RICERCA N.2
La Rivoluzione Francese
La rivoluzione francese in punti
I) Durante il lungo regno di Luigi XV (1723-74) la situazione economica della Francia era andata progressivamente peggiorando: la guerra e i crescenti bisogni della vita di corte (Versailles) richiedevano l’imposizione di continue tasse. Per accrescere il gettito delle imposte e contenere il deficit di bilancio, il governo era ricorso a manovre finanziarie assai pericolose: concessione di alti tassi d’interesse sui prestiti dei cittadini, indiscriminata vendita di uffici pubblici, alterazioni del valore della moneta, riduzione arbitraria dei debiti dello Stato (bancarotta). Tutto questo perché le classi privilegiate (nobiltà e clero) erano riuscite, per interi decenni, a bloccare ogni provvedimento fiscale che estendesse anche a loro il peso tributario.
II) Le tasse erano prevalentemente pagate dai contadini e dalla borghesia. Nelle campagne il diritto di proprietà spettava ancora quasi interamente alla Corona, alla nobiltà e al clero. I contadini non erano più servi della gleba, come nel Medioevo, perché disponevano della libertà personale, però, non essendo proprietari di nulla, erano costretti a versare al clero le decime (cioè una parte dei prodotti dei campi), pagavano imposte e gabelle regie, erano obbligati dallo Stato a prestazioni di lavoro gratuite (corvées) per la costruzione di strade e caserme, ecc. Gli stessi nobili li obbligavano a pagare tasse sul commercio al minuto, pedaggi per l’uso di strade e ponti, tributi in natura, in denaro, in corvées.
III) La borghesia si era arricchita notevolmente, ma non aveva alcun potere politico. Solo una piccola parte s’era procurata titoli nobiliari ereditari mediante l’acquisto degli uffici pubblici. Le piccole aziende manifatturiere si erano trasformate in opifici di vaste dimensioni. La ricchezza dovuta ai commerci, all’industria, alle società per azioni e agli istituti bancari aveva indotto la borghesia a chiedere la fine del regime del privilegio di clero e nobiltà, la libera disponibilità della terra, la piena libertà dei commerci (senza vincoli doganali e corporativi).
IV) L’incapacità della monarchia (Luigi XVI) a dirigere dall’alto le istanze di rinnovamento dei ceti borghesi (dispotismo illuminato) rese inevitabile la convocazione degli Stati Generali, non convocati dal 1614 (non avevano potere legislativo ma solo consultivo). Il ministro delle finanze Necker si batté perché la borghesia (Terzo stato) mandasse all’Assemblea più delegati di quanti non potessero disporre nobiltà e clero messi insieme, di contro alla consuetudine che prevedeva invece, per ogni circoscrizione elettorale, la designazione di un candidato per ciascun ordine sociale. Nell’Assemblea la borghesia propose che il voto non fosse dato per ordine ma per testa (per avere la maggioranza) e che i lavori non si svolgessero in camere separate secondo gli ordini, ma in un’unica assemblea (per affermare la parità sociale dei delegati). Di fronte al rifiuto di nobiltà e clero, la borghesia si costituì in Assemblea Nazionale, proclamandosi rappresentante della volontà nazionale (giugno 1789).
V) La maggioranza dei delegati del clero, che provenivano da parrocchie rurali, decise di unirsi alla borghesia. Il re fece chiudere la Camera delle riunioni, ma il Terzo stato si trasferì in una sala adibita dalla Corte al gioco della pallacorda, giurando di riunirsi finché la Costituzione non fosse stabilita (Giuramento della Pallacorda). Il re ingiunse agli eletti di sciogliersi e di tornare a riunirsi l’indomani separatamente nelle sale assegnate a ciascun ordine. La borghesia non obbedì. Evitando di usare la forza, il re invitò clero e nobiltà a unirsi alla borghesia: l’assemblea così si proclamò Assemblea Nazionale Costituente.
VI) Sospinto dagli aristocratici, Luigi XVI licenziò il Necker e ammassò truppe mercenarie svizzere e tedesche nei pressi di Parigi. Il popolo di Parigi rispose occupando la Bastiglia, cioè la prigione per i condannati politici, simbolo dell’autorità assoluta del monarca. Il popolo creò nuovi organi di governo (a Parigi) e di difesa (la Guardia Nazionale, capeggiata da La Fayette, che già aveva combattuto a fianco degli insorti americani). Compaiono diversi club politici (giacobini, cordiglieri, girondini...) e il tricolore. I nobili più intransigenti emigrano all’estero. L’esempio di Parigi viene seguito da altre città, che considerano la Costituente come l’unica vera fonte d’autorità. Nelle campagne si diffonde la "Grande Paura" dei nobili, che vedono le loro proprietà saccheggiate o espropriate dai contadini. Nell’agosto ‘89 l’Assemblea dichiara abolito il sistema feudale (corvées, decime...), anche se vincola questa abolizione all’indennità che i contadini devono pagare ai nobili per le proprietà requisite.
VII) L’atto di morte dell’ ancien régime viene ratificato con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Principi fondamentali: sovranità popolare, diritti di libertà (opinione, stampa, religione, riunione), uguaglianza giuridica, tutela della sicurezza personale e della proprietà individuale. La Costituente si preoccupò non solo di convogliare le forze popolari contro i ceti privilegiati, ma anche d’impedire che queste forze potessero dirigere il corso della rivoluzione. Venne perciò introdotto il principio della separazione dei poteri dello Stato: quello esecutivo spettava al re, che aveva il diritto di veto, col quale poteva bloccare per 4 anni le decisioni dei rappresentanti eletti; la borghesia inoltre si riservava l’assoluta preminenza nella funzione legislativa. Fu approvato il sistema monocamerale (cioè senza una Camera Alta da riservare alla nobiltà) e viene sancito il criterio censitario come condizione per l’esercizio dei diritti politici (solo i cittadini, cioè i maschi con almeno 25 anni di età, che pagassero un’imposta diretta pari a 3 giornate lavorative, potevano votare ed essere eletti). Il re rifiutò l’abolizione dei diritti feudali, la suddetta Dichiarazione e la Monarchia costituzionale, ma una folla affamata si recò a Versailles per costringerlo ad approvvigionare la capitale, a ratificare le decisioni della Costituente e a trasferire la corte a Parigi. Questa parte di popolazione venne sempre più definendosi come Quarto Stato o Sanculotti, e i due circoli politici che esprimevano di più le sue esigenze erano i giacobini e i cordiglieri.
VIII) Intanto, la Costituente, per fronteggiare la grave situazione finanziaria, prese la decisione d’incamerare i beni degli ordini religiosi a favore del demanio statale. L’esecuzione della vendita dei latifondi ecclesiastici fu affidata ai Comuni, ma, siccome l’operazione era lunga e complessa, e l’erario aveva bisogno di soldi, l’Assemblea autorizzò il Tesoro ad emettere dei titoli di stato (assegnati) col valore di cartamoneta, garantiti dai beni espropriati. In tal modo chi comprava gli assegnati si sentiva strettamente legato agli esiti della rivoluzione. L’Assemblea inoltre abolì il clero regolare, trasformò quello secolare in funzionari stipendiati dallo Stato mediante la Costituzione civile del clero, la quale prevedeva il principio elettivo per tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica, senza diritto di conferma canonica da parte del papa. Il clero si divise in due parti: costituzionali e refrattari (questi ultimi favorevoli al papa, che condannò sia la Dichiarazione che la Costituzione del clero).
IX) Luigi XVI, dopo essere stato costretto a ratificare la Costituzione del clero, decide di fuggire dalla Francia, ma alla frontiera belga viene riconosciuto e arrestato. Il sistema della monarchia costituzionale entra in crisi: il re passa per un traditore della nazione, fomentatore di guerra civile e alleato delle potenze straniere antifrancesi. Cordiglieri e giacobini ne approfittano per rivendicare maggiori poteri in seno all’Assemblea, la quale però al Campo di Marte (Parigi) fa sparare sulla folla, sospende la libertà di stampa e di riunione. L’Assemblea (ove dominano i girondini) cerca di superare la paralisi del movimento democratico in 3 modi: 1) fa credere all’opinione pubblica che la fuga del re era un rapimento tramato da controrivoluzionari; 2) si scioglie, trasformandosi in Assemblea Legislativa, eletta a suffragio censitario (impedisce a tutti quanti avevano fatto parte della Costituente di poter partecipare anche alla Legislativa); 3) dichiara una guerra preventiva all’imperatore d’Austria e Prussia.
X) Alla guerra contro Austria-Prussia si giunse per una serie di ragioni: 1) fame e disoccupazione dilagavano nel Paese; 2) gli ambienti di corte erano convinti che la Francia rivoluzionaria ne sarebbe uscita sconfitta; 3) gli ambienti rivoluzionari volevano esportare all’estero i loro principi politici. Solo Robespierre e pochi giacobini erano contrari, temendo che la guerra segnasse la fine della rivoluzione. All’inizio, in effetti, il conflitto fu disastroso per la Francia: esercito male organizzato, ufficiali aristocratici non disposti a combattere con impegno, tradimenti continui della corte che complottava col nemico... La prima grande sconfitta fu quella di Verdun, che ebbe come effetto le stragi di settembre nelle carceri parigine: almeno 1300 detenuti politici conservatori vennero uccisi dalla folla in tumulto.
XI) Intanto la Comune insurrezionale di Parigi obbliga la Legislativa ad arrestare il re. La stessa Legislativa convoca una nuova Assemblea, la Convenzione Nazionale, che avrebbe dovuto trasformare il Paese in una Repubblica. La monarchia era finita. La Fayette si era consegnato agli austriaci. Pochi giorni dopo il massacro di settembre vi fu la grande vittoria francese a Valmy e la conquista del Belgio. Nella Convenzione, i girondini, che rappresentavano la medio-alta borghesia progressista, conservano il governo del Paese (sostenevano la tesi federalista); a sinistra erano i giacobini (detti montagnardi), rappresentanti della piccola borghesia: essi riusciranno a far proclamare la Repubblica una e indivisibile, ed anche a far condannare a morte il re.
XII) Nel ‘93 la Convenzione votò la Costituzione dell’Anno I della Repubblica: per la prima volta in Europa s’introdusse il principio del suffragio universale, sopprimendo la discriminazione censitaria dei cittadini in attivi e passivi, e attribuì il diritto di voto (segreto e diretto) a tutti i francesi maschi maggiorenni; prevede anche l’intervento assistenziale dello Stato a favore dei ceti indigenti. Questi principi non furono però applicati perché gli eventi internazionali favorirono l’avvento di una dittatura politica. Infatti, avendo occupato Belgio, Olanda, Savoia e altri territori, la Francia si vide coalizzare contro moltissimi paesi europei: Austria, Prussia, Inghilterra, Olanda, Spagna, Portogallo, Russia, Piemonte, Stato Pontificio, ecc. La Francia deve ritirarsi un po’ ovunque. All’interno scoppia la guerra civile in Vandea: alla miseria si era aggiunta la coscrizione obbligatoria che colpiva soprattutto i contadini più poveri.
XIII) Nella Convenzione i montagnardi imposero ai girondini leggi di emergenza: 1) attribuire alla Convenzione tutti i poteri; 2) dittatura rivoluzionaria; 3) organo collegiale di controllo sul governo (Comitato di salute pubblica); 4) Tribunale rivoluzionario; 5) politica economica rigidamente centralizzata (blocco dei salari e dei prezzi). I giacobini, con un colpo di stato, si impadroniscono del potere e condannano a morte 21 deputati girondini. Cala il prestigio di Danton e sale quello di Robespierre e Saint-Just. I girondini rispondono scatenando varie insurrezioni nei dipartimenti e nelle grandi città; uccidono Marat. I giacobini rispondono con la politica del Terrore: 1) contro gli accaparratori di derrate; per il controllo della distribuzione dei generi alimentari di largo consumo; legge del Maximum, cioè un calmiere dei prezzi; imposto il corso forzoso degli assegnati, la cui continua emissione li aveva fortemente svalutati; 2) soppressa stampa dissidente, chiusi i club antigiacobini, promulgata la legge dei sospetti, giustiziati la regina, repressa rivolta vandeana e tutte le rivolte girondine.
XIV) Il governo giacobino eliminò il gruppo di Danton, accusato di eccessivo moderatismo, e il gruppo di Hébert, accusato di eccessivo estremismo; impose come religione di stato il culto dell’Essere Supremo; non riuscì a impedire il mercato nero né a garantire sufficienti salari al proletariato delle città. Le vittorie militari francesi fecero capire alla borghesia che non c’era più bisogno di una dittatura rivoluzionaria. La borghesia approfittò del fatto che i giacobini, eliminando i seguaci di Danton ed Hébert, si erano inimicati le masse popolari, per compiere un colpo di stato e rovesciare Robespierre e Saint-Just, accusati di voler imporre una tirannia personale (reazione termidoriana). La Convenzione Termidoriana abolì subito il calmiere dei prezzi e scatenò il terrore bianco contro i giacobini. Per evitare che i realisti riprendessero il potere, la Convenzione affida il governo a un Direttorio, dal quale emergerà la dittatura militare di Napoleone Bonaparte. L’ultima battaglia della sinistra rivoluzionaria fu quella di Babeuf e Buonarroti, che però ebbe esito fallimentare.
L’EGEMONIA DELLA FRANCIA SULL’EUROPA: NAPOLEONE
I) Subito dopo la reazione termidoriana della grande borghesia, che pose fine alla Rivoluzione francese, la Convenzione Nazionale stipulò trattati di pace col Granducato di Toscana, Prussia, Olanda e Spagna. La guerra contro la Francia era continuata dall’Impero d’Austria, che non voleva rinunciare ai Paesi Bassi austriaci occupati dalla Francia (in questo l’Austria era appoggiata dal Regno di Sardegna), mentre l’Inghilterra continuava a mantenere attiva la guerra sui mari. Fu così che il Direttorio (organo collegiale repressivo cui la Convenzione, sciogliendosi, affidò il governo del Paese) decise di impegnare contro l’Austria tutto il potenziale bellico a disposizione.
II) Intanto nel continente europeo, sotto l’incalzare degli eventi francesi, le monarchie assolute e illuminate (con l’appoggio di nobiltà e clero) abbandonano la politica delle riforme, temendo ch’essa possa rivolgersi contro i loro interessi. Saranno gli eserciti francesi al seguito di Napoleone (che comandava un’armata in Italia nella guerra anti-austriaca) a fornire alle minoranze attive e coscienti della borghesia il sostegno della forza militare contro gli ordini privilegiati. Anche se l’occupazione militare dei francesi, il vassallaggio in cui saranno tenute le nuove Repubbliche create da Napoleone, la subordinazione delle attività economiche agli interessi francesi, determineranno nella borghesia liberale l’esigenza di affermare il concetto di nazione (cioè di repubblica indipendente anche dalla Francia).
III) Il fronte italiano, che nei piani strategici del Direttorio aveva solo rilievo secondario, diventò ben presto il teatro in cui si decise l’esito del conflitto tra Francia ed Austria. La nuova arte militare era basata sulla rapidità dell’azione offensiva accuratamente preparata e decisamente condotta. Il primo regno ad essere sconfitto fu quello sabaudo di Vittorio Amedeo III. Proseguendo l’offensiva, Napoleone. occupò Lodi, Milano, Mantova, i ducati di Parma e Modena, la Toscana, lo Stato della Chiesa, mentre il regno di Napoli si ritirò dalla coalizione antifrancese. I territori occupati furono costretti a pagare gravosi tributi, a cedere molte opere d’arte... I governi repubblicani nel nord-Italia dopo aver dato vita a una Confederazione, crearono la Repubblica Cispadana; le province lombarde crearono la Repubblica Transpadana. Napoleone. fuse le due Repubbliche creando la Repubblica Cisalpina, con capitale Milano, a capo della quale mise degli elementi moderati filofrancesi, vietando che si ponesse all’ordine del giorno la prospettiva dell’unificazione nazionale. Napoleone. vedeva il problema italiano come uno strumento per la sua politica di prestigio personale, e per continuare a imporre esazioni in denaro e confische di opere d’arte. Intanto a Genova un’insurrezione giacobina portò alla formazione d’un governo filofrancese. A Roma, col pretesto dell’uccisione casuale d’un generale francese da parte della gendarmeria pontificia, i giacobini instaurano la Repubblica Romana e pongono fine al potere temporale del papa.
IV) Napoleone. assedia Verona e, spingendosi fino a pochi km da Vienna, obbliga gli austriaci a chiedere un armistizio. Con la pace di Leoben l’Austria rinuncia al Belgio e alla Lombardia, ottenendo in cambio Istria, Dalmazia e parte della terraferma veneta. Verona, sospinta da clero e nobiltà, insorge contro i francesi. Napoleone. interviene pesantemente e nonostante che il governo oligarchico veneziano fosse abbattuto dopo pochi giorni dal partito giacobino, nel definitivo Trattato di Campoformio (1797), Napoleone. cede Venezia all’Austria, ottenendo in cambio le isole Ionie, i possessi veneziani in Albania e altri territori. Altre Repubbliche filofrancesi si formano in Olanda e Svizzera.
V) Intanto il Direttorio aveva aderito al progetto di Napoleone. che riteneva di poter fiaccare la resistenza dell’Inghilterra -rimasta sola tra le grandi potenze a continuare la lotta- isolandola dall’India e dagli altri suoi domini dell’Estremo Oriente. Di qui la spedizione militare contro il Sultanato d’Egitto, formalmente dipendente dall’Impero turco, ma di fatto comandato dalla forte casta feudale dei Mamelucchi. Napoleone. vince alla battaglia delle Piramidi, ma l’Inghilterra, con l’ammiraglio Nelson, gli distrugge la flotta nella rada di Abukir, sicché fu reso impossibile il rifornimento e lo stesso rimpatrio del corpo di spedizione francese. Gli unici aspetti positivi dell’impresa egiziana furono la legislazione che Napoleone diede al Paese, sulla quale nascerà poi l’Egitto moderno, e lo studio di una commissione scientifica che portò alla decifrazione dei geroglifici egiziani.
