IL PROLETARIATO GIOVANILE

Tratto da: Mino Monicelli, L’ultrasinistra in Italia. 1968-1978, Laterza, Roma-Bari 1978.

È un fenomeno che irrompe sulla scena con schemi e connotati tanto più inquietanti quanto più inconsueti. Stavolta il ‘68 è davvero lontano: il Paese è in piena crisi, gli spazi di sopravvivenza del ribelle si sono ristretti, tutto è diventato più difficile: andarsene di casa, prolungare l’adolescenza nei campus, perfino «contestare». lnnanzitutto il termine: nasce nell’area della controcultura, di «Re Nudo», di parco Lambro e dei grandi raduni giovanili. Ma il fenomeno, anche se esplode soltanto nell’autunno del ‘76 nelle piazze e nei cinema di Milano, è già vecchio di un anno e ha il suo terreno di coltura nell’hinterland e nella periferia milanesi. È qui che i Circoli nascono, nell’arco di pochi mesi (durante il tempo libero, dopo il lavoro, al baretto di quartiere), con l’occupazione di un locale vuoto, di una chiesa sconsacrata, di un ex-casello daziario. Quelli cittadini si chiamano «Franceschi», «Varalli»; quelli suburbani hanno nomi come «Felce e mirtillo», «La piccola fiammiferaia», «Apache», «Occhio», «Il panettone». Il loro giornale, che esce per un certo periodo, si chiamerà «Viola». «Nascono come elemento di aggregazione nel territorio di fronte a una realtà sempre più disintegratrice, dove l’alienazione del tempo “libero” (di non fare niente) ha comportato l’uso massiccio della droga (...) dove l’unico rapporto tra le persone è la violenza; dove consumo culturale vuol dire juke-box, flipper, fumetti neri, film porno. (...) Il Circolo, insomma, come prima risposta all’emarginazione, all’espropriazione culturale» (G. Forti e S. Rutolo, in «Transizione», febbraio ‘77). Probabilmente è la piccola fabbrica il luogo dove il movimento del proletariato giovanile recluta i suoi militanti più caratteristici, «il buco d’entrata della talpa che ha cominciato a scavare», come dirà Sergio Bologna. All’inizio, infatti, i Circoli sono composti per due terzi da giovani operai e apprendisti di piccole officine e di laboratori artigianali, lavoratori precari, disoccupati, studenti o ex-studenti lavoratori; ai quali vengono ad aggiungersi i soli «cani sciolti», ex-militanti in crisi dei gruppi, che intendono la politica come svago, piacere, liberazione, non come sacrificio, impegno, grigio efficientismo. E una coabitazione di studenti e operai, di ragazzi e ragazze, di fricchettoni e autonomi, di anarchici e radicali; qualcuno, per gioco, adotta il linguaggio degli «indiani”. La quota politicizzata non supera il 30%. Ma il processo di omogeneizzazione è quanto mai rapido. Il principio che ispira i diversi comportamenti è che nessuno vuole più delegare a nessuno la definizione dei propri bisogni. I lati negativi sono lo spontaneismo esasperato, il culto dello «sballo», l’eterogeneità delle motivazioni, la fragilità delle formule politiche. Ma è bene che questi difetti ci siano, scrive subito Andrea Valcarenghi su «Re Nudo”, «perché è la garanzia che sta nascendo un movimento vero, un organismo di massa non gestito da militanti di organizzazione travestiti da giovani proletari. (...) Partire dalle esigenze individuali, personali. Partire da sé e confrontarsi con gli altri». Fra i più solleciti ad accorgersi che qualcosa di nuovo sta nascendo in mezzo allo squallore delle periferie è «Il manifesto” con tre articoli (giugno ‘76) di Mariella Gramaglia, in cui si parla di una Milano «diversa” che è di casa nei quartieri di Baggio, Quarto Oggiaro, piazzale Corvetto, porta Vigentina, nelle case occupate di via Amodeo, a Seggiate, a Sesto San Giovanni, nei bar di periferia dove bazzicano «gli spacciatori di eroina o i boss che propongono o il lavoro precario oppure l’inserimento nella piccola e grande delinquenza». Lì nascono le bande, che spesso sono l’unica forma di socializzazione di un mondo giovanile che la scuola espelle o non forma, e il sindacato non raggiunge, perché il contatto col mondo del lavoro è nullo. «Da febbraio a oggi sono sorti spontaneamente 30 Circoli giovanili. (...) Nel locale occupato si fuma, si fa musica, si dipingono murales dentro e fuori dello stabile per segnalare che "dentro" sta succedendo qualcosa di diverso, “si sta insieme”». Anche le occupazioni a volte sono di tipo nuovo; a occupare non sono più i senzatetto, le famiglie guidate dai militanti dei gruppi, ma i giovani, a coppie, a bande, per provare a vivere l’«antifamiglia» nella casa occupata. La polemica contro i gruppi «storici» è feroce. «Vengono qui a fare intervento: non sanno cosa vuol dire partecipare a vivere le situazioni». «Pensano solo a reclutare militanti». «Quello che sono capaci di fare è organizzare seminari. Seminari su Lenin. Ma studiando Lenin non è che uno impara a vivere in una città come questa». Che cosa vogliono questi giovani? innanzitutto «rivoluzionare i rivoluzionari». Nel libretto sui Circoli del proletariato giovanile (Sarà un risotto che vi seppellirà) si leggono