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Uniformita’ e difformita’ linguistiche nell’area euro-mediterranea

 

I concetti relativi ad animali, piante, prodotti o istituzioni create dall’uomo, normalmente trovano espressione linguistica nell’area euro-mediterranea in vocaboli tanto più difformi foneticamente gli uni dagli altri, quanto più agevole e risalente a tempi remoti è stato il loro reperimento, conoscenza o istituzione.

Per converso quelle parole che designano alcunché di estraneo, importato o inventato in epoche relativamente recenti, di regola presentano aspetti linguistici uniformi o derivanti al massimo da due o tre fonti diverse, ma delle quali una è di gran lunga predominante.

Nell’analisi che ha portato a tali conclusioni sono state prese in considerazione le antiche lingue classiche greca e latina, le cinque principali lingue neolatine, romeno compreso quindi, tre lingue germaniche: tedesco, inglese e neerlandese (i linguisti considerano olandese e fiammingo varianti di un solo idioma), il russo per il gruppo slavo, il turco della famiglia uralo-altaica e l’arabo che interessa l’intera fascia meridionale del bacino del Mediterraneo.

Lo studio avrebbe forse probabilità di ampliarsi in quanto dei confronti sporadici con un’altra lingua romanza (il catalano), una slava (il bulgaro) ed una germanica (lo svedese), non hanno approdato a risultati sensibilmente diversi.

Non vogliamo naturalmente nascondere o minimizzare le eccezioni che ogni regola trascina inevitabilmente con sé, ma nel caso specifico potremmo piuttosto affermare di trovarci di fronte ad attenuazioni di un fenomeno linguistico che si presenta con due aspetti divergenti.

Qualche volta, come noto, singole parole subiscono un processo storico-linguistico di rigetto e sostituzione, sia per amalgamazione di popoli, sia per sopraffazioni politiche che per influssi culturali, com’è avvenuto per il termine goupil che nel francese antico significava "volpe" e che sparì sostituito da renard dopo il successo del "fabliau" sulle gesta dell’astutissimo Renart che la personificava.

Ci sia ancora consentito accennare all’amplissima contaminazione subita dal romeno ed ancor più dal turco da parte della lingua francese nel secolo scorso, quando il suo prestigio era all’apice e dominava incontrastata nella diplomazia e nella cultura.

Veniamo al vivo della questione ed osserviamo che, indipendentemente da una certa dose di intuito che dà l’avvio ad una ricerca, è la stessa logica e, più ancora, il semplice buon senso che può aiutarci a comprendere.

Supponiamo che ad un animale od una pianta o un prodotto fossero presenti o venissero contemporaneamente conosciuti in tutta l’area che stiamo considerando, all’epoca nella quale le lingue primitive venivano formandosi. E’ verosimile che alla nascita di ogni singolo linguaggio queste realtà venissero indicate con vocaboli esclusivi o tutt’al più somiglianti ad altri scelti da quelle poche genti consorelle che si trovavano a più immediato contatto.

Nell’Alto Medioevo il formarsi delle lingue neolatine, a seguito del disgregarsi della parlata latina popolare e militaresca, o di quelle germaniche o della slave per naturale evoluzione dalle rispettive fonti linguistiche originarie, determinò comunque una certa uniformità nell’ambito di ogni singola famiglia linguistica: Ma non fu sempre così, come vedremo più oltre per termini come farfalla e fungo.

Se invece la conoscenza di un determinato animale, pianta ecc., avvenne come conseguenza di importazioni per scambi commerciali o al seguito di un conquistatore che riuscì ad imporre il suo dominio per un tempo discretamente lungo, anche la voce che la determinava venne importata e si diffuse su aree più o meno vaste proporzionalmente alla forza reale o psicologica che le nuove genti esercitavano, tenendo presente che anche circostanze casuali possono aver avuto il loro peso.

Non è questa la sede per esaminare quali motivazioni fonetiche (termini onomatopeici!), psicologiche, storiche ecc., stiano alla base della scelta di certi raggruppamenti di fonemi e non altri; ne facciamo un breve cenno per quel che può agevolarci a meglio sviluppare il nostro discorso.