VI) In Europa invece la spedizione spinse Russia e Turchia a unirsi con l’Inghilterra, seguite da Austria e Napoletano. Quest’ultimo aprì le ostilità della II coalizione antifrancese, attaccando la Repubblica Romana, ma la reazione francese fu così violenta che fu occupato anche il Regno Borbonico, mentre il re Ferdinando IV si rifugiava in Sicilia. Si forma la Repubblica Partenopea. Grande successo invece ebbe l’offensiva austro-russa iniziata nel ‘99. Tutte le conquiste militari francesi e i governi repubblicani sorti in Italia caddero l’uno dopo l’altro. Napoleone. reagisce compiendo a Parigi un colpo di stato per abolire il Direttorio e ottenere poteri assoluti. Con la vittoria di Marengo (1800), Napoleone. intraprende la seconda campagna d’Italia e recupera quasi tutti i territori perduti. Si forma una Repubblica Italiana con Napoleone. presidente. L’Inghilterra, rimasta sola e resasi conto che la politica di Napoleone. era sempre meglio di quella giacobina, è disposta con la Pace di Amiens (1802) a rendere quasi tutte le colonie tolte in quegli anni alla Francia. Napoleone. ne approfitta per farsi proclamare Primo Console a vita (1802). Stipula anche un Concordato con la Chiesa cattolica, i cui punti salienti sono:
1) il papa riconosce la Repubblica come governo legittimo di Francia,
2) Napoleone. riconosce il cattolicesimo come religione maggioritaria della nazione (i Consoli sono tenuti a professarne il Credo),
3) il papa ottiene le dimissioni di tutti i vescovi e la possibilità d’istituire canonicamente i loro successori,
4) Napoleone. ottiene la fedeltà al governo di tutti i nuovi vescovi e che i vescovi nominino solo i parroci graditi al governo,
5) i beni espropriati alla Chiesa durante la Rivoluzione francese non vengono restituiti (in cambio il governo assicura uno stipendio al clero).
VII) La politica interna di Napoleone. fu tutta favorevole alla grande borghesia: fece preparare un nuovo catasto per meglio distribuire le imposte, eliminò le imposte dirette e ripristinò numerose imposte indirette, favorisce i monopoli della produzione, ristabilisce la schiavitù nelle colonie americane, impedisce le lotte operaie per i miglioramenti salariali, ripristina la consuetudine del garzonato, fa approvare il Codice Civile...
VIII) Le ostilità con l’Inghilterra ripresero dopo che questa reagì, organizzando una nuova coalizione, a:
1) l’occupazione francese dell’isola d’Elba e del Piemonte,
2) l’Atto di mediazione che rendeva la Svizzera uno Stato vassallo della Francia,
3) l’intenzione di Napoleone. di occupare Egitto e India.
Nel 1804 Napoleone. si fa incoronare a Parigi Imperatore dei francesi, ripristinando il principio monarchico e creando una nuova aristocrazia imperiale. A questo punto l’Inghilterra organizza una III e IV coalizione antifrancese, con l’appoggio di Russia, Svezia, Austria e Napoletano. Ma entrambe le coalizioni vengono sbaragliate da Napoleone. in grandi battaglie: Ulma, Austerlitz, Jena... I risultati furono che la Russia si alleò con la Francia, l’Austria (con Vienna occupata) dovette cedere tutto il Veneto al Regno d’Italia (e Dalmazia-Istria alla Francia). Due fratelli di Napoleone. ebbero il Napoletano e l’Olanda. Finisce il Sacro Romano Impero (1806), sostituito da una Confederazione del Reno, creata da Napoleone.
IX) La volontà di piegare l’Inghilterra alla pace suggerì a Napoleone. l’idea del Blocco continentale (1807): egli chiuse l’intero continente europeo agli scambi commerciali con l’Impero britannico. Ma questo Blocco fu un fallimento, perché:
1) si sviluppò il contrabbando,
2) l’Inghilterra s’impadronì dei territori dei paesi alleati della Francia (ad es. Olanda),
3) i popoli che avevano visto in Napoleone. un "liberatore" ora gli sono ostili.
Napoleone., per far rispettare il Blocco, è costretto a:
1) decretare la fine del Regno d’Etruria,
2) occupare militarmente Roma e imprigionare Pio VII,
3) occupare il Portogallo,
4) detronizzare dal regno di Olanda il fratello Luigi.
Mentre attraversa la Spagna per raggiungere la frontiera portoghese, Napoleone. trae l’occasione di un colpo di stato imponendo alla Spagna il fratello Giuseppe, sostituendolo nel Napoletano col cognato Gioacchino Murat. La popolazione spagnola però si ribella rivendicando la propria tradizione monarchica e cattolica. L’Inghilterra, aiutando militarmente il Portogallo, finisce con l’appoggiare anche la Spagna, che però conseguirà decisivi successi solo verso il 1812. Nel frattempo Austria e Prussia cercano di realizzare la V^ coalizione, ma con la vittoria francese di Wagram essa fallisce. L’imperatore d’Austria è costretto ad acconsentire che la propria figlia vada sposa a Napoleone. (senza figli maschi), il quale così s’imparenta con la più prestigiosa dinastia d’Europa.
X) Nel 1812 Napoleone. intraprende la campagna di Russia. Il pretesto sta nella violazione del Blocco. Il motivo reale sta nella volontà di occupare tutta l’Europa orientale, nella convinzione di poter realizzare una "guerra lampo". Napoleone. sottovaluta il fatto che la popolazione locale, pur oppressa dal regime feudale, vede in lui l’Anticristo venuto a profanare la "Santa Russia" (motivi nazionalistici e religiosi). I russi hanno la meglio perché non attaccano per primi, non si fanno agganciare, ma indietreggiano di continuo facendo terra bruciata alle spalle dei francesi. Con l’occupazione di Mosca, Napoleone. spera che lo zar chieda l’armistizio. Invece lo zar, attendendo l’inverno, costringe l’armata francese, priva di viveri, a ritirarsi. Fame, freddo, stenti e il ritorno offensivo dei russi uccidono più di mezzo milione di francesi.
XI) La VI coalizione si forma subito: Austria, Russia, Prussia e Inghilterra sconfiggono Napoleone. a Lipsia. Nel Napoletano, Murat, pur di conservare il trono, si allea con l’Austria. Napoleone non è appoggiato neppure dalla borghesia francese, che chiede la restaurazione della dinastia borbonica. Napoleone deve abdicare nel 1814, ritirandosi in esilio nell’isola d’Elba. Alla Francia di Luigi XVIII (fratello di Luigi XVI) con la pace di Parigi vengono riconosciuti i confini del 1792. In Italia rientrano gli Austriaci nel Lombardo-Veneto e i Borboni spagnoli nel Napoletano.
XII) Il ritorno dei Borboni in Francia aveva scontentato molte classi sociali; era aumentata la disoccupazione; gli aristocratici miravano a vendicarsi; ufficiali e soldati napoleonici erano stati smobilitati senza essere reimpiegati... Napoleone. rientra a Parigi cacciando Luigi XVIII. Le grandi potenze costituiscono la VII coalizione e sconfigono Napoleone. a Waterloo (1815), relegandolo a Sant’Elena, isola sperduta dell’Atlantico. Vi morirà nel 1821. Murat non riuscirà a sollevare i meridionali contro il governo borbonico: morirà fucilato.
CHIESA E RIVOLUZIONE FRANCESE.
LE PREMESSE
La chiesa cattolico-nazionale, cioè 'gallicana', della Francia si basava giuridicamente, prima dell'Ottantanove, sul Concordato del 1516 stipulato a Bologna dal re Francesco I e dal papa Leone X, col quale il primo aveva rivendicato il diritto di nominare i candidati alle più alte cariche ecclesiastiche, e il secondo l'investitura canonica degli stessi. In cambio di questa sottomissione del clero, il re si assumeva l'onere di versare alla curia romana le cosiddette 'annate', cioè un anno del reddito teorico di ogni beneficio (diocesi, abbazia, ecc.) che cambiava titolare. Grazie a "questo codice di brigantaggio -come lo chiama C. Fauchet, l'autore De la religion nationale (1789)-, il capo del sacerdozio e quello dello stato si concedevano ciò che, secondo l'opinione universale, non apparteneva né all'uno né all'altro: i diritti dei popoli [alla scelta dei pastori] e il denaro della chiesa".
Ma, nonostante il cattolicesimo fosse una religione di stato, verso la metà del XVI sec. si diffuse nel sud della Francia il calvinismo, e subito furono eccidi e massacri fra le due confessioni. L'Editto di Nantes (1598) riconobbe agli ugonotti la libertà di culto, ma il cattolicesimo, facendo leva sul prestigio della propria 'maggioranza', continuò a perseguitarli duramente, almeno sino al 1787, allorché un decreto regio concesse ai riformati: lo stato civile dei loro matrimoni (senza più l'intermediazione del prete cattolico) la possibilità di battezzare i figli (prima era d'obbligo il rito cattolico), di praticare il culto in privato e di accedere ad alcune cariche pubbliche di minor rilievo. Gli ultimi due protestanti ad essere torturati e impiccati, rispettivamente nel 1761 e 1766, furono il mercante J. Calas e il cavaliere La Barre. Il loro numero complessivo, alla vigilia della rivoluzione, si aggirava sul mezzo milione.
Drammatica era anche la situazione dei giansenisti, la cui dottrina filocalvinista era già stata condannata nel 1713 dalla bolla Unigenitus. Usciti malconci dallo scontro con i gesuiti (l'abbazia di Port-Royal venne distrutta nel 1710 da Luigi XIV), nel 1749 i giansenisti dovettero subire anche l'umiliazione dei billets de confession: una vera e propria sottomissione scritta alla suddetta bolla che l'arcivescovo di Parigi pretendeva da parte di tutti quei moribondi sospettati di giansenismo, senza la quale non avrebbero potuto ricevere l'assoluzione. Condannata dal parlamento parigino, la richiesta non mancò di suscitare seri tumulti presso il palazzo arcivescovile. Tuttavia il giansenismo poté prendersi la rivincita sulla Compagnia di Gesù (già disciolta però nel 1773), fondendosi, negli anni della rivoluzione, col 'richerismo', un movimento di soldati semplici e caporali del clero parrocchiale che rivendicava una gestione democratica e comunitaria della chiesa francese. E. Richer (1560-1631), sindaco della facoltà teologica di Parigi, fu appunto il primo a sostenere la pari dignità dei poteri di tutto il clero.
Molto discriminata era anche la minoranza ebraica, concentrata soprattutto in Alsazia. I 40.000 ebrei pagavano imposte speciali d'ogni tipo (ad es. il prezzo della loro protezione al re, al vescovo, al feudatario locale, oppure per entrare in città loro interdette). Erano esclusi senza eccezione dai pubblici uffici. Talvolta il loro numero era limitato per legge (ad es. non più di 450 famiglie a Metz). Non potevano contrarre matrimonio coi cattolici e i diritti di cittadinanza venivano loro concessi solo dove potevano avanzare una richiesta di naturalizzazione in base al luogo di nascita, il che però non era facile. Per quanto riguarda il culto fruivano di maggiori libertà rispetto ai protestanti, essendo ideologicamente meno temuti dai cattolici.
I tempi tuttavia erano così maturi per una più generale e radicale affermazione dei diritti umani e civili, che la necessità di riconoscere un culto pubblico assolutamente libero a tutte le confessioni minoritarie, era ormai diventato per il cattolicesimo e per la monarchia borbonica il problema minore.
Le prime avvisaglie di quella che di lì a poco sarebbe apparsa come la maggior sfida europea ai privilegi feudali, si ebbero con la pubblicazione dell' Encyclopédie(1751). Le forti accuse di Diderot, d'Alembert, Voltaire, Rousseau, Helvétius, Holbach indirizzate al fanatismo, all'intolleranza, al dogmatismo, alla superstizione, al temporalismo dei papi, al clericalismo, ai principi di 'autorità' e di 'tradizione' nelle scienze, ecc., indussero il cattolicesimo conservatore, a partire dal 1770, a sferrare un attacco frontale contro questi philosophes 'colpevoli' di ateismo, miscredenza, empietà. N.S. Bergier venne ufficialmente incaricato dall'Assemblea del clero di Francia di aprire le ostilità. Non pochi tuttavia erano gli scettici nell'imminenza di questa battaglia. Fra le stesse file dell'alto clero il lusso e la corruzione erano così vasti e profondi che la maggioranza dei vescovi si sentiva quasi completamente estranea agli ideali della chiesa cattolica. S'incontravano persino figure inclini all'ateismo e favorevoli alle idee del 'libero pensiero', come l'arcivescovo di Tolosa Loménie de Brienne, che riuscì a ottenere da Luigi XVI la concessione dello stato civile ai protestanti, il mons. De Vintimille, Grimaldi di Mans, il card. di Rohan e altri ancora, il cui ateismo tuttavia non implica di necessità -come vuole la storiografia cattolica- la 'corruzione'. Se dunque resistenza c'era ai nuovi orientamenti intellettuali e morali, i motivi vanno ricercati negli interessi di potere, che però fino all'Ottantanove non sembravano minacciati da forze sociali politicamente determinate: la maggioranza dei filosofi era filomonarchica, sebbene volta al riformismo giurisdizionalista.
Dal canto suo il basso clero, a causa delle forti discriminazioni di cui era oggetto, vedeva spesso di buon grado le critiche che il movimento filosofico progressista rivolgeva al sistema (basta leggersi il famoso pamphlet del vicario generale di Chartres, E.J. Sieyès, Qu'est-ce que le Tiers état?). Sull'atteggiamento di questi curati, la storiografia cattolica è sempre stata abbastanza severa: si è rimproverato loro un 'eccessivo' rancore contro il lusso dell'alto clero, un desiderio d'indipendenza 'troppo vivo' e addirittura uno spirito patriottico 'superiore' a quello ecclesiastico (cfr le tradizionali storie della chiesa di R. Spiazzi, A. Saba e quella illustrata nelle ed. Marietti).
La situazione generale del clero
"Primo dei tre ordini fra i quali si dividono 25.000.000 di francesi, il clero conta, all'incirca, 130.000 membri, di cui 70.000 regolari -che pronunciano voti monastici, obbediscono a una regola e vivono, per lo più, in conventi- e 60.000 secolari, che non pronunciano voti monastici e vivono nel mondo"(così A. Dansette, Chiesa e società nella Francia contemporanea, ed. Vallecchi).
Essendo il primo degli ordini dello stato, il clero, che era il più grande proprietario del regno, fruiva di particolari privilegi: politici, giudiziari e fiscali. Già si è detto del sistema beneficiario col quale il re assicurava le cariche religiose ai suoi cortigiani oppure ai figli cadetti dell'aristocrazia più facoltosa. I titolari, in sostanza, percepivano 1/3 delle rendite dei vescovadi o abbazie, risiedendo prevalentemente nei dintorni di Versailles, presso la corte regia, e delegando l'effettivo esercizio del ministero pastorale e amministrativo ad ecclesiastici stipendiati (nel 1764 a Parigi vivevano non meno di 40 vescovi!). Cosa di cui non ci deve meravigliare poiché, dipendendo la nomina dalla nascita o dalle relazioni, era impossibile che questi prelati avessero una buona formazione teologica o un vero interesse 'etico-religioso' per i benefici ottenuti. Generalmente anzi, la loro condotta e i loro principi erano improntati alla mondanità e allo scetticismo dell'ambiente di corte.
Oggi si è soliti ritenere, sulla base di dati approssimativi, che il clero possedesse fino al 10% della proprietà nazionale, ma il rendimento di questi immobili, nel complesso, restava molto al di sotto delle loro reali potenzialità. Con l'assenteismo cronico dei beneficiari e le ingiustizie perpetrate ai danni della popolazione contadina, la gestione veniva svolta in maniera alquanto improduttiva. Lo attesta il fatto che la decima percepita da vescovi, abati e canonici sui prodotti agricoli e sugli armenti aveva un valore equivalente alle rendite dei possedimenti rurali. Nonostante questo però il credito della chiesa restava di gran lunga migliore di quello dello Stato. Le proprietà fruttavano un'entrata annua pari a circa 1/4 della ricchezza fondiaria in ogni provincia del regno. Oltre a ciò bisogna mettere nel conto gli 'incassi' delle varie fondazioni assistenziali, sanitarie ed educative, grazie alle quali la chiesa monopolizzava quasi completamente la gestione della vita sociale e culturale. Quando si parla di questi enti la storiografia cattolica è solita usare il termine di 'oneri', ma tutti si rendono conto -poiché ancora oggi è così- che tali ambiti d'intervento gestiti dalla chiesa fruiscono sempre di ampie agevolazioni fiscali, di forti contributi statali, di lasciti e donazioni di privati cittadini, per non parlare del fatto che, ad es., i 562 ginnasi tenuti allora dal clero, erano riservati alla nobiltà o comunque a quelle famiglie in grado di mantenere i figli agli studi.
I monasteri e i conventi erano ricchissimi: frati e monaci, in genere, oziavano con buone rendite e grandi proprietà. Ad eccezione di quelli che si dedicavano all'insegnamento o all'assistenza medica, gli ordini religiosi venivano considerati socialmente inutili. Ignavia e rapacità le accuse principali al loro indirizzo, benché non manchino i monaci appassionati alle idee dei filosofi. Fallita la riforma del 1776, che aveva cercato di porre rimedio alla decadenza dei costumi e allo spopolamento dei conventi, due anni dopo si decise di chiuderne 426, sopprimendo 8 ordini religiosi. Tra il 1768 e l'89 la crisi delle vocazioni fu notevolissima. Ciononostante la chiesa continuava a proclamare l'eternità dei voti monastici e lo Stato ne sorvegliava l'adempimento: se i religiosi abbandonavano il convento, vi tornavano accompagnati dalla forza pubblica.
Tutto il clero era esente dai gravami di carattere municipale e da qualunque imposta fiscale regia, diretta e indiretta. I beni della chiesa non pagavano alcun diritto neppure nei trasferimenti di proprietà. Ogni quinquennio le assemblee generali di questo ordine votavano un contributo fiscale detto 'donazione gratuita' da versare nelle casse dello Stato con rate annuali: si trattava, in sostanza, del 2% di tutti gli introiti, l' entità effettiva dei quali però era sconosciuta al governo (da notare che la percentuale era stata decisa nel 1561 e da allora, malgrado l'esorbitante rialzo delle altre imposte, era rimasta immutata). Oltre a ciò il clero possedeva propri tribunali, da cui dipendevano non solo tutti gli ecclesiastici, ma anche i laici per cause riguardanti la religione (vedi ad es. la legislazione matrimoniale). Gli attentati alla fede, la bestemmia e il sacrilegio potevano essere puniti con la morte.