sfoghi e testimonianze preziosi: «Se ti ritrovavi lì [nella sede di Lotta continua] dovevi subirti menate moralistiche o facevi il missionario: aiutavi le vecchiette ad autoridurre le bollette della luce, vendevi il giornale, attacchinavi ecc. (...) Allora preferivi stare al freddo, sulle panchine, ma almeno potevi parlare di te stesso, dei tuoi casini anche personali». In secondo luogo, vogliono uscire dal buio, dalla nebbia. «Ma che cazzo esci a fare la sera quando sei inchiodato nell’hinterland milanese, col freddo, la nebbia, due chilometri per l’unico bar aperto della zona, dove se ci arrivi ti guardano male perché hai i capelli lunghi o perché non compri la busta di eroina. (...) Vogliamo il verde e che oltre il 1° maggio anche il primo giorno di primavera sia festa nazionale, perché ci piace la natura, il verde, gli animali, le montagne». Scrive una ragazza su «Re Nudo»: «Sì, sono violenta, e la violenza che c’è stata per la Scala è la rabbia che si esprime a Quarto Oggiaro. (...) il semaforo di un incrocio non è importante, però personalmente io lo spacco perché ho una rabbia che non riesco a indirizzare». E un ragazzo del Circolo giovanile alloggiato nell’ex-casello daziario di Sesto San Giovanni: «Tanti di quelli del ‘68 sono finiti così: o dentro le Br o pieni di buchi. La droga e la clandestinità sono scelte diverse, ma la rabbia è la stessa». In terzo luogo questi giovani vogliono riprendersi la vita, far testa e politica insieme ; vogliono «il pane e le rose». «Occupiamo gli stabili perché vogliamo suonare, fare teatro, inventare, per avere un luogo alternativo alla vita in famiglia. Facciamo le ronde per difendere gli apprendisti dal supersfruttamento, per impedire lo spaccio di eroina, per spazzare via i fascisti. Facciamo le assemblee sull’eroina perché vogliamo costruire insieme anche a chi si buca un’alternativa di vita e non di morte. (...) Queste sono le cose concrete che il nostro movimento sta esprimendo. Questa è la nostra voglia di comunismo, cioè pane e rose». Si comincia con la fase delle rose, con le feste e con i raduni della primavere del ‘76. Il 22 febbraio festa da ballo in piazza della Scala, cui partecipano 13 Circoli giovanili. È la prima uscita in piazza del proletariato giovanile. «Portiamo strumenti musicali, colori, profumi, pupazzi, striscioni, parole d’ordine di lotta per il diritto alla vita». Il secondo raduno ha luogo il 21 marzo, inizio della primavera, dietro il Castello sforzesco. Il manifesto promette musica e ballo continui, tarantelle, valzer, mazurche, rassegna pop e folk — spettacoli teatrali — dibattiti su felicità, sessualità, droga, disoccupazione»; esorta a portare «tamburi, colori e bandiere, aquiloni e pupazzi, rondini, riti e tradizioni del Sud»; e conclude: «Invitate d’onore le streghe. Vietati i gruppi chiusi, i carabinieri, i politici democristiani». Fin qui si avverte il patrocinio di «Re Nudo». Segue però, meno idilliaca e bucolica, la fase delle «ronde proletarie», dell’occupazione delle case, della campagna elettorale. E siamo subito allo scontro con i «gruppi chiusi» (cioè Lotta continua, Partito di unità proletaria, Avanguardia operaia, Movimento lavoratori per il socialismo); i quali — si legge in quella miniera di informazioni che è il citato Sarà un risotto che vi seppellirà — «ripropongono la divisione tra creatività- divertimento e politica tradizionale fino all’assurdo della festa di Democrazia proletaria al parco Lambro la settimana prima delle elezioni, dove il presentatore di Ao si incazza col pubblico: non siamo qui per divertirci solamente, ci sono problemi ben più seri, deve intervenire il compagno (...) per il comizio conclusivo». «A Cinisello quelli del Circolo fanno volare sopra il palco del comizio Dc un enorme Hercules di cartone (ecco la creatività-divertimento); a San Giuliano, dopo una festa durata dieci giorni, coi soldi vanno a Parigi a sentire il concerto dei Rolling Stones, mandando su tutte le furie quelli di Lc». Passa l’estate e, nonostante il 20 giugno, non cambia niente, Il sindacato e la sinistra sembrano accettare i tempi lunghissimi, non per scelta tattica ma «sul serio», Il disinganno è crudele; dopo la droga festaiola e le grandi sagre del nomadismo estivo, arriva l’autunno e i «bisogni» si fanno più acuti. Ma i bisogni non sono quelli tradizionali del vecchio proletariato. «Andare al cinema un po decente, muoversi dentro e fuori le città, non dipendere dalla famiglia, trovarsi una casa, avere musica, libri, vino, cose belle». II 25 settembre l’ultimo sussulto di «rose e creatività»: si organizza una caccia al tesoro (mezz’etto di «erba»), definita «occasione culturale provocatoria» contro le leggi che puniscono chi fa uso di droghe leggere. L’esito è catastrofico: piove e la «caccia» si risolve in «innocenti espropri ci champagne e marron glacé» per riconfermare il diritto a soddisfare, insieme al «bisogno di comunismo», anche quello di generi di consumo più lussuosi. (Continua)