Una
chitarra che batte col cuore della storia
Canada, Germania, India, Svizzera ed Usa sanno
parlare calabrese. Più di noi.
di Silvana Marra
“Quando quelle
mani callose mi accarezzavano, sentivo solo amore, non erano mani ladre”.
E’ l’autore a commentare “Mani tosti”, una canzone
struggente sul lavoro oscuro del bracciante e su quello ingrato, della
fabbrica. Non esiste frase più efficace per provare a dire qualcosa su
Danilo Montenegro, cantastorie, uomo ed artista totale. “Mani
ladre”, locuzione un po’ infantile che riporta ad un naif
incontaminato e fa da
cerniera espressiva alla durezza di una realtà che non sempre premia
chi decide di non crescere nella maniera che tutti si aspettano. Due
parole in cui il Danilo bambino allora, come oggi l’uomo maturo,
sintetizza il significato del termine “onestà”. Idea
inscindibile dal lavoro, dal sangue e dal sudore. Da un corpo
usurato, da una pelle irruvidita dalla terra ed arsa dal sole.
Montenegro è vibonese, nella sua storia, una madre raccoglitrice
d’ulive ed un padre e un nonno braccianti agricoli. Ma anche e forse
per questo, suonatori di chitarra battente. Uno strumento particolare,
d’origini colte quanto nessun altro, se solo si pensa che ha
accompagnato il canto e più spesso il grido, del popolo. “…
Partivi ch’era giovani d’età, fortuna cercai ‘nta Svizzera e
‘nto Canada, la mia fortuna vi la presentu tutta: ‘na casa
fatta ‘i blocchi ‘i sopra a sutta”. I versi sono di “Vogghju
gridari”, pezzo nato da una tragedia vissuta in prima persona
nella Germania dell’80. L’Artista era in visita in fabbrica. Molti
erano i connazionali che vi
lavoravano, senza altra gratificazione che la sopravvivenza. Rimase
colpito dalle differenze fra l’ambiente di lavoro confortevole dei
capi e lo squallore dei reparti operai. Proprio a sera, durante il
concerto, arrivò la notizia di un uomo morto sul lavoro. Ancora, negli
occhi, lo sguardo perso nel vuoto di un ragazzo al ritmo alienante della
catena di montaggio. Lo scollamento fra un’idea di società
apparentemente più avanzata ed una realtà che pure continuava ad
imporre l’umiliazione della precarietà a degli esseri umani. Ed una
canzone, il cui ritmo è reso incalzante e quasi ansiogeno, dal suono
ripetitivo dell’armonica. Danilo Montenegro, “Incantastorie” come
poeticamente definito da certa critica, ha idee personali, da originario
sapere antropologico. Non libresco ma da appartenenza. La chitarra che
suona, con sei corde tutte uguali, è, appunto, “battente”, forse
perché c’era chi la usava scandendovi il tempo con la mano, come
“il golpe”della tecnica flamenca. Più presumibilmente, però,il
termine trae origine dall’invito che il cantante era solito rivolgere
al suonatore: “vattime o’tiemp”. “O’ trivulu”, era una nenia
cadenzata, quasi un lamento
che, nelle nostre campagne, aveva la stessa matrice dei blues neri. Così
come il canto d’amore che qui da noi, nasce anche come espressione di
protesta: “…papà mi raccontava che quando andavano a fare una
serenata, venivano picchiati e portati dentro…” Già, era la
repressione che cercava un pretesto e non si lasciava incantare
dall’innocente intenzione dichiarata. I toni della cantata erano
rabbiosi e dolci allo stesso tempo perché originavano da un quotidiano
di frustrazione, di lavoro e di sfruttamento, l’amore diventava
l’occasione per esprimere l’accoramento e la passionalità,
l’unico sfogo consentito ad una rabbia, altrimenti, da reprimere.