E’ assai probabile che la predilezione per una particolare voce sia spesso dipesa dall’osservazione di certe caratteristiche evidenti o qualificanti, anche se oggi, sia pure dopo un esame non superficiale, non siano sempre rintracciabili per le incessanti trasformazioni che subiscono i linguaggi con il procedere del tempo.

Se i Portoghesi, quando vennero a contatto con il bradipo (bradypus tritactylus) nelle selve dell’Amazzonia, decisero di chiamarlo preguiça, ciò dipese chiaramente dalla constatazione che questo animale si muove con esagerata, esasperante lentezza, quasi fosse la Pigrizia personificata.

Per restare nel regno animale notiamo che alle volte il nome fu suggerito dal cibo prediletto o … obbligato di una specie, come fu per il formichiere che è appunto un "mangiatore di formiche", debitamente classificato scientificamente nella famiglia dei mirmecofagidi.

Tale è anche il significato del termine tedesco amenisenfresser, del neerlandese miereneter, dell’inglese ant-eater, dell’arabo ākal-an-naml, del russo murav’ed e del turco Karincayiyen.

I Romeni hanno furnicar (fornică=formica), mentre i Francesi, oltre a fourmilier usano tamanoir, una voce indigena dei Carabi che dovrebbero adoperare correttamente soltanto per indicare il formichiere gigante.

Questa sottospecie ha certo ispirato gli Spagnoli, per i quali è un oso hormiguero, i Portoghesi che lo chiamano urso formiguero ed anche gli Inglesi che usano il termine ant-bear, poiché dall’aspetto generale e dall’incedere ha qualcosa dell’orso.

Naturalmente questo caso non è affatto probante per deporre a favore dell’uniformità delle voci di provenienza esotica; anche se il significato dell’appellativo scelto così unanimemente è praticamente identico nelle varie lingue, ci troviamo piuttosto di fronte ad una identità ideologica, quasi un’alternativa all’identità fonetica che ci saremmo aspettati dal nostro punto di vista.

Ripetiamo che ci preme far rilevare come certe unioni di fonemi abbiano potuto conservarsi pressoché inalterate o come, al contrario, si riscontrino esempi clamorosi di difformità assoluta; entrambi i casi in dipendenza diretta da una delle due opposte situazioni originarie, ampiamente descritte in precedenza.

E veniamo alle esemplificazioni opportune, necessariamente limitate.

Il cane è l’animale che già dalla preistoria, con l’affermarsi delle civiltà pastorali, ma forse prima con il perfezionarsi della primordiale attività venatoria, ha accompagnato ininterrottamente il cammino dell’uomo.

La voce italiana deriva dal latino canis, greco ōn e diede anche origine al francese chien ed al portoghese câo. Ma già nella variante brasiliana della lingua di Camôes si preferisce cachorro (da catulus= cucciolo) che in spagnolo ha conservato il significato del latino, mentre il castigliano ha perro, l’inglese dog, il tedesco hund, il neerlandese hond, il russo sobaka, il turco köpek e l’arabo kalb.

Scegliamo un altro esempio tra la fauna più nota ab antiquo e diffusa ovunque: la farfalla.

La voce italiana proviene dal latino papilio, dopo alcuni mutamenti fonetici assai misteriosi per tutti i profani, ma con immediatezza ne deriva il francese papillon.Per l’inglese si ha butterfly, per il tedesco schmetterling, per il neerlandese vlinder, per lo spagnolo mariposa, per il portoghese borboleta, per il romeno fluture, per il turco kelebek, per il russo babočka e per l’arabo farāshat.

Visitiamo ora il campo opposto: l’aspetto uniformità.

Il cammello, noto ai Sumeri come animale selvatico dato che lo definivano pittorescamente "elefante delle montagne", venne preso in considerazione dall’uomo mediterraneo come bestia da soma e cavalcatura anche a scopi bellici verso il sec. VIII a.C. presso gli Urriti, I Neoittiti e … gli Arabi, in epoca storica non lontanissima quindi.

La sua immagine viene ancora immediatamente associata alla visione di carovane beduine che avanzano lentamente nelle interminabili distese del Sahara (=deserto in arabo) ed effettivamente proprio dalla lingua del Corano ci viene la voce ġamal. Da quella discendono sia il greco kámēlos che il latino camelus.

