Il grido assoluto di Danilo Montenegro
Il canto dei popoli sfruttati ha una sola voce e tanti nomi. Il neocantastorie lo racconta da sempre.
di Silvana Marra


E così, in apertura di serata al “Kroton jazz festival” ed a sorpresa per il pubblico, venerdì ventitré agosto, Danilo Montenegro. Strano, non perché il “neocantastorie” fosse in una prestigiosa rassegna jazz, ma perché nessuno ne sapeva niente. I posti erano pressoché esauriti ma c’è da giurare che se il nome di Montenegro fosse stato in cartellone, la gente sarebbe rimasta in piedi. Perché avrebbe chiamato a raccolta anche i suoi numerosi estimatori, quelli che si nutrono del genere popolare e che dal jazz sono lontani e vicini, ma non lo sanno. La tesi di Danilo, infatti, è sempre stata questa: le nostre nenie sono dei blues, i canti di protesta nati sotto il sole dei campi di tabacco, sono degli spirituals. Ed ha aperto con una poesia dallo struggente sottofondo musicale, cui testo e voce conferivano tutta la tristezza dell’umiliazione, quando ancora alla gente è dato provarne.”Nu’ popolo diventa povero e servo quando ci tagliano a’ lingua”. Nei primi versi, le coordinate di quello che sarebbe stato il concerto e di quella che è la matrice del jazz, canto di dolore, di protesta e di tensione al riscatto. Il feeling, la filosofia comune a ciò che viene fuori da una chitarra e da una voce quando non hanno vita facile. E dovunque esse si trovino. E poi la rabbia e l’urlo, cantato e suonato. Nulla a che vedere con le fredde,  lunghissime session che propongono scale interminabili, melodia inafferrabile, facce sul sofferto- andante nei musicisti e sul patito- colto, nel pubblico. Già, perché molti amanti del genere, si sentono un tantino più su degli altri, della parola e di un motivo conduttore non sanno che farsene. Questione di punti di vista. Lo spettacolo è stato coinvolgente come a chi non conosce la band di Montenegro sul palco, sarà difficile immaginare. Le cadenze venivano fuori gioiose o malinconiche, ma nascevano da una formazione popolare, originata dall’appartenenza, e consolidatasi nella ricerca. Sentimento e denuncia, in ogni pezzo. A fare da contrappunto, arrangiamenti di singolare contaminazione che spaziavano dal folk più genuino ai blues più sinceri. Quanto di più vicino al jazz nero, quello vero. Quello che sa essere sarcastico ma mai felice, e che si rifiuta di strizzare l’occhio al dixieland, appena ruffiano, lievemente traditore ed un po’ venduto. Che non ci sta a  figurare in atmosfere alla Scott Fitzgerald, a mascherarsi in paglietta e doppiopetto gessato e proprio non ce la fa, a fare il verso alla chitarra con un banjo. Poi, che sia pure tutto jazz, vorrà dire che la grande madre nera si sarà accoppiata in una notte di follie, con un bianco e ne sarà nato qualche figlio illegittimo. Però  la storia è storia. Sarah Vaughan, Billie Holiday e Louis Armstrong tiravano fuori la voce dell’anima ed era quella del dolore. Le allegrie restano in superficie, non lasciano traccia e non sono viscerali, le ferite si. Montenegro canta dei morti senza nome delle fabbriche, degli sfruttati senza voce e di spazi critici compressi da un’informazione fasulla. Passa dalla chitarra battente all’organetto, all’armonica, alla tammorra e grida “cercu largu, nu’ pochi i’ largu”. E racconta la brutta storia di Fragalà di Melissa con un blues che fa venire i brividi, illustrato anche con  due pannelli da lui dipinti. E che gli ha procurato l’onore di uno speciale annullo postale. A dargli presa ulteriore, l’appoggio vocale di Vincenzo De Franco, storico percussionista del gruppo, a proprio agio fra una garruba gigante delle Canarie e campane di legno. E poi c’è Ilaria, la figlia di Danilo, col flauto traverso ed una musicalità da corredo cromosomico. Al piano, Raffaele Zumpano, professionista noto e musicista raffinato mentre per la sezione ritmica, Francesco Bonofiglio per la batteria e Pino Sallusti per il contrabbasso. La chitarra per Giovanni Spatafora ed il sax soprano per Raffaele Rizza. Per chi non frequenta, sono nomi, fatto sta che l’altra sera erano mani ed anime che andavano all’unisono, i volti erano malinconici quando c’era da esserlo, felici quando suonavano forte, in un ritmo crescente e quasi orgiastico, da ritualità baccantica.  Con tutti in mezzi toni che jazz e musica popolare sanno dividersi.
Silvana Marra