In questo contesto va però distinta la situazione del basso clero (curati, vicari e cappellani), che è escluso completamente dalla carriera episcopale e che trae il proprio sostentamento dalla modesta 'congrua' (porzione della decima) e dai redditi, più o meno variabili, inerenti all'ufficiatura delle varie cerimonie religiose (il 'casuale'). Il più delle volte i sacerdoti di campagna, reclutati fra la piccola borghesia rurale, vivono in condizioni più precarie rispetto ai loro colleghi di città, reclutati fra la media borghesia (assenti, fra i preti, persone di origine operaia o contadina, in quanto i candidati al sacerdozio dovevano dimostrare all'atto dell'ordinazione di avere una rendita patrimoniale). Numerosi sono i preti 'clientelari', che vanno in cerca di messe senza appartenere ad alcuna parrocchia e non pochi sono quelli che vivono di un modesto beneficio senza esercitare alcuna vera attività pastorale.
In campagna il clero rappresenta buona parte della cultura: tiene lo stato civile, registrando battesimi, matrimoni e decessi; simpatizza, senza esporsi troppo, per le idee dei filosofi, che vanno peraltro facendosi strada fra categorie sociali tendenti all'agnosticismo: borghesia rurale, funzionari locali, artigiani, vecchi soldati, bettolieri, ecc. Il prete è anche diffusore delle ordinanze reali, ausiliario della giustizia, banditore di vendite immobiliari. I beni della parrocchia sono il presbiterio, la scuola, il cimitero e tutti gli immobili lasciati in eredità da fedeli pii e timorosi. Qualunque forma di manutenzione dell'edificio adibito al culto è a carico dei parrocchiani.
In città (si pensi p.es. a Nancy) i contrasti fra alto e basso clero sono più sentiti: qui infatti le esigenze democratiche ed egualitarie vengono avanzate con più decisione. Nel 1779 i parroci organizzati in una sorta di 'sindacato ecclesiastico' già rivendicavano maggiori 'salari'. H. Reymond, loro rappresentante, nell'opera del 1776 intitolata Droits des curés et des paroisses sous le double rapport spirituel et temporel, aveva proposto di creare a Parigi una Camera consultiva del basso clero, ma l'Assemblea del clero ottenne nel 1782 da Luigi XVI la proibizione per i parroci di "formare tra loro alcuna associazione e di rendere deliberazioni senza aver ottenuto espressa autorizzazione". Nonostante ciò, detto movimento para-sindacale, col passar del tempo, limitandosi sempre meno alla mera questione della congrua, cominciò a pretendere una riforma generale di tutta l'amministrazione dei beni mobili e immobili della chiesa, onde favorire la situazione delle diocesi e delle parrocchie più povere (cfr l'opera dei fratelli Delacour, Voeux de la raison pour le paroisses, les curés, les pauvres, à Louis XVI dans l'Assemblée des Notables). Reymond, che si ispirava al richerismo e che diventerà vescovo costituzionale di Grenoble, presumeva di fondare il diritto dei curati sulla storia dei primi secoli della chiesa, sulla tradizione dei concili e sulla dottrina dei Padri. Grazie anche alla sua attività, si andava lentamente formando una sorta di partito gallicano-giansenista, che mentre rivendicava un maggior potere dei preti rispetto ai vescovi, trovava anche molti di questi disposti a lottare contro i 'colleghi' filoromani contrari a una maggiore indipendenza dalla Santa sede.
Stante questa situazione non ci si deve stupire che dalle masse popolari la religione fosse vissuta con molto conformismo e poca convinzione. Non si trattava solo di vocazioni in forte calo, ma anche -come le più recenti indagini hanno messo in luce- di scarsa partecipazione nella pratica dei sacramenti e in particolare durante le festività pasquali, di forte diminuzione delle offerte per le messe a suffragio, di aumento delle nascite illegittime, di bassa tiratura dei libri a carattere religioso, ecc. Dopo il 1760 inizia anche la contraccezione, qui da segnalare più che altro per l'avversione ch'essa suscita ancora oggi nell'ambito di certo cattolicesimo. E se ciò non bastasse, si potrebbe anche ricordare la solenne processione del Santo sacramento per le vie di Versailles, in occasione della convocazione degli Stati generali: col cero in mano incedevano, dietro gli ordini privilegiati, gli esponenti del Terzo stato, ovvero i Mirabeau e i Robespierre!
Ma l'aspetto pacifico e tranquillo della vita religiosa del '700, dopo le aspre battaglie del secolo precedente, non deve essere visto come un indice della scarsa conflittualità esistente nell'ambito della chiesa. Qui bisogna sfatare uno dei miti di certa storiografia cattolica contemporanea, secondo cui "nulla lasciava presagire...che la rivoluzione che incominciava avrebbe costituito per la chiesa di Francia il periodo più drammatico della sua storia"(così si legge nel vol.VIII/1 della monumentale Storia della Chiesa curata da H. Jedin, ed. Jaca Book). Col che, in pratica, o si fa una lode alla storia e all'esistenza degli uomini, le cui vicende risultano sempre molto più complesse e imprevedibili di tutte le ipotesi o le teorie che si possono elaborare (ma in questo caso il merito va alle masse popolari); oppure si tende a giustificare l'inerzia e lo status quo delle classi dominanti, le quali naturalmente non potevano né volevano prevedere cose funeste per le loro posizioni privilegiate (ma in quest'altro caso bisognerebbe precisare che da parte delle masse rivoluzionarie forse si immaginarono cose ancora più radicali di quelle che poi effettivamente accaddero, cose che solo per l'immaturità dei tempi, la debolezza teorica e pratica delle stesse masse e dei leaders alla loro testa non poterono essere realizzate).
In effetti, se non si considera che 'molte cose' già da tempo lasciavano facilmente intuire quel che sarebbe successo, si è poi portati a credere che la rivoluzione non fu il frutto spontaneo di una crisi di enormi proporzioni, l'esito più maturo di ingiustizie accumulatesi nel corso di vari secoli, ma piuttosto una sorta di 'golpe' tramato da classi e gruppi sociali desiderosi di prendere il posto degli ordini privilegiati: un colpo di stato le cui motivazioni andrebbero ricercate nei sentimenti di invidia, gelosia e rancore. Questa, appunto, la tesi sostenuta dall'ex-gesuita A. Barruel, allora profugo in esilio, che con le sue Memorie per servire alla storia del giacobinismo fornì ampio materiale alla successiva storiografia cattolica e borghese controrivoluzionaria. Barruel era convinto che la rivoluzione fosse il risultato di una cospirazione contro il cristianesimo, la monarchia e la proprietà dei ceti privilegiati, tramata e condotta dall'illuminismo ateo, dalla massoneria e dalla setta para-socialista degli Illuminati, diffusasi in Baviera tra il 1776 e l'86. I giacobini non avrebbero fatto altro che sintetizzare queste tre correnti, che, rispettivamente, sul piano morale rappresentavano l'empietà, la ribellione e l'anarchia. Da notare però che il gesuita afferma che i militanti giacobini erano almeno 300.000 e i simpatizzanti più o meno attivi, sparsi in tutta la Francia, almeno 2 milioni!
E' evidente, da questo punto di vista, che la rivoluzione poteva essere avvertita come un dramma solo dall'alto clero. Viceversa, dal punto di vista delle masse, anche di quelle tradizionalmente religiose, la rivoluzione non poteva essere considerata che come un evento liberatorio, emancipativo, come una vera e propria catarsi. E il fatto che il basso clero sia stato subito appoggiato dai parlamentari sin dalle prime sedute degli Stati generali, è appunto indicativo di quale diversa sensibilità caratterizzasse i ceti sociali meno favoriti.
E' assai banale quindi sostenere che la chiesa di Francia, se avesse voluto, avrebbe potuto riformarsi da sola, senza aspettare l'ondata rivoluzionaria della borghesia o sostenere addirittura, con Daniel Rops, che la rivoluzione avrebbe potuto essere più 'umana' se fosse stata più 'cristiana' (in La chiesa delle rivoluzioni, ed. Marietti). come era strutturata, non poteva fare alcunché di veramente innovativo. Essa, come la monarchia e soprattutto l'aristocrazia, rifletteva rapporti socio-economici che le impedivano qualunque rinnovamento democratico. Negli stessi cahiers de doléances, prodotti in vista degli Stati generali, appare in modo assai chiaro quanto fosse vasta e profonda la crisi della chiesa francese, e quanto fossero pesanti le accuse contro i privilegi e gli abusi del clero, contro le decime e la decadenza del monachesimo. Al massimo dunque essa avrebbe potuto rendere meno catastrofico il terremoto che la sconvolse, ma in nessun modo avrebbe potuto evitarlo. A certi livelli (si pensi al basso clero intellettuale) poteva anche affrettarne la venuta servendosi della stessa religione, ma non senza l'aiuto, in quel momento, della nuova classe emergente: la borghesia.
DAGLI STATI GENERALI ALLA COSTITUENTE.
Le prime riforme religiose
Nel maggio 1789, sotto la pressione del deficit finanziario dello Stato e per la difficoltà d'imporre nuove tasse senza consultare l'intera nazione, vennero convocati gli Stati generali, su proposta dell'arcivescovo Loménie de Brienne. Il primo problema da risolvere era quale sistema di votazione da adottare: se per ordine o nominale, come reclamava il Terzo stato, il quale, avendo ottenuto dal ministro Necker un numero doppio di rappresentanti, poteva disporre da solo della metà dei voti. Il regolamento regio per l'elezione dei deputati del clero aveva finito col favorire i parroci (che avrebbero votato personalmente), mentre i conventi e i capitoli erano soltanto rappresentati da delegati. Nell'ambito dell'Assemblea, e di fronte al re, preti e vescovi risultavano giuridicamente paritetici, anzi i primi superavano i secondi di molte unità (208 su 296). Il 13 giugno tre curati decisero di trasferirsi dalla sala del loro ordine a quella del Terzo stato. Le defezioni, col passare dei giorni, si moltiplicarono. Finché, dopo l'autoproclamazione in Assemblea nazionale proposta dal prete Sieyès, il clero, con pochi voti di maggioranza, deliberò di unirsi alla borghesia.
Su questa decisione due cose almeno vanno dette: anzitutto non è vero -come sostiene in genere la storiografia cattolica- ch'essa risultò decisiva ai fini dell'istituzione dell'Assemblea costituente, avendo fatto acquisire alla borghesia la maggioranza. In realtà avvenne proprio il contrario: l'ordine del clero decise di unirsi al Terzo stato solo dopo che questo aveva manifestato la chiara intenzione di opporsi al re e alla nobiltà. Senza la volontà politica della borghesia, il basso clero, che pur apparteneva per origine sociale al Terzo stato, difficilmente sarebbe arrivato alla rottura con i prelati, o forse vi sarebbe arrivato seguendo altre strade (ad es. l'eresia. Qui anzi ci si può chiedere se non sia stata proprio la mancata realizzazione di una riforma protestante francese a impedire il formarsi di una valvola di sfogo per le acutissime contraddizioni sociali che travagliavano l'intera nazione: forse che tale riforma non si ebbe proprio perchè l'autonomia gallicana la rese per così dire meno urgente?)
In secondo luogo è senza dubbio limitativo sostenere, come vuole ad es. Dansette, che il basso clero si unì al Terzo stato "per gelosia verso l'alto clero". Basta leggersi alcuni brani dei famosi 60.000 cahiers de doléances per convincersi di come e quanto i problemi si ponessero più sul terreno sociale e meno su quello personale. "Di tutti gli abusi che esistono in Francia -viene detto nel cahier del visconte di Mirabeau, militante del Terzo stato- quello che maggiormente affligge il popolo e più fa disperare i poveri è l'immensa ricchezza, l'oziosità, le esenzioni [fiscali], il lusso inaudito dell'alto clero. Queste ricchezze si sono in gran parte formate col sudore dei popoli, sui quali il clero percepisce un'orribile imposta che va sotto il nome di decima; essa assorbe ogni dieci anni a vantaggio di illustri fannulloni la totalità del reddito agricolo [annuale] del regno". E più avanti: "Le spese per le chiese, i presbiteri, i cimiteri sono a carico delle comunità, che tuttavia continuano a pagare per battesimi, matrimoni, sepolture, senza che la decima venga diminuita. I poveri non sono più soccorsi e pagano la decima"(vedi il libro di D. Menozzi, Cristianesimo e rivoluzione francese, ed. Queriniana. Ora anche la Cinque lune ha pubblicato qualche brano dei cahiers). Sotto accusa anche i monaci e il seminario locale, che percepiscono una decima in covoni di grano dalla comunità, mentre in cambio non danno nulla. Il canonico, dal canto suo, si differenzia solo perchè la percepisce in moneta.
Non si chiedeva solo la soppressione degli abusi del sistema beneficiario, il miglioramento delle condizioni dei curati a congrua, il divieto di cumulare più benefici, l'obbligo di residenza dei vescovi nella diocesi e la loro elezione da parte del capitolo (contro il Concordato del 1516), e poi il conferimento delle cariche ecclesiastiche in base ai meriti e all'anzianità, la soppressione delle tasse per matrimoni e sepolture e delle annate (quelle pagate al papa), la fine della decima e delle sperequazioni fiscali che dividevano i tre ordini dello Stato, e poi ancora lo scioglimento delle congregazioni religiose, la diffusione di centri d'istruzione per i giovani: non si chiedeva solo tutto questo e altre cose ancora direttamente collegate alle discriminazioni di carattere sociale; si chiedeva anche di modificare alcune tradizioni di vita ecclesiale che ancora oggi permangono immutate nell'ambito del cattolicesimo. Si legge, p.es., nel quaderno di Chalais: "Che tutti i preti si sposin. La tenerezza delle loro spose risveglierebbe nei loro cuori la sensibilità, la riconoscenza, la pietà -così naturali per l'uomo- che i voti di castità e di solitudine hanno spento in quasi tutti coloro che li hanno pronunciati".
Proprio queste rimostranze hanno indotto certa storiografia cattolica, meno conservatrice di quella che nella rivoluzione francese (si pensi a Taparelli d'Azeglio o a Del Noce) vede il culmine di una 'disgrazia' cominciata col Rinascimento e la Riforma protestante, una disgrazia dilatatasi a macchia d'olio con la società capitalistica ed esplosa, assumendo un'espressione 'demoniaca' nei paesi comunisti; si diceva, proprio le doglianze dei cahiers hanno indotto storici e intellettuali come Burke e Taine (per l'Italia bisogna pensare a Papi, Cuoco, Botta, Manzoni...) a riconoscere l'esigenza di un 'riformismo forte' nell'ambito della chiesa settecentesca. Ma la tesi fondamentale di questa corrente liberal-utopistica fu quella che vedeva nella rivoluzione un serio ostacolo al processo di graduale evoluzione verso il superamento del vecchio regime: processo che - a suo giudizio- era stato inaugurato dai sovrani 'illuminati' e che sicuramente avrebbe reso inutile qualunque rivolgimento traumatico.
Pur di ridimensionare l'importanza della rivoluzione francese, certi storici cattolici (si pensi p.es. a V.Giuntella) sono addirittura propensi a considerare la rivoluzione americana o anche quella inglese del secolo precedente, molto più democratiche nei contenuti e nei metodi (il termine più usato qui è 'non violenza' ovvero 'rivoluzione incruenta'. Vedi anche le tesi dell'ultraconservatore F. Furet). Eppure tutti sanno che la Costituzione americana del 1787, al pari della rivoluzione 'parlamentare' inglese, fu soltanto il frutto di un compromesso fra la borghesia e i latifondisti (negli Usa c'erano i piantatori del sud), cui le masse popolari cercarono di porre rimedio rivendicando l'importante Bill of Rights. Se poi si vuole sostenere che i principi democratici della borghesia trovarono una loro prima applicazione nella Dichiarazione americana d'indipendenza del 1776, ebbene allora si deve aggiungere che tale Dichiarazione, per quanto non permettesse politicamente la formazione d'uno Stato unitario dell'America (in questo senso era meno avanzata della Costituzione del 1787), rifletteva le posizioni più progressiste proprio della filosofia francese (specie la linea di Rousseau), per cui l'avversione al regime di privilegio risultava superiore a quella della stessa Dichiarazione francese dei diritti umani (ad es.non si prevedeva la proprietà come diritto 'naturale' ma solo come diritto 'civile' connesso al lavoro). Oltre a ciò bisogna precisare che se nelle colonie americane la rivoluzione non sviluppò una particolare ostilità nei confronti della religione, fu proprio a causa del pluralismo delle confessioni qui largamente rappresentato, frutto della rottura dell'unità cattolica europea.
Ma procediamo. I chierici collaborarono con entusiasmo all'interno della Costituente: forti delle loro tradizioni gallicane, neppure per un istante si chiesero in che misura Roma avrebbe approvato il loro comportamento. Dall'agosto al novembre del 1789, dopo la presa della Bastiglia, la rivolta delle città e delle campagne (la cd. 'grande paura'), l'Assemblea prenderà tre decisioni fondamentali: 1) l'abolizione di tutti i privilegi feudali (decime, annate1, franchigie ecclesiastiche in materia d'imposte, diritti signorili, ecc.); 2) la nazionalizzazione delle proprietà immobiliari della chiesa (terre, foreste, beni derivanti da fondazioni, ospedali, scuole ecc.); 3) il sostentamento del clero da parte dello Stato per l'esercizio del ministero. Provvedimenti, questi, assolutamente rivoluzionari rispetto all'epoca in cui vennero adottati.