Per il tramite della voce latina si formano l’italiano, lo spagnolo camello, il portoghese camelo, il francese chameau, il tedesco kamel, il neerlandese kameel, l’inglese camel edil romeno cămilă. Uniche stonature in così unanime coro sembrerebbero il russo verbliud ed il turco deve.

Anche il gatto domestico, non ignoto agli Antichi ma come preziosa rarità dell’Egitto dei Faraoni dove era oggetto di culto particolare (Cleopatra ne aveva uno con sé nella sua entrata trionfale a Roma), è un acquisto recente della zona europea. Cominciò ad essere visto o almeno conosciuto soltanto con il ritorno dei Crociati dalla Siria, o Soria come allora si diceva, con quel bell’esemplare di soriano , presumibilmente quale dono esotico per le spose lasciate negli aviti castelli.

I Romani l’avevano chiamato felis o feles, il minimo che potevano fare per un felino si sarebbe tentati di commentare paradossalmente, ma fu la nuova voce del latino medievale cattus, a sua volta dall’arabo qiţţ che si diffuse prepotentemente.

Da essa provengono l’italiano, lo spagnolo e il portoghese gato, il francese chat, il tadesco katze, il neerlandese kat, l’inglese cat, il turco kedi, il russo kot ed il romeno cotoi.

Tale uniformità non è inficiata dall’osservazione che altre denominazioni sono comunemente usate per indicare il nostro casalingo micio: matou dai Francesi (per il maschio), poes dagli Olandesi e motan dai Romeni che chiamano la gatta pisica.

Sinonimi ed allotropi sono del resto fenomeni non rari per ogni lingua  (il portoghese, il russo e l’arabo ne sono particolarmente ricchi), senza contare che vi è la necessità, in certi casi, di essere maggiormente precisi nell’indicare un particolare animale in relazione non solo al sesso, ma ad altre caratteristiche come l’età, il colore ecc.

Anche per noi Italiani il nobile equus caballus non è invariabilmente un semplice cavallo, ma più esattamente: uno stallone, una giumenta, un sauro, un ronzino, un pony ecc.

Il leone, anche se vivente in epoca protostorica nell’Ellade (il leone nemeo) come appunto tramandano le leggende, ma anche attestano la grande scultura in pietra della porta di Micene e la lama bronzea ageminata del Museo Nazionale di Atene, che ci sono pervenute da quella civiltà, pur riuscendo a conservare un suo habitat nell’Africa Settentrionale sino alle soglie del nostro secolo, è stato pur sempre un elemento decisamente esotico per i popoli europei. Da ciò dovrebbe dipendere l’uniformità fonetica delle voci che lo designano a partire dal greco léon, latino leo. Dal latino il termine italiano, lo spagnolo léon, il portoghese leâo, il tedesco löwe , il neerlandese leew ,l’inglese e il francese lion, il romeno leu, ed il russo lev. Per i Turchi è aslan, per gli Arabi asad  o layth.

Tra la frutta a disposizione dell’uomo primitivo vi era certamente l’uva, poiché allo stato selvatico la vite era probabilmente reperibile dappertutto, clima permettendolo, e l’antichità è confermata da una sortadi arcobaleno glottologico. Se infatti dal latino uva sono derivate intatte le voci italiana, spagnola e portoghese, il romeno ha invece strugure, il francese raisin, l’inglese grape, il tedesco weintraube, il neerlandese druif, il russo vinograd, l’arabo ‘inab ed il turco üzüm.

La voce vino è esemplare in contrapposizione poiché la viticoltura, verosimilmente e logicamente posteriore, giunta nella nostra area probabilmente dall’Asia Minore (ricordiamoci di Noè e della prima vigna che coltivò presumibilmente ai piedi del Büyük Ağri Daği, il monte Ararat dei Turchi) si diffuse in tempi non eccessivamente lontani (connessione col mito di Dioniso-Bacco e coi baccanali) nell’Ellade ed in altre zone sin nell’interno dell’Europa Continentale, specialmente poi ad opera dei Romani che piantarono i primi vigneti della valle del Reno.