Interpretazioni, dunque, non ufficiali ma che riportano
all’empatia ed alla condivisione verso
chi ha vissuto da deprivato. Nulla d’accademico in un parlare
che pure trasuda cultura e consapevolezza. Impegno
in ogni direzione, anche in quei capelli lunghi che non sono
inveterata omologazione ma fedeltà a piccole discriminazioni delle
quali, da ragazzo, veniva fatto segno. Gli anni ’70 erano quelli
in cui anche lo schierarsi da una certa parte, il recitare nel
“Gruppo teatrale d’intervento politico” di Cosenza,
potevano giustificare un’indagine della polizia. Sono queste le
coordinate chiare dell’uomo e dell’artista: un poeta, musicista,
attore, pittore e cantante in una sintesi di comunicazione globale. “Non
so mai il momento preciso in cui nasce il quadro, la musica o la
ballata, non riesco a capire quale viene fuori prima”. Come a
dire, che ogni modo è buono per arrivare all’altro, che ogni parola,
qualunque idea e qualsiasi tono può diventare canzone di vita, di
rabbia e di morte. Ed esplorare tutte le forme d’espressione significa
acchiappare il senso stesso della vita: non esiste momento privilegiato,
la magia sta proprio nell’unificare in un solo essere e con la stessa
coerenza, tutte le forme d’espressione. Lo hanno insegnato filosofi
che erano matematici e poi letterati, personaggi che sapevano poetare e
dipingere, scolpire e declinare la genialità. L’umanesimo dimenticato
e ritrovato in una barba biblica e lineamenti da zingaro. La sua
religione dell’uomo, Danilo ce l’ha scritta sul volto, in occhi
penetranti che guardano diritto in faccia. Un neo-cantastorie che
racconta e mostra opere che egli stesso dipinge. Ma la differenza con
l’immagine tradizionale sta proprio in un più intuitivo nesso fra
musica, parole e figurazione: le rappresentazioni pittoriche non
integrano il racconto ma ne evocano suggestioni ed atmosfere. Non sono
in sostanza, direttamente e didascalicamente parte della storia ma in
qualche modo, vi aggiungono un’emozione in più. Anche questo vuol
dire credere nell’interlocuzione, spingere il pubblico a farsi parte
attiva nell’interpretazione di metafore e simboli. Docente di
discipline pittoriche presso l’Istituto d’arte di S. Giovanni in
Fiore, anche a scuola il percorso esistenziale e l’impegno sociale
seguono la strada che battono sul palco. Tanto per dirne una, il
programma dell’anno in corso si basa sulla ricerca del segno
archetipale, del cammino in se stessi per riuscire ad individuare i
condizionamenti pre e post- natali. Diverse le esperienze di
lezione-concerto tenute alle università, ciò che racconta va di pari
passo con l’idea della divulgazione e della mediazione culturale. Non
avrebbe senso narrare di sfruttamento e non raccordarlo alla realtà,
Montenegro non canta la storia ma la gente. Tempo fa gli fu censurata,
alla tv nazionale, una ballata sul condizionamento psicofisico dei
bambini. Viene in mente “L’attimo fuggente”, il film “cult” in
cui un insegnante, stravolgendo la didattica tradizionale, ha la sola
mira di liberare dalle gabbie della convenzione, lo spirito dei ragazzi.
Ed è evidente, nell’Artista, una paternità etica, a titolo di
responsabilità oggettiva, nei confronti di chi gli sta di fronte.
Danilo non si stanca mai di spiegare, mai di lanciare il suo messaggio
di riscatto. E’ costante la paura di usare violenza, di non avere il
tocco delicato con chi possiede, o sa, meno di lui. Mai snob, solo
fieramente sprezzante nei confronti della malafede. “Di fronte ad
una persona umile, sono io a sentirmi violento. La cosa che mi offende
di più è abusare dell’innocenza di un altro, anche di una pianta”.