Il primo incontrò il consenso di tutti i cittadini e di tutti i cattolici non privilegiati, cioè della stragrande maggioranza della nazione. Anche molti vescovi vi acconsentirono: un po' per convinzione, un po' perché impauriti dall'assalto della Bastiglia. Si noti, in questo senso, come la storiografia cattolica, messa alle strette, si faccia vanto del fatto che "le teorie che la rivoluzione francese ha cercato di mettere in pratica nei confronti della chiesa e della religione non sono nate nel cervello di uomini di Stato bensì di uomini di chiesa, di teologi"(cfr L. Rogier e altri, che ovviamente danno un giudizio molto pesante su questi ecclesiastici, nella loro Nuova storia della chiesa, ed. Marietti 1976). Ciò tuttavia non dimostra la superiorità della religione in generale o del cattolicesimo in particolare, quanto semmai la dipendenza dell'ideologia religiosa dalle concrete esigenze degli uomini, morali e materiali, nonché dall'evoluzione dominante del pensiero laico progressista.
Il secondo provvedimento -resosi necessario a causa della crescente crisi finanziaria, dovuta all'impossibilità di riscuotere le tasse dopo i disordini di luglio- venne naturalmente accettato con molte riserve, ma grazie alla mediazione del vescovo di Autun, Talleyrand -che Dansette, con molta superficialità e pregiudizio, qualifica come "il più empio, il più corrotto, il più cinico fra tutti quelli dell'antico regime" -si riuscirono ad ottenere 568 voti contro 346. A tale proposito ci pare alquanto riduttivo sostenere che "l'Assemblea era assillata dallo spettro del fallimento più che dall'ideale della laicizzazione" (vedi l'opera citata dello Jedin). Se gli ideali vengono realizzati dietro la spinta di esigenze concrete, ciò non significa ch'essi siano poco importanti o poco sentiti dagli uomini che li manifestano. Il fatto è che per realizzare determinati ideali rivoluzionari (e questo della confisca era avvertito in Francia ben prima dell'89) occorre la volontà e la partecipazione democratica delle masse. Altrimenti gli ideali sono soltanto, nel migliore dei casi, il frutto della elaborazione teorica di qualche intellettuale progressista, cioè un'utopia. Non è forse significativo che nell'Assemblea la proposta della confisca sia stata avanzata da nobili di idee liberali, e che i vescovi non abbiano fatto alcun obbligo di coscienza ai fedeli di opporvisi, e che persino i semplici sacerdoti si siano sentiti in dovere di rinunciare ai loro diritti casuali o di stola? Se non fosse esistito un forte movimento spontaneo di protesta, protrattosi per anni e anni, avrebbero gli ordini al potere rinunciato con così relativa facilità ai loro privilegi e immunità?
Il terzo provvedimento rappresentava la contropartita all'incorporazione coatta delle proprietà ecclesiastiche. Sostenuto dalla stragrande maggioranza del basso clero, che così poteva percepire un reddito di molto superiore a quello pre-rivoluzionario, il compromesso trovava consenzienti anche le frange meno conservatrici dell'alto clero, le quali in ogni caso riuscivano ad ottenere che il cattolicesimo, pur nel riconoscimento giuridico della libertà di religione, sancito dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (votata il 26 agosto), costituisse l'unica religione i cui ministri erano stipendiati dallo Stato. Dal canto suo quest'ultimo s'incaricava di provvedere all'assistenza dei poveri, degli ammalati e all'insegnamento (ivi incluso il sostegno finanziario a quello dei seminari diocesani).
A ben guardare però lo Stato non trasse un vero vantaggio economico da questa nazionalizzazione, a motivo del fatto che l'immissione contemporanea sul mercato di una così grande quantità di terre ne fece rapidamente precipitare il valore. Correlato a questo fatto è l'altro, quello degli 'assegnati': una sorta di 'buoni del tesoro' il cui valore -secondo il governo- doveva essere equivalente a quello delle proprietà ecclesiastiche confiscate. In pratica lo Stato li emise fingendo di aver già incamerato l'importo complessivo delle terre: il che presupponeva, ovviamente, un reciproco rapporto di fiducia tra cittadini e Stato. Tuttavia, essendo una cartamoneta convertibile solo in terre a un tasso del 5%, il suo abuso portò subito a una violenta inflazione, al punto che il prezzo del pane aumentò di mille volte in 4 anni! Nel contempo però l'operazione fece ottenere al governo un vantaggio politico: "borghesi e contadini, indipendentemente dai loro sentimenti religiosi -come vuole Dansette-, diventarono alleati della rivoluzione: e reagiranno contro tutti i tentativi di ritorno al passato che potessero compromettere i loro interessi"(naturalmente col termine 'contadini' va qui intesa la borghesia rurale). La vendita dei cosiddetti 'beni neri' finirà solo alla vigilia del Concordato del 1801.
Altri decreti molto importanti furono quello emanato il 22 dicembre 1789, col quale si secolarizzò la direzione generale dell'insegnamento, togliendo ai vescovi, per affidarla alle amministrazioni dipartimentali, la sorveglianza dell'educazione pubblica; nonché quello del 24 settembre 1789, col quale si ammisero ai pubblici uffici tutti i protestanti. Due anni dopo quest'ultimo provvedimento venne esteso anche agli ebrei. A favore dell'emancipazione politico-giuridica degli ebrei s'impegnò assiduamente l'abbé Grégoire (cfr. il Saggio sulla rigenerazione fisica, morale e politica degli ebrei, 1788)
Si è detto della Dichiarazione dei diritti. L'art. 10 prevedeva la piena libertà di religione (non però anche quella 'dalla' religione). Il decreto del 13 aprile 1790 che definisce il criterio interpretativo del suddetto art. 10, precisa che l'Assemblea nazionale non poteva riconoscere esplicitamente il cattolicesimo come "religione della nazione" e il suo culto come "il solo culto pubblico autorizzato", per quanto -si aggiunge- la devozione dell'Assemblea a tale culto "non può essere messa in dubbio, dal momento in cui questo culto sta per diventare il più rilevante capitolo della spesa pubblica". In pratica il legislatore, subito dopo aver messo sullo stesso piano giuridico tutte le religioni, le distingue su quello politico. Questa ambiguità, tipica dell'ideologia borghese, sarà alla fonte di tutte le future contraddizioni nel rapporto fra Stato e chiesa: non solo perchè la rivoluzione troverà sempre grandissima difficoltà ad affermare un proprio carattere laico e aconfessionale, ma anche perchè i cattolici faranno di tutto per non perdere quei pochi privilegi che l'Assemblea aveva loro in un primo momento concesso.
Va detto tuttavia, con A. Soboul, che i costituenti, quali rappresentanti della nazione, si ritenevano autorizzati a riformare in modo democratico la chiesa e non pensavano a costruire un regime di separazione vero e proprio, che in quel momento sarebbe apparso come un'idea blasfema e anticristiana. Tanto è vero che nella commissione per redigere la Costituzione e la Dichiarazione dei diritti erano presenti non pochi prelati: dagli abati Sieyès e Grégoire ai vescovi Talleyrand, de Lubersac, de la Luzerne, ecc. Resta comumque significativo che, nonostante una semplice allusione all'Essere supremo, non si faccia alcun riferimento, nel preambolo della Dichiarazione, ai "diritti di dio". Lo storico Mathiez l'ha giustamente sottolineato dicendo: "I principi del 1789 si presentano come un corpo di dottrina autosufficiente, che trae il proprio valore dall'evidenza razionale e non dalla rivelazione. Così l'umanità pone se stessa come suo proprio dio".
Il desiderio di 'riformare' il cristianesimo spiega anche la decisione di sospendere l'emissione dei voti (giudicati contrari ai diritti umani) in tutti i monasteri, nonché quella del 13 febbraio 1790 di sopprimere tutti gli ordini che pronunciavano voti solenni. Sin dall'inizio la rivoluzione si caratterizzerà per un marcato accento 'confessionale', che si presumeva alternativo all'ideologia cattolica ufficiale. Non voleva certo essere una rivoluzione anticristiana o antireligiosa, ma anticlericale sì. Una cosa infatti è l'esproprio dei beni del clero, secolare e regolare, un'altra è la soppressione d'ufficio dei voti e degli stessi ordini: qui l'ingerenza è netta. Evidentemente il governo, forte dell'ostilità cui i regolari erano oggetto da parte del laicato cattolico, ritenne opportuno colpire questa categoria di agiati ecclesiastici sul piano sia economico che politico, impedendo il formarsi di trame e collegamenti nazionali ed europei di tipo eversivo (gli ordini regolari facilmente si prestavano a questo utilizzo; forte peraltro era il loro legame con la curia romana). Ciò non toglie tuttavia la particolare drasticità del provvedimento, sebbene sulle prime venissero risparmiati gli ordini femminili e gli istituti maschili esercitanti attività ospedaliera e/o scolastica.
In altre parole, si sarebbe dovuto puntare su una lenta e graduale estinzione degli ordini, prescindendo da pressioni amministrative, che spesso rischiano di sortire l'effetto contrario, oppure di costituire un pericoloso precedente per ulteriori vessazioni. Né serve, a titolo di giustificazione del provvedimento, sottolineare il fatto che la fine del valore legale dei voti non comportò praticamente alcuna resistenza, determinando anzi il subitaneo spopolamento della maggior parte dei monasteri (a Parigi ad es. i religiosi favorevoli alla secolarizzazione raggiungevano il 48%). Qui ha ragione il Dansette, quando afferma che l'Assemblea impediva ai monaci di restare nei conventi "così come il re ne sbarrava le porte impedendo loro d'uscirne". Va poi detto, in definitiva, che l'Assemblea, con tale provvedimento, non poté vantare alcuna particolare coerenza. Essa infatti volle assicurare a quegli ex-monaci ricondotti allo stato civile, che avevano rifiutato di continuare la vita monastica in conventi appositamente adibiti, una sorta di pensione statale, come indennizzo per l'esproprio causato. Col che, in pratica, si permetteva loro di continuare a fare quello che avevano sempre fatto, cioè i rentiers.
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(1) La soppressione delle annate fu proposta dall'abate Grégoire.
Le vicende legate alla costituzione civile del clero
Poco tempo dopo la soppressione degli ordini religiosi, a conferma che il governo rivoluzionario era intenzionato a servirsi della religione come prima se ne serviva l'ancien régime, cioè per confermare il sistema politico vigente, si obbligarono tutti i preti a leggere e commentare dai pulpiti delle loro chiese le decisioni della Costituente. Cosa che venne fatta, a dire il vero, senza troppe difficoltà. Anzi, nel midi il problema che il governo doveva affrontare era l'opposto, ovvero quello di come impedire ai preti cattolici di considerarsi gli unici autorizzati a svolgere tale propaganda. L'Assemblea infatti si era già espressa a favore della libertà di culto e cercava di non discriminare ugonotti ed ebrei.
Conformemente allo spirito democratico della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e alle molte misure politico-giuridiche prese dall'Assemblea, si approvò nell'estate del '90 l'importantissima Costituzione civile del clero, con la quale, in aperta violazione del Concordato del 1516: 1) si riorganizzava la distribuzione geografica delle diocesi e delle parrocchie, facendole coincidere con le nuove circoscrizioni amministrative (il loro numero ovviamente diminuiva di parecchio, tanto che d'ora in poi tutti i vescovi della nazione vengono posti sotto l'autorità di 10 metropoliti e il numero massimo di fedeli per costituire una parrocchia diventa di 6.000); 2) si regolamentava il trattamento economico degli ecclesiastici, che diventano così funzionari stipendiati dallo Stato, tenuti a esercitare il ministero gratuitamente (qui gli uffici riconosciuti sono solo sette: metropolita, vescovo, parroco e quattro tipi di vicari); 3) infine si stabiliva il nuovo sistema di elezione popolare dei vescovi e dei sacerdoti, accogliendo le richieste del partito gallicano-giansenista di eleggere vescovi e parroci, rispettivamente, da assemblee dipartimentali e distrettuali, composte da cittadini attivi (inclusi ebrei e protestanti) che pagavano tasse pari a dieci giorni di lavoro. Poteva essere eletto vescovo solo chi avesse esercitato il ministero pastorale per quindici anni entro i confini della diocesi, parroco chi l'aveva svolto per almeno cinque anni.
In sostanza i vescovi dovevano ricevere l'istituzione canonica dal metropolita del loro dipartimento (se il metropolita mancava era sufficiente il vescovo più anziano, se era contrario si poteva ricorrere a due notai). Al papa si riconosceva un semplice primato d'onore, ovvero il diritto di essere informato della nuova elezione. I vescovi erano altresì obbligati a risiedere in diocesi e i loro atti diventavano legittimi solo se suffragati dal consenso del consiglio episcopale, ordinario e permanente, formato dai rappresentanti dei parroci (quest'ultimi potevano scegliere i loro vicari sulla base di una lista ammessa dal vescovo).
Come si può notare, il tentativo era quello di democratizzare la vita della chiesa cattolica, prendendo come modelli ampi aspetti delle confessioni protestante, anglicana e ortodossa. In ciò vi era pure l'ambizione di riportare il cattolicesimo francese alle origini del cristianesimo, cioè al tempo in cui la vita religiosa ruotava attorno alla figura del vescovo, la cui credibilità e legittimità dipendeva sempre e comunque ex consensu ecclesiae, mentre a livello nazionale il metropolita svolgeva funzioni di indirizzo e coordinamento, senza pretendere alcun riconoscimento giurisdizionale particolare. Una strutturazione ecclesiastica assai somigliante a quella ortodossa dell'est europeo, che certo molto più della cattolica era rimasta legata all'ideale di cristianità dei Padri. Spinte insomma da idee gianseniste (cioè antipapali), da idee presbiteriane (cioè antiepiscopali) e da idee richeriste, tendenti a porre il potere ecclesiastico sotto il controllo di quello politico, le forze gallicane -rappresentate da avvocati e giuristi di fama, come Treilhard, Lanjuinais, Martineau, Durand de Maillane- cercarono di superare il Concordato del 1516, prospettando una chiesa nazionale indipendente da Roma e altrettanto vincolata allo Stato francese.
L'Assemblea nazionale promulgò la Costituzione dopo aver ascoltato il rapporto del comitato ecclesiastico, ma quest'ultimo forse non avrebbe approvato il progetto così in fretta se l'Assemblea stessa, in un secondo momento, non l'avesse costretto ad accettare una quindicina di riformatori convinti. L'art. su cui il dissenso era molto forte riguardava appunto quello del conferimento delle cariche. L'alto clero, ritenendosi un corpo politico, non voleva perdere i suoi legami internazionali con lo stato pontificio, soprattutto in considerazione del fatto ch'esso, nella sua grande maggioranza, s'era piegato alle esigenze della rivoluzione più che altro per necessità e quieto vivere.
Guidati da Boisgelin, arcivescovo d'Aix, 30 dei 32 vescovi deputati all'Assemblea (i dissenzienti erano Talleyrand e Gobel), decisero di pubblicare una Esposizione dei principi sulla Costituzione civile del clero, in cui protestavano contro una modifica dello statuto della chiesa cattolica, avvenuta senza negoziato con il papato o per lo meno senza la possibilità di convocare i sinodi provinciali se non addirittura un concilio nazionale. Dopo qualche settimana i vescovi firmatari erano diventati 93. Il polemista Barruel aveva consigliato, ma invano, un compromesso: che il papa potesse delegare ai metropoliti il diritto di confermare i vescovi. Questo per lui significava 'battezzare' la Costituzione del clero.
La rivendicazione dell'episcopato a una piena autonomia disciplinare era senz'altro giustificata, anche perchè esso aveva esplicitamente dichiarato che l'opposizione alla grande riforma non implicava quella alla rivoluzione. Ma la Costituente, limitata da scelte di natura 'classista', in quanto prevalentemente composta da ceti borghesi, non voleva sentir parlare di concilio nazionale. In gioco non era soltanto l'esigenza del governo di controllare gli effetti politici di determinate decisioni innovative prese in materia di religione, ma anche l'esigenza di indirizzare tali decisioni verso un certo modo di concepire e vivere la religione.
In altre parole, l'Assemblea rifiutò l'idea di convocare un concilio non solo perché temeva che questo venisse strumentalizzato per fini eversivi e destabilizzanti (il che però non giustifica il rifiuto), ma anche perché voleva essere sicura che i cattolici fossero dalla sua parte, anche a costo d'intromettersi nella loro vita ecclesiale (il che, come noto, crea sempre effetti opposti a quelli desiderati). La Costituzione del clero -dirà J. Jaurès- "laicizzava la chiesa stessa" e mai l'Assemblea avrebbe permesso che il clero si ricostituisse come ordine. La convinzione che l'ideale democratico-religioso fosse giusto appariva come un motivo sufficiente per imporlo, senza compromesso alcuno, anche a chi la pensava in modo completamente diverso.
Sperare poi che il pontefice approvasse una riforma del genere pare troppo assurdo per credere che fosse davvero questa l'intenzione dei costituenti. Pio VI aveva già condannato, seppure ufficiosamente, sia la proibizione dei voti monastici che la Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Il governo aveva in realtà bisogno di un pretesto per giustificare la necessità di una dittatura democratico-borghese, sul modello, già collaudato, della monarchia inglese che, ai tempi dei Tudor, si era servita della mancata ratifica papale al divorzio di Enrico VIII da Caterina d'Aragona per imporre a Roma lo scisma. L'esigenza di una dittatura borghese dipendeva appunto dal fatto che il popolo, e cioè i contadini, gli operai, gli artigiani e i piccoli proprietari, già rimasto deluso dalla natura antidemocratica di talune risoluzioni della Costituente (negli anni 1789-91 l'Assemblea approvò anche delle leggi per reprimere gli scioperi e le rivolte popolari -vedi quella Le Chapelier), tendeva ad appoggiare con minor entusiasmo il governo al potere.
Di fronte al temporeggiare calcolato del papa, che si era limitato a 'brevi' indirizzati al re e ai prelati contro la Costituzione civile, in quanto sperava che la monarchia riprendesse le redini del paese o che fosse comunque una grande maggioranza del clero a chiedergli d'intervenire pubblicamente (a ciò va aggiunta la paura di ripetere, mutatis mutandis, la rottura anglicana e di perdere Avignone e il contado Venassino, i cui cittadini reclamavano l'annessione alla Francia)- di fronte dunque a questo atteggiamento, l'Assemblea, esasperata dalla resistenza che avvertiva da parte del clero più conservatore, pretese, aggiungendo errore su errore, l'applicazione per legge della Costituzione del clero, cui il re, forzatamente, aveva dato il consenso. E siccome le proteste non mancarono (a Nimes 300 morti in sanguinosi incidenti!),essa impose a tutti gli ecclesiastici funzionari un giuramento di fedeltà alla nazione, al re e alla legge, pena l'interdizione dagli uffici o la privazione dello stipendio (nel senso cioè che quanti vi si fossero opposti sarebbero stati sostituiti e nel peggiore dei casi considerati dei sovversivi). Anche Talleyrand, nella sue Memorie, ammise il grave errore politico di questa decisione.