Dal greco ôinos, latino vinum, provengono l’italiano e lo spagnolo vino, (idem per il russo ed il catalano ha vi), il portoghese vinho, il tedesco wein, il neerlandese wijn, l’inglese wine mentre l’arabo ha kamr ed il turco sarap (che va letto sciarap), cioè bevanda, da una voce araba con tale significato.

Per la birra il discorso è molto più complesso. In effetti questa bevanda ha un’antica ascendenza orientale, risalente alle prime civiltà mesopotamiche, la ritroviamo con lo zitum dell’Antico Egitto e veniva fabbricata nella Grecia Antica , ma fino all’VIII secolo d.C. era fatta senza luppolo e venne chiamata cervoigia in Italia, cervoise in Francia, cerveza in Spagna e cerveja in Portogallo

Se i termini spagnolo e portoghese sono stati conservati per designare il nuovo prodotto, nato con l’uso del luppolo nella lavorazione, il più recente termine neerlandese bier ebbe il sopravvento quasi dappertutto altrove, Italia compresa.

Venne importato inalterato nei paesi di lingua tedesca, diventò bière in Francia, si trasformò in beer in Inghilterra, bira per i Turchi e tra i Bulgari, bere tra i Romeni, bīrat tra gli Arabi . Soltanto il russo usa una voce del tutto differente: pivo.

E’ noto che il primo museo venne istituito in età ellenistica ad Alessandria d’Egitto. La voce greca mouséion passò ai Romani che adottarono l’idea e adattarono la parola in museum, che passò a significare anche una raccolta di libri, la biblioteca.

A tempo debito nacquero le voci moderne, con la sola eccezione dell’arabo che ha muthaf , e precisamente la stessa voce latina per tedesco, inglese e neerlandese, lo spagnolo e l’italiano museo, il portoghese museu, il romeno muzeu, il francese musée da cui il turco müze ed infine per il russo muzej.

Facciamo ora una puntata nell’ambito delle costumanze e vediamo se, trovando una gran varietà di voci per un’usanza determinata, sia vero che abbia una diffusione assai generalizzata, molto lontana nel tempo in tutti, o quasi, i paesi della nostra area geografica.

Orbene vi è sicuramente un’abitudine comune a moltissimi popoli, riprovata o quasi ignorata ufficialmente per le sue implicazioni non sempre moralmente ineccepibili, ma seguita ampiamente de facto: la mancia.

Il cammino psicologico che la giustifica può aver seguito anche vie parallele: l’idea di offrire del denaro a chi ci ha fatto un favore o fornito un’utilità anche se dovuta, affinché possa prendersi un drink magari alla nostra salute.

Tre lingue hanno visibilmente accolto questo pensiero: i Tedeschi con il loro trinkgeld (denaro per bere), parallelo al francese pourboire, mentre i Russi specificano ed usano na čaj (per il tè). Soltanto la veste linguistica è dunque diversa, ma dal punto di vista che stiamo caldeggiando proprio questo è sostanziale e significativo. Uno spagnolo elargisce  una propina, un portoghese uma gorjeta, un inglese a tip, ed un olandese od un fiammingo een fooi.

L'influsso linguistico che l'Impero Ottomano esercitò sui popoli soggetti, anche se spesso soltanto a livello di linguaggio non letterario (la parola turca oda, camera, ad esempio, è diffusa in tutto il mondo arabo unicamente nei singoli 'volgari': egiziano, siriano ecc. ma per iscritto si usano voci genuinamente arabe come ghurfat), spiega l'accoglimento della parola naturalizzata turca ma persiana di origine bahsis nel romeno bacsis e nell'arabo bakshīs. Quest'ultimo idioma ha per mancia proprio voci originali come hibat.

E' noto che le forme istituzionali dello stato, regno o repubblica ed i loro aspetti evolutivi più complessi, impero e stato federale, non sono state ideate contemporaneamente.