E guardarlo e pensare ad un profeta dell’oggi, è tutt'uno. Simpatico,
vivace, realistico ma anche ascetico. Semplice, senza paura del giudizio
altrui, è una dimensione che non gli appartiene. Ma qual è la sua idea
dell’utopia? “E’ l’armonia fra gli uomini e fra i popoli, il
non violentare. Perché libertà vuol dire rispetto”. Ad
ascoltarlo, si ha subito l’impressione di una persona dalla sensibilità
diversa, di quelle cui non sempre è dato vivere “bene”. Si
può diventare pazzi a forza di pensare ma “la normalità è
seguire l’istinto all’interno
di un concetto armonico del rispetto. Pazzo è solo chi si adegua al
convenzionalismo sociale”. Parole che sono già musica ed il
coraggio d’essere un poeta. E poesia non è che orgoglio di un amore
che per altri può essere follia. Sono le alte frequenze su cui sanno
viaggiare solo poche anime. Parla con le piante ma anche di una pietra
saprebbe ascoltare la storia. Una volta s’allontana di casa per un
po’. Al ritorno trova la sua diefenbachia malata, sul punto di
seccare. La scuote, la rimprovera come si fa con quelli con cui ne vale
la pena - “Aho! Ma che stiamo facendo?” - e la pianta torna a
vivere. “Non m’interessa di quello che si possa pensare, la gente
quando vede che sei libero, cerca di metterti il bastone fra le ruote”.
Chi non è capace di vivere ad un certo modo,
colpisce e giudica chi vi riesce, è sempre così. Solido anche
nell’idealismo, radicato nella conoscenza del genere umano. Ed
innamorato del miracolo che ogni persona è: “devi avere
fiducia in quello che fai, predisporti, darti”. La fede non
è un problema, crede nella natura, lavora nel suo orto, fa innesti e
poi li vede germogliare. “Se questo è Dio, dico che credo”.
Poi, c’è tutto il resto, il male che non ha spiegazione né scusa e
forse, fa meno male pensare che Dio non c’è. Una trentina d’anni fa
s’imbattè in un cane ferito. Cercò di avvicinarsi per soccorrerlo ma
la reazione della bestia fu d’aggressività. Non credeva ad un uomo
che potesse fargli del bene. Venne fuori “‘Nu jornu”, la
sua prima ballata ambientalista. “… nu jornu pe’ strata
‘n’acellu trovai, a morti feritu mi dissi così: -pe’ chillu chi
fai nui stamu morendo! Sì voi ca tutti nui campami, ’nto celu libari
pemmu u vulamu, tu l’acqua e l’aria no’ mbelenari e pe’
piaceri, no ‘ndi sparari”. Ricorre, nella testimonianza,
il rimpianto critico verso tutto ciò che a questa terra manca ma allo
stesso momento viene fuori l’orgoglio ed anche l’allegria, di
esserne figlio. Montenegro è conosciuto fuori dei confini nazionali,
significative sono state le esperienze in Germania e nel Canada, è
proprio il nostro paese a manifestare la consueta reticenza verso tutto
ciò che è cultura alternativa. Magari, com’è giusto, abbiamo anche
curiosità per le filosofie orientali ma delle nostre, sappiamo poco.
Della chitarra battente, ad esempio, non siamo nemmeno in grado di
riconoscere la forma e pare, a detta dei De Bonis, antichi liutai in
Bisignano, che Danilo Montenegro ne sia il più fedele interprete. “Se
riesco a cantare qui, ho
fatto un’operazione culturale e politica, se lo faccio a Milano, è
solo un’operazione naive”. Ancora, la consueta fede nel
messaggio, la stessa di una canzone rivolta ad un ipotetico figlio
ancora non nato. Quando la vita è dolore non è un dono: “Io
sacciu ca la culpa no’n’è la mia ma ‘nta ‘stu mundu io no’ ti
vorria, vogghju aspettari ancora mu su’ sicuru ca di la vita toi no’
t’hai a pentiri, mu hai lu cori sanu, forti e duru e di chiju chi ta
dezzi non hai a patiri. Sicuru no’ su’ mai di tuttu chistu ma criju
‘nta chiju omu chi fa’ giustu, si pensu e sacciu c’haju a
sbagghijari, vogghju ‘nta morti mu pozzu scappari”. Un bambino
ha diritto a nascere in un mondo più giusto. E siamo noi a doverci
pensare.
Silvana Marra |