Il risultato fu assai deludente per i rivoluzionari: i 2/3 degli ecclesiastici deputati alla Costituente, tutti i vescovi, eccetto sette (fra questi Talleyrand e Loménie de Brienne), nonché la metà del clero parrocchiale rifiutarono di prestare il giuramento. Come mai solo la metà dei sacerdoti lo spiega il Dansette, sottolineando che "le eccessive preoccupazioni terrene, l'abbandono delle virtù cristiane, tolsero ogni valore esemplare all'opposizione dell'episcopato": il basso clero, specie quello urbano, si sentì di agire diversamente.
Lo scisma tuttavia era scoppiato e la guerra civile per motivi religiosi era alle porte. Ora i partiti cattolici su posizioni contrapposte erano due: quello costituzionale (o giurato) e quello refrattario. Con quest'ultimo la storiografia marxista non è mai stata molto tenera, ma qui bisogna fare dei distinguo. Che i refrattari, ancora prima della Costituzione civile, avessero tenuto, nel complesso, un comportamento ambiguo, benché non dichiaratamente ostile, nei confronti della rivoluzione, è fuor di dubbio. Ed è altresì pacifico che la loro decisione di rifiutare la riforma democratica della chiesa esprimeva una tendenza conservatrice di tipo 'integralistico', cioè di dominio politico della religione -checché ne pensi la storiografia cattolica, per la quale "se tra i costituzionali ci furono dei buoni preti, nel campo refrattario furono tutti eccellenti"(come dice Rops. Da noi di recente Vittorio Messori ha avuto il coraggio di parlare di "farsa della Bastiglia", di rivoluzione come di "un mix di ridicolo e di orrore", paragonando "il popolo vero" al "popolo della controrivoluzione"!).
Però è anche vero che il modo in cui il governo cercò di varare la riforma non poteva favorire il consenso di quei cittadini-cattolici ancora incerti sulla gestione rivoluzionaria dell'89. I quali, proprio per questo,questo, avrebbero facilmente potuto porre delle obiezioni sulle questioni non tanto di merito quanto di metodo. Certo, non nel senso che potevano avanzare delle motivazioni per respingere lo strumento in sé di una Costituzione 'civile' del clero (tale sensibilità allora mancava), ma nel senso che potevano rifiutare che una riforma così radicale della chiesa avvenisse senza una preventiva consultazione della base.
Come noto, il legislatore costituzionale si difese da queste accuse sostenendo che il testo, essendo appunto 'civile', non aveva carattere 'antidogmatico'. In teoria era senz'altro così, di fatto però la modifica dell'istituzione canonica del clero contraddiceva a norme amministrative fondamentali della chiesa romana, acquisite da secoli, sebbene si potessero trovare ampie e documentate conferme nella tradizione dei Padri, nella chiesa ortodossa1 e negli stessi paesi della Riforma. Il neo-eletto vescovo A. Lamourette scrisse che "l'essere chiamati dai suffragi del popolo, come nei primi tempi del cristianesimo, a esercitare il sacro ministero...era cosa onorevole e vantaggiosa per un pastore della chiesa". L'Assemblea in sostanza, se poteva avere ragione a livello ideologico (compatibilmente alle esigenze e alle possibilità di quei tempi), aveva però torto a livello politico; e il fatto che i refrattari fruissero di così vasti appoggi popolari, stava appunto a dimostrare che la direzione 'classista' della rivoluzione non rispondeva in modo adeguato agli interessi delle masse.
L'Assemblea chiese al clero il giuramento di fedeltà il 27 novembre 1790. I primi vescovi a farlo furono Grégoire, Talleyrand e Gobel. Molti parroci refrattari cominciarono ad essere sostituiti da vicari in cerca di parrocchia, da ex-religiosi, da seminaristi giovanissimi o da vecchi preti che, disposti a giurare, venivano eletti col suffragio popolare. La chiesa giurata prese così a organizzarsi, pur fra mille difficoltà e resistenze, che misero a disagio un'Assemblea incerta sul da farsi. A giurare fu quasi il 60% di coloro che erano tenuti a farlo: a Parigi fu la stragrande maggioranza. Talleyrand, per togliere alla curia romana il pretesto di accusare il clero costituzionale d'esser caduto nell'eresia presbiteriana (che affida al consiglio dei preti l'amministrazione di tutta la chiesa), decise di consacrare due vescovi. Gobel, divenuto arcivescovo di Parigi, lo imita ordinandone altri 36. La rapidità di queste sostituzioni si spiega anche con la bassa considerazione in cui il gallicanesimo teneva il papato.
E' solo a questo punto che Pio VI rende pubblica la sua condanna della Costituzione civile del clero. Prima di farlo, naturalmente, chiede ai vescovi refrattari di avanzare una formale richiesta d'intervento, affinché dimostrino la loro subordinazione alla Santa Sede. E così con il breve Charitas interdice ai vescovi di nuova nomina l'esercizio del ministero e minaccia di scomunica tutti i preti costituzionali che non avessero ritrattato il giuramento entro 40 giorni. Poi con il breve Quod aliquantum attacca direttamente la Costituzione del clero, facendo il punto sull'opinione della chiesa ufficiale in merito a tutta l'esperienza rivoluzionaria francese.
Senza alcuna possibilità di appello ("dall'inizio alla fine -sono le sue parole testuali- non vi si trova nulla che non sia pericoloso e condannabile"), il pontefice rifiuta praticamente tutto: la libertà di religione, l'uguaglianza degli uomini, l'abolizione della primazia e giurisdizione della Santa sede, il potere dei sinodi locali sui vescovi, lo stipendio statale per il clero, l'esproprio dei beni, la soppressione degli ordini e dei voti. Non accetta neppure il potere dell'Assemblea sui vescovi, asserendo che lo scopo della rivoluzione era quello di "annientare la religione cattolica e con essa l'obbedienza dovuta ai re" (in realtà la Costituzione del clero toccava solo un aspetto veramente spinoso per i cattolici francesi: il primato del papa. Che poi questo principio sia stato usato dai conservatori per motivazioni tutt'altro che ideali, questo è un altro discorso). Pio VI paragona inoltre l'Assemblea ai valdesi, ai begardi, ai seguaci di Wiclef, a Lutero e Calvino, a Marsilio da Padova e Jean de Jandun, ovvero ai 'peggiori' eretici e scismatici degli ultimi secoli. Naturalmente conferma in toto il Concordato del 1516, anche se, in via diplomatica, per non rompere i rapporti con la monarchia, afferma di convidere 'alcune cose' del nuovo regime stabilitosi in Francia. Di fatto però egli rivolgerà insistenti appelli alle potenze cattoliche europee nonché a Caterina II di Russia e a Giorgio III d'Inghilterra perché venissero in aiuto del re francese contro i suoi stessi sudditi e perchè alla Santa sede venissero restituiti Avignone e il contado Venassino.
Ora, chiunque si rende conto che in tali condizioni dialogo proprio non poteva esserci, né poteva esistere per la chiesa gallicana (giurata o refrattaria qui non importa) la possibilità di rivedere anche uno solo degli articoli del Concordato del 1516. La lezione della Germania, dell'Inghilterra e di tutti gli altri, sembra essere la seguente paternalistica offerta: "per calmare e moderare il Terzo stato, abbiamo ordinato di sospendere [quindi temporaneamente!] l'esazione delle tasse". Ma subito dopo egli precisa, risentito: "Questa nostra generosità [!] è stata ripagata dall'ingratitudine"!. Al di fuori di questo breve, il papa, per bocca del segretario di stato, Card. Zelada, rifiutò anche l'idea dell'arcivescovo refrattario moderato, Boisgelin, di attribuire ad un concilio della chiesa gallicana il diritto di giudicare sul conferimento o ritiro dell'istituzione canonica. Col che egli dimostrava di non avere alcuna intenzione di avallare le classiche tesi del gallicanesimo, secondo cui l'ultima vera istanza della chiesa risiede nel concilio ecumenico, mentre la giurisdizione spirituale e pastorale dei vescovi proviene direttamente da Cristo e non dal papa.
Dal canto suo l'Assemblea, invece di far leva, adeguando il proprio comportamento, sugli ideali di uguaglianza e di giustizia che il basso clero e il laicato cattolico manifestavano, invitandoli, senza forzarne la volontà, a rendersi consapevoli che il pontefice e tutta la curia romana avevano attaccato non solo la Costituzione del clero ma anche la Dichiarazione dei diritti umani; invece di approfittare di questa mossa sbagliata della Santa sede prospettando l'ipotesi di poter indire un concilio nazionale per discutere la ratifica della Costituzione, preferisce decretare, incurante delle proteste dei costituzionali, la libertà di culto, seppure in edifici privati, per i preti refrattari. I quali, accortisi della debolezza del governo, organizzano subito varie iniziative sovversive. Sicché nella prima metà del '92 l'Assemblea si troverà brutalmente sospinta dalla forza degli eventi verso una strada senza uscita: sia che si prosegua sulla linea scismatica, sia che si cerchi un compromesso con lo stato pontificio, il rischio è sempre quello di veder minacciati o comunque fortemente rallentati i progressi della rivoluzione.
Una soluzione veniva offerta da coloro che propendevano per l'istituzione di un culto civico, come poi si farà, ma per il momento l'inizio della guerra con l'Austria e la Prussia, e soprattutto il rovesciamento della monarchia non potevano portare -a giudizio dell'Assemblea- che all'adozione di metodi drastici e coercitivi. "Poiché la guerra esterna e la guerra civile continuavano -dirà con acume Soboul- e la borghesia rifiutava l'appoggio popolare per timore della democrazia sociale, una necessità ineluttabile portava la Repubblica dei proprietari a rafforzare a poco a poco, dietro la facciata liberale, i poteri dell'esecutivo"(in La rivoluzione francese, ed. Newton).
Naturalmente la storiografia cattolica ha tutto l'interesse ad affermare che "la maggioranza dei vescovi e gran parte dei preti ritenne inaccettabile la Costituzione civile, in quanto essa misconosceva l'autorità del papa sui vescovi e sulle chiese locali"(così ad es. J. Comby in Concilium, n 1/89). In realtà il 'misconoscimento' fu solo un pretesto e i costituenti lo avvertirono come tale. La vera causa del rifiuto va invece vista nel fatto che la radicale riforma della chiesa non passava per il tramite del collegio episcopale, come per tradizione ci si doveva aspettare, ma piuttosto per quello dell'intellighenzia laica progressista, più o meno credente e praticante, cui volentieri si associarono i prelati di vedute lungimiranti.
In un primo momento, infatti, i vescovi refrattari, pur opponendosi alla riforma, non condivisero minimamente la linea papale di condanna senza appello della Dichiarazione dei diritti. Proprio per questo motivo la vera differenza fra l'alto clero conservatore e quello democratico non stava -come vuole P. Eicher (in Concilium, cit.)- semplicemente nel fatto che quest'ultimo era convinto di poter conciliare le funzioni della chiesa con le libertà fondate sui diritti dell'uomo, o nel fatto di aver scelto la repubblica in luogo della monarchia. La differenza non stava tanto in astratte considerazioni filosofiche o giuridiche, quanto piuttosto nell'esigenza di salvaguardare un determinato potere politico ed economico.
I conservatori erano favorevoli più che a una Costituzione 'civile' del clero a una Costituzione 'clericale' dello Stato: nel senso cioè che il potere civile avrebbe dovuto ammettere, specie nelle questioni morali o di principio, una stretta subordinazione del trono all'altare, o comunque della rivoluzione alla religione. Quando poi i vescovi giurati, spogliati del loro potere economico, si accorgeranno che la repubblica poteva benissimo fare a meno di loro, in quanto non si riconosceva alla chiesa cattolica (romana e gallicana) alcun vero ruolo politico-ideale, il passaggio nelle file dei conservatori per molti diverrà automatico. La compatibilità con i principi rivoluzionari non avrebbe certo potuto implicare, per costoro, la fine del protagonismo politico del cattolicesimo.
Anche un intelligente vescovo come Grégoire risentì di questa limitata impostazione del problema. La sua speranza era quella che si formasse un cittadino nel contempo democratico di fronte allo Stato e credente di fronte alla chiesa. Ma quando si renderà conto che per la rivoluzione le due identità potevano anche marciare separate, in quanto la fede -essa diceva- appartiene, nel migliore dei casi, alle mere opzioni di coscienza, la sua posizione muterà colore, benché sempre nei limiti della legalità.
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(1) Quanto forti fossero avvertiti, nell'ambito ecclesiale più progressista, i rapporti fra cattolicesimo e ortodossia, lo attestano due importanti contributi di Grégoire, assai poco noti al pubblico italiano: Progetto di una riunificazione della chiesa russa con la chiesa latina (1799) e Memorandum sui mezzi per giungere alla riunione delle chiese greca e latina (1814).
IL 10 AGOSTO E LA SCRISTIANIZZAZIONE
Caduto il trono, sembrava che l'ora del Quarto stato, cioè dei sanculotti fosse giunta. Ma il potere restava nelle mani di un partito della borghesia agiata: i girondini. Di fronte alla minaccia di un'occupazione straniera, di fronte alla possibilità concreta di costringere la borghesia ad accettare riforme più radicali e più coerenti con gli ideali rivoluzionari, qualsiasi tentativo di sottrarsi al proprio dovere di patriota e di cittadino democratico rischiava di passare per un atto controrivoluzionario. Se prima del 10 agosto 1792 l'atteggiamento del clero refrattario poteva in qualche modo essere giustificato, ora non può più esserlo. Gli stessi foglianti, che in parlamento rappresentano la destra, rivendicano la pace religiosa più che altro con intenti restaurativi.
Già il 17 ottobre 1791 l'Assemblea legislativa aveva deciso di chiudere le due grandi scuole di teologia, il collegio di Navarra e la Sorbona, i cui maestri, a maggioranza, avevano rifiutato il giuramento. Fouchet, vescovo costituzionale, richiese la soppressione di qualsiasi pensione e di qualsiasi trattamento economico per tutti i preti ostili al giuramento. Il 29 novembre l'Assemblea era stata costretta ad adottare misure d'urgenza per reprimere i tumulti provocati dai refrattari nei dipartimenti dell'ovest (ad Avignone era stato ucciso un rivoluzionario). Il decreto, cui il re oppose il veto, esigeva da tutti i preti un nuovo giuramento civico: in caso contrario sarebbero stati ritenuti "sospetti di rivolta contro la legge e di ribellione alla patria".
Era infatti inevitabile che il pericolo proveniente dalle regioni di frontiera portasse a supporre rapporti di collusione dei preti refrattari con la reazione europea, e le prove non mancavano. Quando poi la guerra con l'Austria evidenziò in un primo momento i forti limiti dell'esercito francesi, immediatamente venne lanciata l'accusa di 'tradimento'. Si diffuse così la voce che i refrattari, pur non parlando pubblicamente contro la Costituzione, lo facessero in privato, servendosi del confessionale: la propaganda di quest'ultimi, svolta soprattutto tra le famiglie contadine, si serviva dell'idea che i preti giurati erano scismatici, per cui i loro sacramenti non erano validi. La conseguenza fu che il 27 maggio 1792 l'Assemblea, che da Costituente s'era trasformata in Legislativa, autorizzò i direttori dipartimentali a deportare in Guyana, su domanda di 20 cittadini attivi o in seguito a una denuncia, ogni prete che non avesse giurato la Costituzione civile. Un provvedimento davvero pesante: chi più lo pretese, tra i vescovi presenti in aula, fu Claude Fouchet.
Dopo il crollo della monarchia, il 10 agosto, le repressioni si diffusero a macchia d'olio. Il 16 agosto, la Comune insurrezionale di Parigi (l'organo che determinò, in ultima istanza, la deposizione del re) proibì le processioni e ogni esteriorità di culto. Il 18 vengono sciolte le congregazioni maschili e femminili socialmente utili, che la Costituente aveva risparmiato, e si rinnova al clero il divieto di portare l'abito talare al di fuori dell'esercizio ministeriale. Il 26 l'Assemblea dà 15 giorni di tempo ai refrattari per abbandonare la Francia, minacciandoli di deportazione. Danton sostiene la necessità di adottare il sistema delle 'visite domiciliari' per requisire le armi e arrestare i traditori, preti o nobili che siano. Il 2 settembre, nel timore che i 'traditori della patria' possano organizzare -e già lo vanno facendo- una rivolta carceraria, approfittando della crisi generale della rivoluzione e in particolare della presenza prussiana a Verdun, vengono giustiziate circa 1.400 persone, fra cui più di 200 preti(1). Il 20 settembre la Convenzione, succeduta a un'Assemblea legislativa screditatasi con i tragici fatti del Campo di Marte, sancisce per le municipalità, dopo aver decretato la Repubblica, la laicizzazione dello stato civile e il divieto per i sacerdoti di tenere qualunque registro: battesimi, matrimoni e funerali religiosi non avrebbero più avuto alcun valore legale. Questa la prima vera tappa sulla via della separazione fra Stato e chiesa. Nello stesso giorno venne istituito il divorzio.