Nella notte dei tempi ci fu un momento in cui gli uomini primitivi sentirono la necessità o intravidero gli innegabili vantaggi di scegliersi stabilmente un capo che li guidasse con perizia nelle guerre con i popoli ostili, li capitanasse nelle grandi cacce stagionali e, last but not least, amministrasse una rudimentale giustizia provvista di sanzioni sì da elevare i loro reciproci rapporti dal piano della mera forza bruta e così, incidentalmente, dettero vita alle consuetudini ed alle prime leggi. L'istinto gregario, che esige un capogruppo, come noto ai sociologi è presente anche in moltissime specie animali come lupi e cervi e si può quindi benissimo ipotizzare che ciò contribuisse ad indurre gli uomini dell'età della pietra a ricercare tale soluzione.

Il capotribù così eletto era certamente innanzi tutto un valoroso guerriero, ma anche il più saggio di tutti, dovendo parlare a nome di un popolo rappresentandolo unitariamente nelle prime relazioni pacifiche con lo straniero: era un  vero re ante litteram.

Le prime monarchie verosimilmente furono elettive, com'è del resto ancor oggi per la Chiesa Cattolica nello Stato Città del Vaticano, e come avveniva nei secoli XVI-XVIII nel Regno di Polonia, senza dimenticare che anche i re a Roma erano proclamati nei Comizi Curiati.

Almeno all'origine ciò che contraddistingueva l'istituto non era affatto il principio ereditario, ma la scelta irrevocabile, anche se già nelle grandi civiltà come l'egiziana o la babilonese la continuità dinastica divenne regola con poche eccezioni...non contando le interruzioni dovute ad 'incidenti di mestiere' come rivolte popolari o congiure di palazzo.

Anche le genti elleniche ebbero i loro re, dai mitici Ulisse ed Agamennone ai regnanti (elettivi) di Sparta. E furono proprio dei Greci a donare all'umanità il contributo culturale più valido: la speculazione filosofica, che influì enormemente sullo sviluppo della civiltà in ogni campo, ma principalmente sulle stesse istituzioni politiche.

Nacque quella che oggi definiamo 'coscienza civica', la consapevolezza della dignità dell'uomo divenuto 'misura delle cose', anche se non vollero o non poterono andare fino in fondo dato che non abolirono la schiavitù e riservarono i diritti politici ad una élite anche se molto estesa.

Non è pensabile che esista una migliore definizione del cittadino greco di quella di Aristotele che definì l'uomo uno zôion politikón , cioè un essere essenzialmente portato alla vita politica, alla creazione di organizzazioni pubbliche, di città-stato come la polis Atene; a lui fanno capo dei diritti e dei doveri di partecipazione alla gestione della 'cosa pubblica', cioè della Respublica, come i Romani chiamarono latinamente il loro stato dopo la caduta dell'ultimo re, l'etrusco Tarquinio il Superbo.

Il termine si trasmise quasi inalterato nelle varie lingue europee: nei due idiomi iberici è república, in francese république, nell'inglese republic, nel tedesco republik, nel neerlandese republiek, nel romeno republicā e nel russo respublika.

In arabo troviamo ġumhūriyyat, da una radice araba che ci dà anche ġumhūr: popolo, moltitudine e vale quindi per governo del popolo o, per dirla con voce greca, democrazia. Il cerchio si chiude perfettamente se pensiamo che anche i Turchi usano il termine arabo modificandolo appena: cumhuriyet.

Com’era prevedibile non troviamo tanta unanimità per un istituzione storicamente più antica come la monarchia, anche se l’influsso di famiglia linguistica ha portato ad un parziale ravvicinamento.

Per i Greci il re (e più tardi l’imperatore bizantino) era detto basiléus ma è dal latino rex che derivano tutte le voci neolatine: romano rege e così si diceva una volta in italiano), spagnolo rey, portoghese rei e francese roi. Da un’antica radice germanica kunja, che significava ‘di nobile stirpe’, provengono le voci nordiche: tedesco kőnig, neerlandese koning, inglese king e svedese konung.

Il russo korol’ deriva curiosamente, come viene indicato dagli etimologisti sovietici, nientemeno che da Carlomagno, più precisamente dal Carolus Magnus  del cronista franco Eginardo; ed è verosimile che anche il turco kiral ne derivi per il tramite di una lingua slava.

