È un fenomeno che irrompe sulla scena con schemi e connotati tanto più
inquietanti quanto più inconsueti. Stavolta il 68 è davvero
lontano: il Paese è in piena crisi, gli spazi di sopravvivenza del ribelle
si sono ristretti, tutto è diventato più difficile: andarsene
di casa, prolungare ladolescenza nei campus, perfino «contestare».
lnnanzitutto il termine: nasce nellarea della controcultura, di «Re
Nudo», di parco Lambro e dei grandi raduni giovanili. Ma il fenomeno,
anche se esplode soltanto nellautunno del 76 nelle piazze e nei
cinema di Milano, è già vecchio di un anno e ha il suo terreno
di coltura nellhinterland e nella periferia milanesi. È qui che
i Circoli nascono, nellarco di pochi mesi (durante il tempo libero, dopo
il lavoro, al baretto di quartiere), con loccupazione di un locale vuoto,
di una chiesa sconsacrata, di un ex-casello daziario. Quelli cittadini si chiamano
«Franceschi», «Varalli»; quelli suburbani hanno nomi
come «Felce e mirtillo», «La piccola fiammiferaia»,
«Apache», «Occhio», «Il panettone». Il loro
giornale, che esce per un certo periodo, si chiamerà «Viola».
«Nascono come elemento di aggregazione nel territorio di fronte a una
realtà sempre più disintegratrice, dove lalienazione del
tempo libero (di non fare niente) ha comportato luso massiccio
della droga (...) dove lunico rapporto tra le persone è la violenza;
dove consumo culturale vuol dire juke-box, flipper, fumetti neri, film porno.
(...) Il Circolo, insomma, come prima risposta allemarginazione, allespropriazione
culturale» (G. Forti e S. Rutolo, in «Transizione», febbraio
77). Probabilmente è la piccola fabbrica il luogo dove il movimento
del proletariato giovanile recluta i suoi militanti più caratteristici,
«il buco dentrata della talpa che ha cominciato a scavare»,
come dirà Sergio Bologna. Allinizio, infatti, i Circoli sono composti
per due terzi da giovani operai e apprendisti di piccole officine e di laboratori
artigianali, lavoratori precari, disoccupati, studenti o ex-studenti lavoratori;
ai quali vengono ad aggiungersi i soli «cani sciolti», ex-militanti
in crisi dei gruppi, che intendono la politica come svago, piacere, liberazione,
non come sacrificio, impegno, grigio efficientismo. E una coabitazione di studenti
e operai, di ragazzi e ragazze, di fricchettoni e autonomi, di anarchici e radicali;
qualcuno, per gioco, adotta il linguaggio degli «indiani. La quota
politicizzata non supera il 30%. Ma il processo di omogeneizzazione è
quanto mai rapido. Il principio che ispira i diversi comportamenti è
che nessuno vuole più delegare a nessuno la definizione dei propri bisogni.
I lati negativi sono lo spontaneismo esasperato, il culto dello «sballo»,
leterogeneità delle motivazioni, la fragilità delle formule
politiche. Ma è bene che questi difetti ci siano, scrive subito Andrea
Valcarenghi su «Re Nudo, «perché è la garanzia
che sta nascendo un movimento vero, un organismo di massa non gestito da militanti
di organizzazione travestiti da giovani proletari. (...) Partire dalle esigenze
individuali, personali. Partire da sé e confrontarsi con gli altri».
Fra i più solleciti ad accorgersi che qualcosa di nuovo sta nascendo
in mezzo allo squallore delle periferie è «Il manifesto con
tre articoli (giugno 76) di Mariella Gramaglia, in cui si parla di una
Milano «diversa che è di casa nei quartieri di Baggio, Quarto
Oggiaro, piazzale Corvetto, porta Vigentina, nelle case occupate di via Amodeo,
a Seggiate, a Sesto San Giovanni, nei bar di periferia dove bazzicano «gli
spacciatori di eroina o i boss che propongono o il lavoro precario oppure linserimento
nella piccola e grande delinquenza». Lì nascono le bande, che
spesso sono lunica forma di socializzazione di un mondo giovanile che
la scuola espelle o non forma, e il sindacato non raggiunge, perché il
contatto col mondo del lavoro è nullo. «Da febbraio a oggi sono
sorti spontaneamente 30 Circoli giovanili. (...) Nel locale occupato si fuma,
si fa musica, si dipingono murales dentro e fuori dello stabile per segnalare
che "dentro" sta succedendo qualcosa di diverso, si sta insieme».
Anche le occupazioni a volte sono di tipo nuovo; a occupare non sono più
i senzatetto, le famiglie guidate dai militanti dei gruppi, ma i giovani, a
coppie, a bande, per provare a vivere l«antifamiglia» nella
casa occupata. La polemica contro i gruppi «storici» è feroce.
«Vengono qui a fare intervento: non sanno cosa vuol dire partecipare
a vivere le situazioni». «Pensano solo a reclutare militanti».
«Quello che sono capaci di fare è organizzare seminari. Seminari
su Lenin. Ma studiando Lenin non è che uno impara a vivere in una città
come questa». Che cosa vogliono questi giovani? innanzitutto «rivoluzionare
i rivoluzionari». Nel libretto sui Circoli del proletariato giovanile
(Sarà un risotto che vi seppellirà) si leggono sfoghi e testimonianze
preziosi: «Se ti ritrovavi lì [nella sede di Lotta continua]
dovevi subirti menate moralistiche o facevi il missionario: aiutavi le vecchiette
ad autoridurre le bollette della luce, vendevi il giornale, attacchinavi ecc.