Per le esigenze della guerra si cominciarono a requisire le campane e le argenterie delle chiese anche ai preti costituzionali, i quali chiedendo di evitare una rigorosa applicazione della legge contro i refrattari e simpatizzando spesso per il federalismo, rischiavano di perdere le simpatie dei repubblicani. Significativa, a tale proposito, è una lettera del vescovo giurato Ch. de la Font de Savine, indirizzata ai ministro dell'Interno, Roland, ove si manifesta l'idea, assai lungimirante, che "anche la Costituzione civile del clero sta per finire. E' evidente che lo Stato, come conseguenza necessaria dei suoi principi, diventerà del tutto estraneo alle cose della religione; che lo stipendio attribuito ai ministri cattolici sarà considerato nient'altro che la corresponsione di una pensione e un indennizzo simbolico dei beni che possedevano; che le leggi di tolleranza totale sono incompatibili col privilegio di una spesa pubblica accordata esclusivamente ad una confessione, così come non avrà senso una regolamentazione della gerarchia determinata dalle leggi. La Convenzione abrogherà inevitabilmente questa Costituzione". Di qui la richiesta di non punire i vescovi che non l'avevano accettata. Ma il ministro dell'Interno non poteva, dopo il '10 agosto', permettersi il lusso di entrare nel merito di queste pur giuste osservazioni, per cui intimò al vescovo, con una risposta molto secca e burocratica, di continuare a vigilare sull'applicazione della legge. In pratica la chiesa costituzionale era diventata una mera appendice funzionale dello Stato. Essa stessa, d'altra parte, aveva contribuito a questa sua progressiva involuzione ostacolando la laicizzazione della società civile.
Impossibilitati a ottenere con la forza dei decreti una chiesa fedele a uno Stato progressista, i costituenti cercavano ora di costringerla con la forza delle armi. 30.000 ecclesiastici scelsero la strada dell'emigrazione, soprattutto verso l'Inghilterra e gli stati pontifici, ove l'accoglienza era migliore, sebbene nei territori della chiesa venisse loro imposto un giuramento di obbedienza alle bolle papali contro giansenismo e gallicanesimo. Correnti quest'ultime per le quali invece la Spagna, a differenza dell'Austria, impedì loro di dedicarsi a qualunque attività religiosa, tranne la celebrazione della messa. In Svizzera e in Germania gli esuli vivranno in ristrettezze, mentre addirittura dall'Olanda e dal Belgio saranno cacciati dopo l'occupazione francese.
Purtroppo la rivoluzione ancora non era in grado di distinguere il cittadino dal credente: se prima del 10 agosto non era riuscita a farlo, dopo, con l'eversione in atto da affrontare, non si poteva neanche immaginarlo. Al contrario, essa cercava d'imporre alla coscienza dei cattolici un'immagine di 'cittadino-credente' conforme agli ideali rivoluzionari, alla volontà del governo. Non riuscendo a delimitare la partecipazione di tutti i credenti (cattolici e riformati, giurati e refrattari) alle questioni più strettamente sociali ed economiche, la rivoluzione inevitabilmente si sentiva indotta ad estendere le sue competenze anche alle questioni che più da vicino riguardavano l'ideologia religiosa (come ad es. il matrimonio dei preti). Se a questo si aggiunge -come vuole D. Guérin- che la borghesia, inizialmente, si servì del terrore per bloccare il potenziale rivoluzionario del proletariato lanciandolo contro il clero, si comprende in definitiva perché lo Stato, convinto della giustezza dei suoi principi, finisse con l'obbligare la chiesa non solo a rispettare le leggi ma anche a modificare le proprie. Cioè si comprende perché da un lato i costituenti subordinavano la politica alla loro ideologia, mentre dall'altro impedivano alla società di esprimere ideologie diverse: il che peraltro contraddiceva al dettato della Dichiarazione dei diritti, secondo cui "Nessuno può essere perseguitato per le sue opinioni, anche religiose".
La Convenzione puntò tutte le sue carte sulla realizzazione del fine strategico e dimenticò i fini intermedi, quelli che si ottengono con la tattica. Quando poi si ha la pretesa di realizzare determinati obiettivi senza l'appoggio sicuro e concreto delle masse; quando la crisi economica invece di risolversi si acuisce, ecco che forze controrivoluzionarie (in questo caso i preti refrattari) possono facilmente sfruttare i sentimenti religiosi della gente meno cosciente e più marginale, convogliandoli verso una protesta sociale e politica destabilizzante. Fu appunto questo il caso della rivolta in Vandea, dove -come disse il vescovo costituzionale Grégoire- "preti scellerati in nome del cielo predicano il massacro".
Scoppiata nel marzo 1793, prendendo a pretesto il rifiuto della coscrizione obbligatoria per fronteggiare l'offensiva austro-prussiana, questa insurrezione, in cui vennero coinvolti popolani dalla mentalità rozza e primitiva ma con esigenze reali di democratizzazione, e che trovò un certo seguito in altre regioni occidentali della Francia, dimostrò assai chiaramente come provvedimenti giusti, privi di consenso popolare sufficientemente vasto, possono ben presto trasformarsi in azioni sbagliate e controproducenti. Tanto che ancora oggi la storiografia cattolica vede in questa guerra civile il paradigma del vero contenuto dei rapporti che la rivoluzione voleva stabilire con la religione. Lo storico P. Chaunu l'ha paragonata a un genocidio di tipo 'nazista' e, come lui, altri storici hanno espresso giudizi fortemente negativi (ad es. R. Secher, C. Tilly, J. Huguet, J.C. Martin, R. Dupuy). Partendo da pregiudizi antirivoluzionari, è senza dubbio difficile accettare l'idea che durante una rivoluzione possano essere compiuti degli abusi (in questo caso peraltro i motivi erano gravissimi) e che in tali abusi la ragione non stia tutta dalla parte di chi li subisce (come noto la guerra civile scoppiò quando all'arruolamento coatto i contadini inferociti di Machecoul risposero massacrando centinaia di patrioti repubblicani).E comunque sostenere che proprio in nome di questi abusi la rivoluzione non andava fatta, significa sconfessare non uno ma tutti gli ideali che l'hanno generata, significa cioè mettersi dalla parte di chi, ancora oggi, non vuole alcun mutamento sociale e politico.
La dura repressione subita in questo frangente dai refrattari, ha potuto facilmente offrire allo storico Mezzadri (più 'prete' che 'storico' in verità) l'occasione per sostenere che i 374 'martiri' finora riconosciuti e gli altri 500 in corso di beatificazione(2) "rinnovano le pagine epiche del cristianesimo primitivo", proprio quello stesso cristianesimo che anche i costituzionali erano convinti di rinnovare! A dispetto di una qualunque indagine storica che sia un po' seria, la storiografia cattolica non ha scrupoli nel mettere sullo stesso piano cristiani progressisti e conservatori, governi rivoluzionari e reazionari. Questo perchè rifiuta categoricamente di vedere in tale esplosione di protesta motivi di carattere socio-economico. Sia come sia, "l'insurrezione della Vandea - ha scritto Soboul- costituì la manifestazione più pericolosa di tutte le resistenze incontrate dalla rivoluzione e del malcontento delle masse contadine". Essa contribuì fortemente ad accelerare la caduta della Gironda.
Una settimana dopo lo scoppio di questa rivolta integralista e filo-monarchica, il governo girondino aveva decretato che i refrattari rimasti in patria sarebbero stati giudicati da un tribunale militare e condannati a morte nel giro di 24 ore. Ma ormai la Gironda non era più in grado di scongiurare i pericoli che minacciavano il paese (sconfitte militari in Belgio e sul Reno, scarsità di viveri, moneta svalutata, disoccupazione in ascesa). I girondini gridavano alla dittatura ma, sotto la spinta della pressione popolare, il potere venne preso dai montagnardi, espressione della piccola borghesia commerciale e artigiana (giugno 1793).
I compiti che il nuovo governo dovette affrontare erano enormi: alla rivolta vandeana s'era aggiunta quella federalista(3) e l'invasione straniera, per non parlare della crisi economica che continuava a peggiorare. Arrabbiati, hébertisti e giacobini si misero quasi subito ad accusare i montagnardi di scarsa sensibilità per le necessità dei sanculotti (il popolo minuto). Dopo pochi mesi infatti, le forti esigenze economiche portarono quest'ultimi al trionfo politico e al tentativo di organizzare una dittatura giacobina di salute pubblica. Nasce così il Terrore e all'interno di questa campagna si scatena un processo di scristianizzazione che dilaga in tutto il paese. Principale fautore dell'iniziativa fu P.G. Chaumette, del partito hébertista.
La scristianizzazione fu determinata non solo dalle profonde radici anticlericali sottese alla politica religiosa che il governo rivoluzionari aveva manifestato sin dallo scisma della chiesa costituzionale, ma anche dal desiderio dei sanculotti di por fine una volta per sempre (con metodi senza dubbio discutibili ma temporaneamente efficaci) alle mire controrivoluzionarie dei refrattari e allo schieramento moderato di molti costituzionali favorevoli alla Gironda e al federalismo. Nel contempo emergevano esigenze di ordine pratico, come la ricerca dei metalli preziosi per sostenere gli assegnati e del bronzo delle campane per costruire cannoni. Va detto inoltre che si stava facendo sempre più strada la volontà di organizzare una sorta di 'culto civico', puramente laico, la cui festa dell'Unità e Indivisibilità del 10 agosto 1793 sarebbe stato l'esempio più significativo, prima della proposta di Robespierre d'istituire il culto dell'Essere Supremo.
Se almeno su un aspetto borghesia rivoluzionaria e avanguardia popolare andavano d'accordo era senz'altro questo: la declericalizzazione della vita quotidiana. Forse anzi si può dire che buona parte dei rivoluzionari (incluso Robespierre) si illuse di poter risolvere i molti problemi sociali di quel tempo cercando una convergenza ideale fra borghesia e sanculotti sul terreno dell'anticlericalismo
La scristianizzazione vera e propria si affermò all'inizio nei dipartimenti, sotto la spinta di alcuni rappresentanti della Convenzione, mandati in missione speciale nelle province in rivolta, ma la Convenzione non fece nulla per impedirla o circoscriverla. La storiografia cattolica è solita dire che la scristianizzazione fu opera soprattutto delle frange estremiste della borghesia, che volevano offrire un diversivo al proletariato nei confronti del quale non riuscivano a garantire le riforme richieste e promesse. Tale giudizio è senz'altro parziale e riduttivo, sia perché non si tiene conto dell'effettivo pericolo causato alla nazione dalla lotta eversiva dei preti refrattari a fianco dei nobili e dei monarchici, sia perché non si considera che uno spirito ideologico fortemente anticlericale caratterizzava i rivoluzionari nella loro globalità, tanto che -e lo vedremo- la reazione termidoriana non sarà, agli inizi, meno intollerante della dittatura giacobina in materia di libertà religiosa. Considerato però astrattamente, il giudizio pesca nel vero, e lo dimostra il fatto che di lì a poco lo stesso Robespierre si renderà conto che la forte campagna anticristiana rischiava di conseguire un effetto opposto a quello voluto, e cioè un ulteriore progresso della resistenza cattolica conservatrice, fino allo sbocco controrivoluzionario registratosi in Vandea.
In sostanza, di quale campagna si trattò? Anzitutto si decise, nell'ottobre 1793, l'adozione del calendario rivoluzionario, che divideva il mese in tre decadi, facendo partire l'anno dal 22 settembre 1792, cioè dal giorno successivo alla proclamazione della repubblica; in secondo luogo, si sostituirono, con feste civiche e con il culto dei martiri della libertà (il primo dei quali era Marat(4)), il tradizionale culto dei santi e le feste religiose del calendario gregoriano. Ciò implicava, per la Convenzione, l'eliminazione di tutte le insegne religiose che si trovavano sulle strade, nelle piazze e nei luoghi pubblici, nonché la sostituzione di tutti i nomi, comuni e propri, che ricordassero le tradizioni cristiane, e la sconsacrazione di tutti gli edifici di culto (a volte in verità anche la loro distruzione, tanto che il vescovo Grégoire si sentì in dovere di protestare vivacemente: a lui peraltro si deve il neologismo di 'vandalismo').
Oltre a ciò, si recepì positivamente la sentenza di un tribunale del distretto di Langeais, che imponeva a un prete giurato di celebrare il sacramento del matrimonio a un prete già sposato in civile (11 settembre 1793). Il tribunale - si legge in essa- considerava "immorale e impolitico consentire ai ministri del culto cattolico di rifiutare arbitrariamente la consacrazione del matrimonio -soprattutto ai preti che si sposano- col pretesto che il matrimonio è incompatibile con l'ordine". Detto altrimenti: "I ministri religiosi non debbono porsi come giudici della verità della professione di chi si dice appartenente alla loro confessione". Il che in pratica significava che la chiesa costituzionale doveva sentirsi costretta a celebrare le nozze anche ai sacerdoti, ai religiosi e ai divorziati che, pur privi di alcuna dispensa, lo richiedessero. Disposizione, questa, che, a giudizio del Rops, portava dritta dritta al "crollo delle fondamenta della società cristiana"!
Non è però assolutamente vero -come vuole Dansette- che "la rivoluzione sottomise lo spirituale al temporale, mentre l'antico regime conformava il temporale allo spirituale". La sottomissione e la conformazione dell'uno all'altro erano praticate da entrambi i regimi: la differenza stava nel fatto che la rivoluzione era progressista e l'ancien régime conservatore (ad es. quest'ultimo considerava il divieto del divorzio valido anche per lo stato civile, quella invece pretendeva di autorizzare il divorzio anche per lo stato religioso). Gli eventi successivi alla rivoluzione si sono poi incaricati di dimostrare che una sottomissione e una conformazione di questo genere, neppure il regime politico più progressista è in grado di giustificarle.
Ma forse l'iniziativa più interessante, in questo periodo, sul piano dei riti rivoluzionari, fu quella d'istituire il culto della Ragione, che è una conseguenza dell'operazione dello 'spretamento'. L'idea, promossa dai circoli giacobini e dalla comune di Parigi (in particolare da Hébert, J.B. Cloots, barone renano di origine olandese, e Pereira, ebreo portoghese di Amsterdam), avrebbe dovuto, stando al progetto originario, tenere uniti i credenti di ogni confessione in un minimo di fede deista. Tuttavia, quelli che la misero in pratica (soprattutto Chaumette) le impressero una forma nettamente ateista, col proposito di liquidare la chiesa costituzionale, tanto che ad un certo punto gli edifici ecclesiastici vennero trasformati in templi della dea Ragione e della Libertà, e si propose la fine delle sovvenzioni statali al clero. "Non ci sono più preti, non ci sono più dèi all'infuori di quelli che la natura ci offre", così Chaumette giustificava l'iniziativa. Questi giacobini estremisti emanarono una serie di decreti coi quali si intimava a tutti i chierici di abiurare al loro sacerdozio.
L'arcivescovo di Parigi, J.B. Gobel, diede l'esempio di questa solenne apostasia, pronunciando un famoso discorso alle Tuileries. Per chi, come lui, aveva seguito con passione e avvedutezza (con 'opportunismo', direbbe lo storico cattolico) le vicende rivoluzionarie sin dalle prime battute, mantenendosi disponibile a rivedere le proprie posizioni teoriche e politiche, l'abiura del cattolicesimo appariva come una logica e naturale conseguenza. "Ora che la libertà avanza a grandi passi -egli disse-, ora che non deve esistere altro culto nazionale che quello della libertà e dell'uguaglianza, io rinuncio alle funzioni di ministro del culto cattolico". Al che il presidente dell'Assemblea rispose che ora i ministri non dovevano avere altro desiderio "che quello di predicare la pratica delle virtù sociali e morali". Una convinzione, questa, senza dubbio degna di rilievo, ma patrimonio purtroppo solo di una ristretta minoranza di intellettuali progressisti (gli abdicatari furono tra i 10 e i 20.000), la cui fretta di volerla imporre alla nazione intera non poteva portare che a risultati disastrosi. Lo stesso Gobel, che pur in carcere ritratterà l'abiura, finirà coinvolto e vittima di questa intransigenza ideologica in occasione del processo per 'empietà' e 'ateismo' a Chaumette.
In una seduta del club giacobino, Robespierre accusò gli hébertisti d'essere "assoldati dalle corti straniere per risvegliare il fanatismo". Sulla base di una sua proposta la Convenzione decretò nuovamente il 6 dicembre 1793 la libertà dei culti, riservandosi il diritto di colpire "tutti coloro che tentassero di abusare del pretesto della religione per compromettere la causa della libertà". Ma pochi giorni dopo essa affermò di non voler porre rimedio alle misure prese in precedenza, per cui la scristianizzazione continuerà almeno sino al 7 maggio 1794, allorché la Convenzione deciderà di adottare il culto dell'Essere Supremo. La libertà dei culti, questa volta, verrà affermata solennemente, con la riserva, legittima, che "ogni riunione contraria all'ordine pubblico sarà repressa". L'adozione di questo nuovo culto, conforme alla filosofia rousseauviana del leader giacobino, marciò di pari passo con le vittorie della rivoluzione sul movimento federalista, vandeano e straniero. Questo fu il momento migliore della rivoluzione, ma anche quello più breve.
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(1) Di queste vittime, molte delle quali avevano preannunciato il replay della notte di s.Bartolomeo contro i rivoluzionari, 121 sono state beatificate nel 1926.
(2) Per riconoscere la 'gloria del martirio', occorre accertare i due elementi essenziali: l'odium fidei e l'accettazione della morte per motivi riconducibili alla fede.
(3) Insurrezione borghese filo-girondina scoppiata per motivi politici ed economici a Lione, Tolone e in 60 dipartimenti.
(4) Marat viene considerato dallo storico Rogier, nell'opera già citata, un "pericoloso psicopatico", Chaumette un "degenerato", Gobel un "servile", Robespierre un "nevrotico", Hèbert un "sadico e crudele"...Ce n'è insomma per tutti!
LA CONTRORIVOLUZIONE TERMIDORIANA E IL CONCORDATO DI NAPOLEONE
Robespierre, forte del suo realismo politico, volle garantita la libertà religiosa nella misura in cui l'associazione dei cittadini a scopo di culto non costituisse il pretesto per dar vita a un'opposizione politica ai decreti della Convenzione. Egli tuttavia era ben lontano dall'immaginare un regime di separazione fra Stato e chiesa. Nella sua concezione di Stato, il governo era totalmente libero di servirsi di strumenti politici per intromettersi nella gestione interna delle varie confessioni religiose (specie la cattolica), modificandone eventualmente anche i dogmi o la prassi. Giustamente però egli riteneva impraticabile l'idea di Hébert e Chaumette di imporre l'ateismo (cioè il culto della Ragione) in modo politico. A suo parere, il popolo, ancora troppo religioso, aveva bisogno di credere in un dio, seppure un dio diverso, più tollerante rispetto a quello del cattolicesimo tradizionale (era il principio: la religione per il popolo, la filosofia per gli intellettuali, che troverà molta fortuna nel secolo successivo, fino all'idealismo di Croce e Gentile). Peraltro Robespierre era ideologicamente lontano dal materialismo ateo di Helvetius e Holbach. Il suo merito sta nell'aver capito che la religione non può essere eliminata in modo politico o amministrativo; il suo torto nell'aver creduto che si potesse farlo creando semplicemente un'alternativa 'spiritualistica' sul terreno ideologico, culturale e rituale, senza tener conto di quali condizionamenti sociali ed economici alimentano un fenomeno come quello della religione.