Il titolo ufficiale della suprema autorità ottomana era invece quello di sultano, in turco sultan,  termine che in arabo significa proprio re. Per i monarchi arabi viene però usato un altro vocabolo, malik, come possiamo agevolmente osservare dalla denominazione ufficiale dell’Arabia Saudita: Mamlakat (Regno) al’-Arabiyyat as-Saūdiyyat, mentre il primo termine, a parte il sultanato do Oman, lo troviamo confinato in Malesia, quale conseguenza dell’espansione islamica e, un tempo non lontano, a Zanzibar, stato oggi incorporato nella Tanzania.

La voce latina imperator, che semplicemente vuol dire ‘colui che ha il potere di comandare’, tecnicamente venne a significare un ‘re su altri re’, com’era Napoleone o i vari imperatori del Sacro Romano Impero della nazione germanica.

Questa voce è nata dopo il dissolvimento delle istituzioni repubblicane a Roma, più recente ancora quindi; è perciò spiegabile come sia passata praticamente intatta nell'italiano, diventi īmpărat per i Romeni, suoni emperador in spagnolo, imperador in portoghese, empereur in francese, emperor in inglese, imparator in turco e imbarātūr in arabo.

In quest'ultima lingua si usa anche qaysar cioè Caesar (pronunciata caesar) , che già per i Romani era sinonimo di imperatore, da cui derivano il tedesco kaiser e il neerlandese keizer. 

Il russo tsar' ha la stessa origine, ma aveva primitivamente il significato di re ed in questa eccezione veniva infatti usato dai Bulgari per i loro sovrani o zar. Quando Pietro il Grande di Russia nel 1721 sostituì il titolo di zar con imperator , titolo poi riconosciuto dalle potenze straniere a Caterina II, l'altro termine tornò a significare ufficialmente re; Alessandro I era imperatore di Russia e zar di Polonia. Ma i bravi sudditi non se ne dettero per inteso e continuarono a parlare di zar e zarine come prima.

Scegliamo alcuni esempi dalla botanica. I funghi sono esistiti da sempre nell'area mediterranea ed in greco il fungo era detto mýkēs da cui la voce dotta micologia o studio sulle innumerevoli varietà di 'frutti' del micelio.

Il latino fungus è all'origine della voce italiana e dello spagnolo hongo, ma nei paesi di lingua spagnola si dice più comunemente seta (la nostra seta si dice seda), una voce usata anche nel portoghese che però preferisce parlare di cogumelo. Il francese ha champignon, l'inglese mushroomI, il tedesco pilz, il neerlandese paddelstoe, il turco mantar, il romeno ciupercă, il russo grib; per l'arabo citiamo soltanto fitr e kam.

La quercia (dal latino quercus) era già diffusa durante la preistoria in tutto l’emisfero boreale: I Celti la veneravano ed i loro sacerdoti, i druidi, quando volevano entrare in contatto col divino per un vaticinio mangiavano ghiande; ma era albero sacro anche al dio Thor dei Germani, a Perkùs divinità slava e al greco Zeus.

L’influsso della famiglia linguistica germanica ha unificato i termini relativi: tedesco eiche, neerlandese eik, inglese oak, svedese eek. Ma altrove la fantasia di ognuno si è sbizzarrita: spagnolo uncina, portoghese carvalho, russo dub, francese chêne, romeno stejar, turco mese e arabo ballut.

Consideriamo ora un concetto generico come quello relativo a legno e notiamo che anch’esso ci presenta un aspetto multiforme in conseguenza della sua antichità. Lo spagnolo madera ed il portoghese madeira provengono dal latino materia  (legname da costruzione), la voce italiana e il romeno lemn da un’altra parola latina lignum; il francese ha bois, il neerlandese bossehout, il tedesco holz, il russo derivo, il turco tahta e l’arabo khashab.  

Opposto è il caso del gigantesco, secolare baobab , la cui conoscenza (non è ipotizzabile una sua concreta diffusione nell’area mediterranea) risale alle prime esplorazioni africane. L a voce proviene da una parlata indigena dell’Africa Centrale laddove predomina la savana ed è rimasta pressoché invariata in tutte le lingue. Soltanto in qualche caso ha subito piccole modifiche come per l’arabo bawabāb e per il portoghese  baobà e  baobabe; ma in questo idioma si usa anche un misterioso embondeiro in alternativa, sicuramente voce di altra parlata indigena, spiegabile con l’ampia penetrazione lusitana ne Continente Nero.

