuoti.
Dopo tre mesi me ne sono andato». Tutto questo può essere giudicato come
si vuole, ma è molto di più di «non voglia di lavorare». È essenzialmente ricerca
di un nuovo modo di vivere, di realizzarsi; e questo modo nuovo implica il bisogno
prepotente dello scherzo, dell’invenzione, del gioco da opporre alla morte lenta
dello spirito, all’alienazione nel rapporto ripetitivo e sterile con la macchina.
L’obiezione è se la rivendicazione del piacere, del gioco e della creatività
possa bastare da sola a plasmare la coscienza rivoluzionaria nella lotta per
l’emancipazione, che è sempre lotta di lungo respiro. «Il fiato è corto se
questa energia (...) non si concretizza in un programma d’azione, se non si
incanala nella paziente e spesso ingrata disciplina di un’organizzazione»,
si legge ne Manuale critico di psichiatria di Giovanni Jervis, uno studioso
sempre vigile di fronte alle tematiche dei movimenti giovanili. «Il limite
vero — dice Jervis — non è il volere tutto, ma il volerlo subito».
E poi: come si concilia il piccola cabotaggio della soddisfazione immediata
dei bisogni individuali con i bisogni «storici» del movimento operaio e delle
masse proletarie? La teoria nata dalla realtà che questi giovani si sono trovati
davanti, come può trasformarsi in un’iniziativa per costruire una nuova realtà?
Un’ideologia che ha alla basa la riscoperta di principi come il desiderio, il
piacere, la soddisfazione dei bisogni «privati» è certamente in grado di dar
vita a una comunità hippie, a qualche collettivo di figli dei fiori, di «indiani»
o di punk italici; e anche a qualche Circolo giovanile; ma può seriamente porsi
come obiettivo di creare una società nuova che sia capace non solo di soddisfare
dei bisogni, ma di produrre? Sono queste le domande a cui nè i Circoli del proletariato
giovanile, nè più in generale il movimento di cui essi sono oggi parte, sono
riusciti finora a dare una risposta. Con i Circoli del proletariato giovanile
ci siamo lasciati ormai definitivamente alle spalle la vecchia «nuova sinistra»
e ci siamo affacciati all’universo in espansione della «nuovissima sinistra»,
I Circoli hanno, come si è visto, un coté hippie che è l’anticamera o la fucina
dell’area più propriamente «creativa» del movimento; ma hanno anche un secondo
aspetto, quello duro, militante e aspro, da cui attingerà proseliti, stimoli
e tematiche l’altra componente nuova del movimento del ‘77, l’area dell’Autonomia
operaia. È arrivato il momento di vedere più da vicino sia la prima area che
la seconda. (Continua)