Istituito con decreto statale il 7 maggio 1794, il culto nazionale dell'Essere Supremo, che voleva dirsi civico ma che era squisitamente 'religioso', in quanto ufficializzava il deismo panteista e razionalista di molti filosofi illuministi, attirò a Robespierre le inimicizie dei partigiani della scristianizzazione violenta e dei fautori dello Stato laico, e non gli valse la fiducia dell'alto clero costituzionale, che non amava la 'concorrenza', né tanto meno di quello refrattario, ostile a qualunque culto legato alla Repubblica. Il successo tuttavia fu notevole fra il popolo, naturalmente anche in virtù degli obiettivi che la dittatura giacobina era riuscita a conseguire dalla metà del '93 alla metà del '94. Con il decisivo appoggio dei sanculotti, che "tendevano, seppure in modo confuso, verso l'istituzione della democrazia diretta"(Soboul), essa potè distruggere il feudalesimo come nessun'altra forza politica era riuscita a fare, stroncando la resistenza dei nemici interni ed esterni.
Ma il peggio doveva ancora venire. La borghesia, piegatasi al dominio dei giacobini solo perchè questi, nella lotta contro la reazione feudale fruivano di vasti appoggi popolari, cercò con ogni mezzo e modo, quando l'esito della battaglia fu sicuro, di sbarazzarsi dello scomodo alleato e soprattutto delle sue pretese di 'dirigere' l'economia. Purtroppo i giacobini, incapaci di venire incontro, una volta conquistato il potere, alle esigenze degli strati più poveri delle città e delle campagne (si pensi p. es. ai contadini che non riuscivano ad acquistare le terre vendute all'incanto), cominciarono a perdere sempre più prestigio e credibilità. Il club dei cordiglieri, diretto dagli hébertisti, intensificò le accuse contro l'attività del Comitato di salute pubblica. I giacobini, rifiutando qualunque critica e autocritica, risposero facendo giustiziare Hébert e molti suoi seguaci. Grande fu lo scontento nella capitale: gli hébertisti erano sì estremisti (lo si era visto durante la scristianizzazione) ma nessuno poteva negare loro un certo ascendente sulle masse, specie quelle della capitale (la Comune insurrezionale era stata infatti guidata da Marat, Hébert e Chaumette). I giacobini ghigliottinarono anche Danton e i capi della sua fazione che su posizioni di destra volevano dividere il partito. Praticamente tutte le forme di opposizione palese al governo rivoluzionario erano finite.
Questo atteggiamento autoritario fece maturare l'esigenza di organizzare una nuova congiura antigovernativa all'inizio del luglio 1794. Robespierre venne accusato dai seguaci di Danton e di Hébert scampati al massacro e da altri deputati della Convenzione, d'essere un dittatore e di alimentare il culto della sua personalità. Il 27 luglio la congiura si trasformò in un colpo di stato controrivoluzionario (chiamato dagli storici 'termidoriano' dal nome del mese di luglio mutato in 'termidoro', secondo il calendario repubblicano). Il giorno dopo, nonostante l'opposizione della Comune di Parigi, si riuscì a condannare a morte i dirigenti del governo giacobino (fra cui Saint-Just e lo stesso Robespierre), senza alcuna forma di processo. La rivoluzione era praticamente finita.
Eliminato il governo rivoluzionario, i termidoriani, che esprimevano gli interessi della borghesia più ricca, diedero inizio al terrore 'bianco', smantellando progressivamente molte leggi e istituzioni favorevoli al popolo. Sul piano religioso la Convenzione, nelle persone soprattutto di Fouché, Fréron e Tallien, riuscì ad ottenere ciò che i governi precedenti non avevano mai osato rischiare: la completa laicizzazione dello Stato, ovvero l'effettiva uguaglianza di tutte le religioni. Infatti, per ragioni economiche si soppresse il bilancio della chiesa giurata: "La Repubblica francese -si disse- non paga più spese né salari di alcun culto"(18 settembre 1794). In tal modo la Costituzione civile del clero perdeva la sua ragion d'essere e veniva affermata la separazione di Stato e chiesa. Il governo vietò anche il culto dell'Essere Supremo, ritenuto 'filo-cattolico', e autorizzò solo quello decadario.
Gli storici cattolici rifiutano, in genere, di considerare questo provvedimento come un atto anticipatore della separazione fra Stato e chiesa, in quanto -essi precisano- ogni culto doveva rimanere interdetto per la Convenzione. In realtà, sia il governo giacobino sia quello termidoriano, più che abolire tout-court i culti religiosi della nazione (compito che nessun governo al mondo potrebbe permettersi), miravano a istituirne uno condivisibile da tutti i francesi. In tal senso, se eccessi vi furono, ciò dipese dalla stretta dipendenza della politica governativa dall'ideologia, in materia di atteggiamento verso la religione. Una dipendenza che si faceva più sentire ogni volta che nella società civile emergevano tendenze clericali antirivoluzionarie. Senza queste tendenze non si sarebbe verificata alcuna scristianizzazione, ma semmai la convivenza, problematica ma non impossibile, fra un culto pubblico obbligatorio e uno o più culti privati facoltativi.
"Le misure contro i preti refrattari -ha scritto Soboul- rimasero in vigore e le chiese chiuse. Tuttavia, man mano che la reazione andava affermandosi, molti francesi rimpiangevano le antiche cerimonie religiose e i fedeli giunsero a reclamare l'apertura delle chiese. Il culto civico, troppo intellettuale ed ora spogliato di ogni carattere patriottico e democratico, non poteva più infervorare i sanculotti". E così, poche settimane dopo la caduta di Robespierre, in numerosi punti della Francia si ricominciò a celebrare la messa, si riaprirono i vecchi oratori, si videro affluire nelle province di frontiera dei preti emigrati. Tuttavia in molte altre province e soprattutto a Parigi si continuava a ghigliottinare, benché le amministrazioni non mettessero più lo zelo di prima nell'applicare i provvedimenti di scristianizzazione. Il recupero della libertà religiosa tardava dunque a farsi strada.
Quando il vescovo costituzionale deputato alla Convenzione, H.B. Grégoire, propose, il 21 dicembre 1794, un decreto che sancisse la piena libertà di culto, in conformità alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo, non riuscì neppure a finire il suo discorso. "Declamare continuamente contro gli ecclesiastici - affermò il prelato-, anziché legarli alla repubblica per mezzo dell'uguaglianza dei diritti, è un errore.[...]Un'opinione cede ai lampi dei lumi, mai alla violenza.[...]Si può esigere dai membri della compagine sociale altro dovere che quello di essere un buon cittadino?[...]Il governo non deve adottare, e ancor meno salariare, alcun culto, sebbene debba riconoscere a ciascun individuo il diritto di professare il suo. Il governo non può rifiutare protezione né accordare privilegi a nessuna confessione religiosa.[...]Deve tenere tutte le confessioni nel loro giusto equilibrio, impedendo che qualunque culto venga turbato e che esso turbi l'ordine pubblico.[...]Che nessuna religione pretenda abusivamente al titolo di dominante".
Dice ancora Grégoire, con grande acume e spirito critico, anticipando una tematica che nella sua interezza verrà ripresa solo dalle rivoluzioni socialiste: "Sarebbe necessario mettere al bando una religione intollerante, che non ammettesse la sovranità nazionale, l'uguaglianza, la libertà, la fratellanza...; ma dal momento in cui appare evidente che nessun culto ferisce questi principi, e dal momento in cui tutti coloro che lo professano, giurano fedeltà ai dogmi politici, che un individuo sia battezzato o circonciso, che adori Allah o Jehova, tutto questo è al di fuori dell'ambito della politica". Il vescovo concluse osservando che i più gravi pericoli per lo Stato non sono i culti religiosi, bensì la superstizione e il fanatismo. (Detto altrimenti: una religione non è contraria al governo rivoluzionario solo perché è una religione. L'atteggiamento controrivoluzionario va dimostrato.) A questo naturalmente i deputati potevano obiettare che i cattolici avevano dato prova, a più riprese, d'essere alquanto ostili al governo repubblicano, ma la proposta del vescovo era appunto quella di bandìre l'anticlericalismo ad oltranza, permettendo così ai cattolici un'adesione più spontanea alle leggi dello Stato.
Dette da un 'vescovo' queste cose oggi ci appaiono davvero singolari, dette poi da un vescovo 'cattolico' addirittura strabilianti. Immaginiamoci -se una tale posizione risultava così fastidiosa alle orecchie di quei deputati- quale grande attaccamento dovesse avere la borghesia per le idee anticlericali, deiste o agnostiche o atee dei philosophes ed enciclopedisti. Se vogliamo, proprio in questa esigenza di anteporre a tutto l'ideologia stava uno dei maggiori limiti della rivoluzione. Ci piace però qui ricordare che alla morte di Grégoire, il 28 maggio 1831, Santo Domingo ed Haiti proclamarono il lutto nazionale, alla memoria dell'"amico degli uomini di ogni colore". Grazie a lui infatti si emanò nel 1794 il decreto sull'abolizione della schiavitù, "senza contropartita né riscatto". Nel 1950 Ho Chi Minh rese omaggio ufficiale a questo "apostolo della libertà dei popoli", che la maggior parte degli storici cattolici continua a considerare con disprezzo come un 'giacobino regicida'.
Col passare del tempo, per poter tutelare efficacemente gli interessi della grande borghesia, il nuovo governo si vide costretto a scegliere la strada del compromesso. Dalla tribuna della Convenzione, Boissy d'Anglas, nonostante accusi i preti "d'instupidire la specie umana", riconosce che è inutile "pretendere d'estirpare l'errore con la violenza". Di lì a poco infatti si deciderà di concedere ai ribelli della Vandea la libertà di culto, il diritto di scegliere i loro preti anche fra gli emigrati e la facoltà di tenere una 'guardia territoriale' locale. Il documento che sancì una certa tolleranza nei confronti delle diverse confessioni fu il trattato di Jaunaye del 17 febbraio 1795, in cui si dichiarava: 1) "ogni individuo e ogni sezione di cittadini possono esercitare liberamente e pacificamente il culto", e 2) "gli individui e i ministri di ogni culto non potranno essere disturbati, inquietati né ricercati a motivo dell'esercizio libero, pacifico e non pubblico del loro culto". Il culto privato -come noto- implicava che lo si tenesse non nelle chiese ufficiali, che erano state trasformate in 'templi dello Stato' per il culto decadario, ma in altri luoghi gestiti a proprie spese, e che l'uso degli abiti religiosi, delle campane, ecc. restasse vietato, inoltre che i sacerdoti prestassero il giuramento del 14 luglio 1792 alla libertà e all'uguaglianza.
Paradossalmente, mentre al tempo della dittatura giacobina si negava la libertà di culto per difendere gli ideali rivoluzionari (cioè si faceva una cosa giusta in un modo sbagliato), ora invece i termidoriani concedono, seppur limitatamente, questa libertà, ma solo per difendere degli ideali reazionari. La borghesia infatti non voleva rinunciare alla propria ideologia anticlericale, né voleva perdere il suo potere politico sulla chiesa, ma allo stesso tempo non voleva lasciarsi coinvolgere in una guerra di religione; anzi, se possibile, voleva cercare di riguadagnarsi la fiducia del clero cattolico, da utilizzarsi, eventualmente, contro gli interessi sociali e materiali delle masse. Questa esigenza diventava tanto più forte quanto più cresceva l'opposizione popolare al nuovo regime.
Nella primavera del 1795 i lavoratori di Parigi insorsero due volte contro la politica antidemocratica del governo, ma senza conseguire successi. I termidoriani non solo ebbero la meglio in politica interna, ma anche in quella estera, ottenendo grandi vittorie militari. Furono proprio loro che ereditarono i risultati dell'immenso lavoro del governo giacobino. La Convenzione termidoriana seppe anche impedire la restaurazione del feudalesimo e della monarchia. Promulgò una Costituzione assai conservatrice, ma imperniata sul rafforzamento delle istituzioni repubblicane. Sul piano dei rapporti fra Stato e chiesa faticava alquanto a farsi strada una separazione rigorosa, a livello ideologico, della politica dalla religione. La tesi del vescovo Grégoire secondo cui un cattolico può essere un buon credente di fronte alla chiesa e, nel contempo un buon cittadino di fronte allo Stato, continuava a essere vista con sospetto.
E l'Enciclica di diversi vescovi di Francia agli altri vescovi loro fratelli e alle chiese vacanti del 15 marzo 1795, offriva ai dubbi delle buone motivazioni. E' vero che con essa i costituzionali riconoscevano "che il governo della chiesa riguarda lo spirituale e non può estendersi né direttamente né indirettamente [qui il riferimento è alla teoria del Bellarmino] sopra il temporale" e che "le religione non gode più in Francia di uno status politico". Ma è anche vero che i vescovi firmatari (fra cui il Grégoire) volevano riprendere i rapporti con lo stato pontificio, cioè con una delle espressioni più retrive di tutta l'Europa feudale, pur ribadendo -è bene ricordarlo- il valore dei quattro Articoli gallicani votati dall'assemblea del clero nel 1682(1).
In effetti, a parole i vescovi giurati ostentavano approvazione per le misure adottate dalla rivoluzione riguardo alla gestione amministrativa della chiesa (elezione del clero, collegialità della diocesi, ecc.), ma nei fatti la loro unica preoccupazione era quella di riportare la chiesa francese nell'alveo ideologico del cattolicesimo tradizionale, soprattutto sul piano etico e disciplinare. Di qui le forti accuse che nell'enciclica di muovono contro quei ministri che avevano condiviso le leggi sul divorzio e sul matrimonio dei preti. Si trattava in sostanza di una lettera ideologicamente refrattaria che voleva apparire politicamente costituzionale. Molti addirittura chiedevano un esplicito ritorno all'obbedienza 'romana': lo attesta ad es. un rapporto indirizzato al papa dal moderato Emery, superiore del seminario di s.Sulpizio (13 ottobre 1795).
Ancor meno rassicurante era l'atteggiamento con cui il clero refrattario aveva accolto il decreto del 30 maggio 1795, che autorizzava l'uso degli edifici religiosi, indifferentemente, ai diversi culti: costituzionale, refrattario e decadario, alla sola condizione di rispettare tutte le leggi della repubblica. Come Grégoire aveva previsto, la maggior parte dei preti refrattari, appoggiati dai vescovi emigrati e dal re "in esilio" Luigi XVIII, rifiutò il nuovo giuramento, giungendo persino a diffondere false lettere di Pio VI per giustificare tale decisione. Cosa che indusse la Convenzione a proibire agli ecclesiastici di leggere nelle chiese lettere provenienti da persone residenti fuori della Francia.
Con la nuova Costituzione, entrata in vigore nel novembre 1795, il potere esecutivo passò nelle mani del Direttorio, permettendo alla borghesia piena libertà economica. "L'orgia borghese del Direttorio" -come la chiamava Marx-, con la sua sfrenata speculazione e l'aggiotaggio, garantì enormi profitti ai ceti più agiati. Le contraddizioni antagonistiche divennero così profonde che questa volta la ribellione delle masse assunse caratteri para-socialisti. Infatti, la Congiura degli eguali, capeggiata da Babeuf, si pose come obiettivo fondamentale, per la prima volta nella storia della Francia, l'abolizione della proprietà privata. Il pericolo fu talmente grande che il Direttorio cercò sostegni politici a destra e a sinistra.
Inevitabilmente mutò anche il suo rapporto nei confronti dei cattolici: in primo luogo con i refrattari, ai quali volle garantire l'abrograzione della legge sulla deportazione e promettere il ritorno ad un regime di piena libertà religiosa. L'uso strumentale della religione per fini controrivoluzionari era evidente. Lo stesso papato si piegava facilmente a tale necessità: lo testimonia il breve Sollicitudo (8 giugno 1796), con cui si esortano i cattolici francesi a una docile sottomissione al governo. Ma altrettanto evidente era la debolezza del Direttorio, che alla fine del '96 si vide costretto ad abrogare tutta la legislazione contro i preti refrattari (ad es. la legge del 24 agosto 1797 accordò ai preti giurati e refrattari la piena libertà di esercitare il proprio ministero, abolendo tutti i giuramenti e consentendo anche qualche manifestazione esteriore di culto).
La situazione sarebbe precipitata nel caos più totale, a vantaggio delle forze restauratrici e filo-monarchiche sempre presenti, se il Direttorio non si fosse deciso per un colpo di stato militare nel fruttidoro 1797. Tra i cattolici, i refrattari incitavano alla diserzione i figli dei loro seguaci, a non pagare le tasse, a cacciare i preti costituzionali, a disobbedire al giuramento del 29 settembre 1795 di sottomissione alle leggi della repubblica. Il generale repubblicano Clarke, mandato dal Direttorio in missione in Italia, scrisse in un rapporto del 1796: "siamo arrivati al punto di aver bisogno dello stesso papa per ottenere che da noi la rivoluzione sia assecondata dai preti e dalle campagne che essi sono riusciti a governare di nuovo". La tendenza integralista di destra, che ancora oggi sussiste nei gruppi che fanno capo al vescovo Lefebvre, prese il nome di "Piccole chiese".