(...) Allora preferivi stare al freddo, sulle panchine, ma almeno potevi parlare
di te stesso, dei tuoi casini anche personali». In secondo luogo,
vogliono uscire dal buio, dalla nebbia. «Ma che cazzo esci a fare la
sera quando sei inchiodato nellhinterland milanese, col freddo, la nebbia,
due chilometri per lunico bar aperto della zona, dove se ci arrivi ti
guardano male perché hai i capelli lunghi o perché non compri
la busta di eroina. (...) Vogliamo il verde e che oltre il 1° maggio anche
il primo giorno di primavera sia festa nazionale, perché ci piace la
natura, il verde, gli animali, le montagne». Scrive una ragazza su
«Re Nudo»: «Sì, sono violenta, e la violenza che
cè stata per la Scala è la rabbia che si esprime a Quarto
Oggiaro. (...) il semaforo di un incrocio non è importante, però
personalmente io lo spacco perché ho una rabbia che non riesco a indirizzare».
E un ragazzo del Circolo giovanile alloggiato nellex-casello daziario
di Sesto San Giovanni: «Tanti di quelli del 68 sono finiti così:
o dentro le Br o pieni di buchi. La droga e la clandestinità sono scelte
diverse, ma la rabbia è la stessa». In terzo luogo questi giovani
vogliono riprendersi la vita, far testa e politica insieme ; vogliono «il
pane e le rose». «Occupiamo gli stabili perché vogliamo
suonare, fare teatro, inventare, per avere un luogo alternativo alla vita in
famiglia. Facciamo le ronde per difendere gli apprendisti dal supersfruttamento,
per impedire lo spaccio di eroina, per spazzare via i fascisti. Facciamo le
assemblee sulleroina perché vogliamo costruire insieme anche a
chi si buca unalternativa di vita e non di morte. (...) Queste sono le
cose concrete che il nostro movimento sta esprimendo. Questa è la nostra
voglia di comunismo, cioè pane e rose». Si comincia con la
fase delle rose, con le feste e con i raduni della primavere del 76. Il
22 febbraio festa da ballo in piazza della Scala, cui partecipano 13 Circoli
giovanili. È la prima uscita in piazza del proletariato giovanile. «Portiamo
strumenti musicali, colori, profumi, pupazzi, striscioni, parole dordine
di lotta per il diritto alla vita». Il secondo raduno ha luogo il
21 marzo, inizio della primavera, dietro il Castello sforzesco. Il manifesto
promette musica e ballo continui, tarantelle, valzer, mazurche, rassegna pop
e folk spettacoli teatrali dibattiti su felicità, sessualità,
droga, disoccupazione»; esorta a portare «tamburi, colori e bandiere,
aquiloni e pupazzi, rondini, riti e tradizioni del Sud»; e conclude: «Invitate
donore le streghe. Vietati i gruppi chiusi, i carabinieri, i politici
democristiani». Fin qui si avverte il patrocinio di «Re Nudo».
Segue però, meno idilliaca e bucolica, la fase delle «ronde proletarie»,
delloccupazione delle case, della campagna elettorale. E siamo subito
allo scontro con i «gruppi chiusi» (cioè Lotta continua,
Partito di unità proletaria, Avanguardia operaia, Movimento lavoratori
per il socialismo); i quali si legge in quella miniera di informazioni
che è il citato Sarà un risotto che vi seppellirà
«ripropongono la divisione tra creatività- divertimento e politica
tradizionale fino allassurdo della festa di Democrazia proletaria al parco
Lambro la settimana prima delle elezioni, dove il presentatore di Ao si incazza
col pubblico: non siamo qui per divertirci solamente, ci sono problemi ben più
seri, deve intervenire il compagno (...) per il comizio conclusivo».
«A Cinisello quelli del Circolo fanno volare sopra il palco del comizio
Dc un enorme Hercules di cartone (ecco la creatività-divertimento); a
San Giuliano, dopo una festa durata dieci giorni, coi soldi vanno a Parigi a
sentire il concerto dei Rolling Stones, mandando su tutte le furie quelli di
Lc». Passa lestate e, nonostante il 20 giugno, non cambia niente,
Il sindacato e la sinistra sembrano accettare i tempi lunghissimi, non per scelta
tattica ma «sul serio», Il disinganno è crudele; dopo la
droga festaiola e le grandi sagre del nomadismo estivo, arriva lautunno
e i «bisogni» si fanno più acuti. Ma i bisogni non sono quelli
tradizionali del vecchio proletariato. «Andare al cinema un po decente,
muoversi dentro e fuori le città, non dipendere dalla famiglia, trovarsi
una casa, avere musica, libri, vino, cose belle». II 25 settembre
lultimo sussulto di «rose e creatività»: si organizza
una caccia al tesoro (mezzetto di «erba»), definita «occasione
culturale provocatoria» contro le leggi che puniscono chi fa uso di droghe
leggere. Lesito è catastrofico: piove e la «caccia»
si risolve in «innocenti espropri ci champagne e marron glacé»
per riconfermare il diritto a soddisfare, insieme al «bisogno di comunismo»,
anche quello di generi di consumo più lussuosi. (Continua)