Analogomante si possono citare altre piante tropicali come il tec, ( tek, teak ), dalla voce tàmil della costa del Malabar in India: tékku,  arrivata in Europa per il tramite dei navigatori portoghesi come tecca, da cui l’inglese teak, il francese teck.

E’ bene precisare che una uniformità assoluta è, a nostro avviso, fenomeno rarissimo e comunque non implica una grafia unitaria, data l’influenza di regole tendenti ad evitare cacofonie inammissibili ora in questa ora in quell’altra lingua, senza contare l’esistenza di caratteri assai diversi da quelli latini, com’è per il russo ed ancor più per l’arabo.

A questo punto potremmo dunque concludere che normalmente l’antichità remota, congiunta alla massima diffusione originaria di un animale, pianta prodotto o istituzione, nella nostra area euro-mediterranea, ha avuto come risultato un’accentuata difformità linguistica tra le voci che nelle varie lingue li concernono.

Al contrario, la loro origine recente, l’estraneità al nostro ambiente hanno portato ad una certa uniformità fonetica.

A guisa di corollario potremmo aggiungere che i nuovi prodotti che la tecnologia moderna ci fornisce a ritmo serrato, dal telefono alla radio, alla televisione, al computer o alle fibre sintetiche, tendono a conservare più o meno inalterata la denominazione scelta nel paese inventore [tranne per il francese]. Non sempre si usano fonemi della lingua nazionale, perché è invalso l’uso, come per i prodotti farmaceutici, di richiamare a nuova vita le lingue classiche ed il greco in particolare

In ogni caso pare evidente la tendenza all’uniformità linguistica, poiché alcune lingue, come l’italiana, stanno addirittura rinunciando ad adoperare quelle modifiche che lo spirito della lingua aveva visto da sempre rispettate.

E’ noto che l’idioma del sì rifugge dalle finali in consonante: da una voce turca come bayram che significa ‘festa’ ricavò un bailamme a noi più congeniale in tutti i sensi, mentre oggi vengono supinamente accolte parole come go-kart, designer, boom, trust, background  come se tutti dovessero conoscere  i misteri della caotica pronuncia inglese . In un non lontano passato il   nylon  fu trasformato in nailon.

Ma non tutti gli idiomi contemporanei sono così arrendevoli: tedesco e arabo, quando non provvedono a sostituire in toto la parola estera, ne inventano spesso  un doppione ricavato da radici linguistiche proprie. Oltre a telefon (telephon) si usa in tedesco fernsprecher ; per l’arabo riportiamo i due termini usati per autostrada: ūtūstradat  e tarīq as-sayārāt, cioè, letteralmente, ‘strada della automobili’. 

Persino i dialetti stessi sono malati di uniformità acuta, sia per la pressione incessante della lingua nazionale, sia per un appiattimento generale nell’ambito di un gruppo di dialetti affini e ciò a scapito dei termini più genuini, più antichi e quindi più rari, che sono anche quelli che più si discostano dalla lingua standardizzata dominante.

E’ noto agli specialisti di dialetti liguri che l’albicocca, chiamata comunemente bricòccola, veniva invece indicata con  miscimìn alessandrìn de Sardegna o de Malta , quando si voleva alludere ad una particolare varietà tardiva.

La voce miscimìn, dall’arabo mishmish, era però anche usata in senso generale ed aveva quasi sostituito l’altra voce nell’estremo Ponente Ligure, mèscimen: attualmente usano il vocabolo o almeno lo capiscono soltanto le persone anziane di quelle zone [valli Argentina e Armea]  e quasi  esclusivamente lassù tra i picchi dell’entroterra, per tutti gli altri è … arabo davvero.

Queste divagazioni glottologiche ci hanno dunque portato lontano, ma a questo punto è bene fermarsi, nell’attesa che altri vogliano portare avanti questa ricerca per tanti aspetti affascinante, scavando con più perizia e preparazione nel vastissimo campo della filologia comparata.

 

Lorenzo Lanteri in LIGVRIA, anno XLIV- n. 10-11-12, 1977