In materia di religione, i provvedimenti del nuovo Direttorio furono molto severi: ripristinata la legge sulla deportazione, si pretese da tutto il clero un giuramento di "odio alla monarchia". In pratica non si chiedeva più di 'credere' nell'ideologia della classe borghese, ma solo di rifiutare politicamente il vecchio regime borbonico. Singolare è il fatto che ai preti che ostentavano un finto imbarazzo di fronte all'idea di provare sentimenti di 'odio' per i parassiti e sfruttatori della casa reale, persino i vescovi d'ancien régime rimasti in Francia assicuravano che il giuramento aveva il semplice significato di dichiarare la volontà di vivere conformemente alle leggi repubblicane. Viceversa, i vescovi dell'emigrazione si affrettarono a proibirlo con molta risolutezza, offrendo ai refrattari più intransigenti -definiti ormai dal governo col termine di 'ribelli'- ulteriori pretesti per svolgere attività eversiva (nell'aprile 1799, ad es., diffusero la falsa notizia che Pio VI aveva dichiarato illecito il giuramento. Oltre a ciò risposavano e ribattezzavano i parrocchiani dei costituzionali, lanciando anatemi contro gli acquirenti dei beni nazionali).
Più diplomatica invece, la Santa sede mirava ad appoggiare i refrattari concilianti, detti 'sottomessi', avendo compreso che col regime del Direttorio era più facile dialogare che col governo giacobino. La politica di tolleranza, in effetti, avrà la meglio: la maggioranza degli ecclesiastici prestò il giuramento di sottomissione. Bisognerà tuttavia -osserva Dansette- che "Bonaparte tolga ai ribelli i loro argomenti domando i fanatici dell'irreligione e imponendo la pace religiosa, perché i cattolici moderati trionfino di nuovo e questa volta per lungo tempo".
Nei riguardi della chiesa costituzionale, ormai moribonda (ha già perduto i 3/4 del suo episcopato e la grande maggioranza dei preti), il regime, nel complesso, tenne un atteggiamento poco costruttivo: il culto non era perseguitato, ma restava spogliato di ogni carattere di ufficialità e non disponeva di sovvenzioni statali. L'arcivescovo Grégoire riunì a Parigi un concilio per giungere a un accordo con i refrattari e con Roma (da notare che nel decreto di pacificazione, mal visto dal governo, si rinunciava definitivamente alla Costituzione civile del clero). Ma la controparte esigeva un 'pentitismo' senza condizioni: in particolare essa chiedeva il riconoscimento del primato giurisdizionale del papato, su cui invece i costituzionali non transigevano, limitandosi a quello morale o di onore(2).
In tale quadro, ove gli interessi strumentali della borghesia, che vorrebbe servirsi della religione per controllare le masse, si scontravano con le rivendicazioni ecclesiastiche di autonomia politica, facilmente si finiva col creare situazioni incerte e contraddittorie. Indubbiamente l'ostilità verso la religione continuava ad essere molto sentita, specie fra i ceti borghesi e intellettuali delle città. Ciononostante da più parti si voleva un ritorno alla 'normalità' e alla pacificazione. I tradizionali principi del cattolicesimo gallicano, ora depurati dalle molte scorie del passato regime, sembravano ritrovare, seppur senza particolari entusiasmi, un certo consenso. Sintomatico, in questo senso, che degli 11.000 ordini di arresto e deportazione, emessi verso l'inizio del 1798 contro i preti 'realisti' (9.000 in Belgio, 2.000 in Francia), la maggior parte di essi rimase senza effetto, in quanto la coerenza fra i principi professati e le azioni concrete da tempo era venuta meno. Le autorità locali, ben consapevoli delle ambiguità del governo in materia di tolleranza religiosa, sentivano di non avere valide motivazioni per applicare alla lettere le sue direttive. Nonostante i culti decadario e teo-filantropico(3) continuassero a fruire di vasti appoggi da parte del Direttorio, di fatto erano i tradizionali culti religiosi ad essere maggiormente seguiti dai cattolici. Di qui la lotta fra costituzionali e governo per l'osservanza della domenica in luogo del decadì, per l'uso delle chiese e l'introduzione dell'insegnamento religioso confessionale nelle scuole statali
Per queste ed altre ragioni il Direttorio aveva urgenza di giungere ad un accordo con la Santa sede. Approfittando delle vittorie di Napoleone in Italia, esso aveva chiesto a Pio VI di annullare tutti gli atti di condanna della politica ecclesiastica dei governi succedutisi dall'inizio della rivoluzione in poi. Ma il papa non ne volle sapere. L'unico risultato raggiunto fu la pace di Tolentino nel febbraio 1797, in cui si regolarono solo gli aspetti territoriali e finanziari pendenti fra i due Stati. A ciò seguì la deportazione di Pio VI in Francia, dopo l'occupazione francese di Roma, e la morte di quest'ultimo il 29 agosto 1799.
Una vera svolta invece si verificò allorquando la borghesia volle por fine alla politica incerta e altalenante del Direttorio con il colpo di stato del 9 novembre (18 brumaio) 1799, che instaurò la dittatura militare di Napoleone Bonaparte, ovvero il passaggio dalla Repubblica all'Impero. La politica ecclesiastica di questo nuovo regime, prima della vittoria di Marengo (1800), fu caratterizzata da molti tatticismi: si restituirono le chiese alle confessioni che vi esercitavano il culto prima della loro chiusura, si abrogarono i provvedimenti delle autorità locali con cui si decretava la chiusura delle chiese all'infuori dei decadì, si esclusero dalla deportazione i preti giurati e quelli che avevano contratto matrimonio, si decretarono pubblici onori alla salma di Pio VI, s'impose al clero un giuramento di fedeltà alla Costituzione, ovvero un puro e semplice riconoscimento del governo di fatto, senza un impegno di fedeltà per i suoi atti futuri, come invece intendeva la Costituzione del clero (il che però non impedì nuove accese discussioni).
Dopo Marengo, Napoleone cercò a tutti i costi d'intavolare delle trattative con Roma per avere in Francia una chiesa fedele alle sue direttive. Sono note le sue considerazioni opportunistiche circa la religione: "Nessuna società può reggersi in piedi se non è fondata sulla religione, e non c'è buona morale se non c'è religione: soltanto la religione offre allo Stato un appoggio stabile e sicuro". E ancora: "Quando un uomo muore di fame vicino a un altro che si abbuffa, è impossibile fargli ammettere questa differenza se non c'è un'autorità che gli dica: Dio vuole che ci siano dei ricchi e dei poveri, ma poi per l'eternità ci si dividerà in ben altro modo". Concetto, questo, che sintetizzò magnificamente allorquando disse che "la società non può esistere senza l'ineguaglianza dei beni né questa senza la religione".
La storiografia cattolica più conservatrice giustifica questo atteggiamento col dire che Napoleone, volendo 'salvare' la rivoluzione, capì che l'influenza dei preti era meglio utilizzarla che ostacolarla. Ovverosia la differenza fra Napoleone e Robespierre starebbe nel fatto che il primo -come vuole ad es. Mezzadri- "rispettò le convinzioni del popolo, mentre l'altro gliene voleva imporre di nuove". In realtà questo modo di vedere le cose è alquanto apologetico ed è soprattutto espressione di chi, desiderando una chiesa forte, capace di dominare la scena politica, considera appunto la politica come un ambito riservato ai cosiddetti 'potenti', ove le masse hanno possibilità di accesso solo per qual tanto o per quel poco che, con fare strumentale, viene loro permesso. E' evidente, in questo senso, che, non potendo più scegliere il privilegio esclusivo di cui fruiva sotto l'ancien régime, una chiesa del genere non può che preferire il regime di compromesso (cioè di relativo privilegio e asservimento) a quello di separazione. La storia ha in realtà dimostrato sia che gli ideali della rivoluzione erano stati traditi prima ancora che Napoleone cercasse l'intesa con la chiesa romana, sia che con tale iniziativa si voleva garantire proprio alla controrivoluzione un'esistenza il più possibile tranquilla e duratura. Di questo lo stesso Napoleone era perfettamente consapevole: "Si pretende -egli disse- che io sia un papista, ma non lo sono affatto; in Egitto ero maomettano, qui sarò cattolico per il bene del popolo. Nella religione io non vedo il mistero dell'Incarnazione, ma quello dell'ordine sociale".
Convocato dunque il clero a Milano, Napoleone pronunciò alla sua presenza un discorso in cui condannò l'atteggiamento tenuto verso la religione dai philosophes e dai giacobini e dichiarò di essere pronto a negoziare con Roma. Poco dopo fece cantare un Te Deum di ringraziamento in duomo per la vittoria di Marengo: era la prima volta, dopo la proclamazione della repubblica, che un capo di Stato francese partecipava a una cerimonia del genere. Con ciò naturalmente non si deve pensare che Napoleone fosse un 'credente'. "E' chiaro -egli disse- che le religioni vanno bene per uomini che si trovano ancora ad uno stadio infantile. I preti hanno insinuato, sempre e dappertutto, la frode e la menzogna".
Intanto al soglio pontificio era salito il card. Chiaramonti, disponibile verso i regimi democratici (è noto il suo aforisma: "Siate buoni cristiani e sarete buoni democratici"). Le opposizioni all'intesa però non erano poche: da Luigi XVIII, che si era proclamato re in esilio a quella parte dell'entourage di Napoleone ancora legata alla politica ecclesiastica della rivoluzione (si pensi a Talleyrand e Fouché), dalla chiesa costituzionale (con Grégoire in testa), che temeva di perdere la sua indipendenza da Roma, agli ambienti legittimisti (soprattutto la chiesa 'ribelle') che speravano in un ritorno della monarchia e temevano che l'accordo avrebbe loro tolto il consenso delle masse cattoliche. Ma, nonostante tutto ciò, il Concordato si fece (1801), seppur dopo otto mesi di difficili trattative. La chiesa, che non voleva assolutamente cedere sul riconoscimento della libertà di culto per le altre confessioni e sulla necessità, imposta dal governo francese, di dimettere i vescovi emigrati, fu messa con le spalle al muro dalla minaccia di Napoleone di creare una chiesa scismatica e di farsi 'protestante'.
I punti salienti, in breve, possono essere considerati i seguenti: 1) il Papa riconosce la repubblica come governo legittimo della Francia; 2) Napoleone riconosce il cattolicesimo come 'religione maggioritaria' della sua nazione (il che in pratica vuol dire: libertà di culto per tutte le confessioni ma soprattutto per quella cattolica. In particolare i consoli della repubblica sono tenuti a professare la fede cattolica); 3) il papa ottiene le dimissioni di tutti i vescovi e la possibilità di istituire canonicamente i loro successori dopo che questi siano stati nominati dal capo dello Stato (in pratica si poneva fine alla chiesa costituzionale e ai culti rivoluzionari: quello decadario era già stato abolito nel 1800, quello teo-filantropico lo sarà nel 1801. Talleyrand suggerì il riconoscimento dei vincoli coniugali contratti da quei preti e vescovi che avrebbero potuto essere riammessi alla comunione con la chiesa di Roma, ma la proposta fu respinta. Venne altresì abolita l'elettività popolare del clero). 4) In cambio Napoleone ottiene, in virtù del giuramento, la fedeltà al governo di tutti i nuovi vescovi e inoltre che i vescovi nominino solo i parroci graditi al governo; 5) i beni espropriati alla chiesa non vengono restituiti e la chiesa s'impegna a non richiederli (in cambio il governo assicura a vescovi e parroci uno stipendio); 6) la chiesa ottiene di poter rivedere le circoscrizioni diocesane, di poter istituire seminari o capitoli metropolitani senza oneri per lo Stato, di poter conservare la proprietà delle chiese non alienate e il diritto di ricevere lasciti e donazioni da parte dei fedeli; 7) si dispensava il clero dal servizio militare, si consentiva ai parroci di non amministrare il sacramento del matrimonio a chi fosse vincolato da impedimenti canonici e si tutelava l'autonomia giurisdizionale dell'ordinario sugli ecclesiastici che avessero commesso reati canonici o politici.
Con questo Concordato si torna praticamente alla situazione pre-rivoluzionaria, cioè al Concordato del 1516, con la differenza che ora la chiesa cattolica ha un potere economico e quindi politico notevolmente ridimensionati. Tuttavia, nei confronti della chiesa gallicana e di tutti coloro che, in un modo o nell'altro, volevano una religione più 'civile' o più conforme all'ideale evangelico, la vittoria della Santa sede era stata grande, sul terreno sia politico che ideologico, benché si sia trattata di una vittoria ottenuta grazie all'appoggio di una nuova classe sociale ad essa tendenzialmente ostile: la borghesia. In seguito, taluni punti non previsti dal Concordato vennero inclusi unilateralmente l'8 aprile 1802, nello strumento approvato dal governo francese (i cd. "Articoli organici"), come ad es. l'insegnamento dei Quattro articoli gallicani, la pretesa d'imporre in Francia un solo catechismo e una sola liturgia, ecc. Il che, in sostanza, stava ad indicare che Napoleone rifiutava al cattolicesimo-romano il rango di religione di stato. In ogni caso il papato era riuscito a ripristinare in Francia la sua autorità giurisdizionale, facendo chiaramente capire che le idee di democrazia e uguaglianza non avrebbero potuto portare, sic et simpliciter, alla distruzione della compagine gerarchica e burocratizzata che da secoli e secoli la chiesa s'era data.
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(1) La dottrina dei Quattro articoli affermava l'indipendenza politico-istituzionale del potere civile da quello ecclesiastico, la superiorità del concilio generale sul papa e la validità delle sentenze pontificie ex-consensu ecclesiae. Essa cesserà d'essere oggetto d'insegnamento e di controversia solo dopo il Concilio Vaticano I.
(2) Avendo il movimento di ritrattazione fatto il vuoto nelle file del clero (gli elementi 'presbiteriani' obbedivano sempre meno ai vescovi), la chiesa costituzionale si vide costretta a prendere contatti con tutti i movimenti giansenisti stranieri: in Italia, p.es., con l'ex-vescovo Scipione de' Ricci e i superstiti del sinodo di Pistoia, nonché con Eustachio Degola, condannato da Roma.
(3) La teofilantropia fu l'ultimo tentativo di sostituire il cristianesimo. Questo nuovo culto intellettuale, ispirato a Rousseau, affermava l'esistenza di dio, l'immortalità dell'anima, la solidarietà sociale e la tolleranza religiosa; inoltre stabiliva, fra le altre cose, il matrimonio obbligatorio dei preti e la piena laicità delle scuole.
CHIESA E RIVOLUZIONE FRANCESE
(Sintesi)
1) Concordato 1516. Il re nomina i candidati alle più alte cariche ecclesiastiche, il papa li consacra. In cambio il re versa a Roma le "annate" (un anno del reddito di ogni beneficio (diocesi, abbazia ecc.) che cambiava titolare).
2) Situazione Calvinismo: diffusione a partire dalla II metà del '500, a sud. Notte di s. Bartolomeo (ugonotti). Editto di Nantes (1598) riconosce loro la libertà di culto, ma le persecuzioni continuano fino al 1787, finché un decreto regio concede loro: 1) stato civile dei matrimoni, 2) possibilità di battezzare i figli, 3) di praticare il culto privato, 4) di accedere a cariche pubbliche di minor rilievo. Sono mezzo milione.
3) Situazione Giansenismo. Filo-calvinisti. Dottrine condannate nel 1713. Abbazia Port-Royal distrutta. "Billet de confession": sottomissione scritta all' "Unigenitus" richiesta dall'arciv. di Parigi a tutti i moribondi sospetti di giansenismo, pena rifiuto dell'assoluzione. Durante la rivoluzione dell'89 si fonde col Richerismo (movimento di soldati semplici e caporali ecclesiastici che chiede uguaglianza nel clero).
4) Situazione Ebraismo. Sono 40.000, specie in Alsazia. Pagano imposte d'ogni tipo, Esclusi dagli uff. pubblici. Non possono sposare i cattolici. Difficile ottenere la cittadinanza. A volte il loro numero nelle città è limitato per lex. Culto libero perché meno temuto dai cattolici di quello calvinista.
5) Enciclopedia. Contro il fanatismo, il clericalismo, il potere temporale dei papi, la superstizione. Il clero reagisce, ma molti vescovi sono indifferenti alle sorti della religione. Il basso clero spesso appoggia i filosofi.
6) Situazione del clero. Circa 130.000 su 25 milioni di francesi: 70.000 regolari e 60.000 secolari. Ordine privilegiato:
a) a livello politico, perché le cariche ecclesiastiche sono spesso assegnate ai cadetti dell'aristocrazia agiata. Il titolare percepisce 1/3 delle rendite di vescovadi o abbazie, risiede a Versailles e delega l'esercizio del ministero a un ecclesiastico stipendiato. Formazione teologica scarsa;
b) a livello economico, perché possiede fino al 10% della proprietà nazionale, il cui rendimento è scarso perché la gestione è poco efficace (feudale): il valore è pari a quello della decima sui prodotti agricoli e armenti. Poi la gestione monopolistico-statale di enti assistenziali, ospedalieri e scolastici. Infine lasciti e donazioni. Monasteri e conventi sono molto ricchi: rispetto alle vaste proprietà fondiarie sono spopolati. Posti sotto accusa dalla popolazione e da intellettuali. Nel 1768 chiusi 426 e soppressi 8 ordini. I voti hanno effetti civili;
c) a livello finanziario, perché tutto il clero è esente da tasse dirette e indirette, a parte il contributo quinquennale (il 2% di tutti gli introiti annuali) che versa allo Stato con rate annuali;
d) a livello giuridico, perché possiede propri tribunali, da cui dipendono anche i laici per questioni legate alla religione (p. es. i matrimoni). Eresia, bestemmia e sacrilegio in teoria prevedono la pena di morte.
7) Situazione del basso clero. Curati, vicari e cappellani: esclusi dalla carriera episcopale. I redditi: congrua (porzione di decima) e diritti casuali (delle varie ufficiature). Per diventare prete bisogna avere un certo patrimonio. I preti di campagna sono più discriminati di quelli urbani. Tengono lo stato civile, registrano battesimi, matrimoni e decessi, diffondono ordinanze reali, assistono la giustizia, bandiscono vendite immobiliari. Beni parrocchiali: presbiterio, scuola, cimitero, immobili lasciati in eredità. Manutenzione degli edifici a carico dei parrocchiani. In diverse città e campagne esiste una specie di "sindacato ecclesiastico" contro l'alto clero: rivendica maggiore congrua, più diritti e più uguaglianza.
8) Religiosità del popolo: conformista, tradizionalista. In crisi la partecipazione ai sacramenti. Forte calo delle offerte per le messe a suffragio. Aumento nascite illegittime. Bassa tiratura dei libri a carattere religioso.
© Carlo Caligaris 1999