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INCUBI

di Marco

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L'ottavo capitolo

9

Mentre osservo lo scenario simile al mondo del teologo mi accorgo di essere evanescente in rapporto con l’ambiente, perché i soggetti che fuggono ai tentacoli attraversano il mio corpo astrale senza neanche accorgersi della mia presenza. All’improvviso, accanto a me si materializza un essere dalle fattezze simili a quelle di un goblin, col cappello curvo e allungato, la pelle a chiazze, gli occhi, il naso, le orecchie e le mani a punta.

«Bello spettacolo, vero? Queste persone, sconosciuti ed insignificanti esseri che vengono inghiottiti dai palazzi per finire in uno dei tanti mondi possibili, l’inferno, le gabbie dove verranno torturati, il regno del dittatore sanguinario o, se sono fortunati, una comunità popolata da pacifici contadini, il Paese dei Balocchi, un set pornografico… Tutto in base al caso, cioè alla vera legge che governa l’Universo. Ogni individuo è un frammento di caso, il resto è solo una parvenza di ordine, un’illusione come è illusorio questo non-luogo in cui siamo intrappolati».

Lo interrompo perché il suo tono di voce, sicuro e sarcastico, mal si associa al mio umore del momento: «Tutto questo è opera tua?».

«Certo! È uno scenario che ho creato apposta per te. È il miglior modo di darti il benvenuto nel mio micro-cosmo. Ho conosciuto tante persone che sono penetrate nel mio regno, e ho sondato il loro inconscio per adattare il mio scenario illusorio, in modo da stimolare filosoficamente il loro intelletto ad una conversazione sul potere e sui limiti della sapienza. Ho anche visitato gli altri regni immaginari creati da personaggi come te, e ogni regno è riprodotto in uno dei palazzi!».

Il mio cuore batte all’impazzata, e le mie parole sembrano mormorii indistinti in confronto alle sue parole: «Perché? A che scopo? Questo sembra sadismo puro!».

«Oh, non è niente di granché! Ricorda che è tutta immaginazione, nulla esiste in concreto. Il mio è un esercizio mentale per comprendere il funzionamento di questo non-luogo, ma anche un tentativo di rispondere alle grandi domande filosofiche su bene e male, uguaglianza ed ingiustizia…».

Mi sono calmato, adesso osservo l’ambiente con maggiore distacco: «Qual è il significato della tua terribile illusione?».

«Come ti ho già detto, lo scenario l’ho scelto per te. Siccome sei un giornalista, e conosco la tua filosofia di vita grazie ai resoconti immaginari che ho letto mentre spiavo il tuo mondo – si, ti ho spiato a tua insaputa, mi capita di farlo prima di entrare in contatto con il soggetto, o meglio con la cavia del mio esperimento. Siccome conosco le tue idee sulla morale, dicevo, ti ho presentato un universo in cui ogni soggetto è uguale all’altro ma finisce per precipitare in ambienti con morali differenti. Quale di queste morali è quella giusta?».

«Ma… non puoi pretendere che ti risponda di punto di bianco su una questione così controversa!».

«Certo che no, ed infatti ho già preparato un temino facile facile: l’uguaglianza degli uomini è il primo presupposto della morale, ma a mio avviso questa uguaglianza contrasta con gli altri precetti della stessa morale, ad esempio la difesa del debole e la punizione del forte. Intanto definiamo l’uguaglianza. Per non scomodare i filosofi, e per rendere il nostro dialogo una comunicazione a due invece che un monologo, lascio a te un tentativo di definizione, cioè quello che tu hai definito “l’uguaglianza delle razze”. Cosa intendi esattamente per questo?».

“Wow, a questa domanda so rispondere!”, come direbbe l’allievo impreparato di fronte alla commissione degli esami. Dentro di me sorrido per l’ironia sdrammatizzante. Vedo che sorride anche il goblin: ovvio, visto che legge nei miei pensieri! Faccio un’altra pausa per verificare se anch’io posso leggere la sua mente, ma mi accorgo di non averne bisogno: il suo subconscio è come un libro stampato, capisco benissimo cosa sta provando in questo momento, un silenzio meditativo ed attendista.

«A dire il vero al concetto di uguaglianza delle razze ci sono arrivato solo in età adolescenziale, ai tempi delle prime mobilitazioni studentesche. Sai benissimo che a scuola si comincia a confrontarsi con il mondo esterno sui vari temi, la droga, l’Aids, le guerre, ma anche la famiglia e la politica. Ma i miei primi ricordi legati al confronto con l’«altro» riguardano i giochi infantili.

Avevo, si e no, sette anni quando al parco giochi dove mi portavano sempre i miei genitori c’era un bambino di colore. Sapevo benissimo cosa significava avere la pelle scura, perché i film americani ingaggiavano anche attori di razza diversa quasi a voler pavoneggiare il melting pot frutto di secoli di migrazioni. Ricordo benissimo di aver giocato con lui e di essermi divertito a condividere le gioie dell’età. Non mi sembrava un bambino diverso dagli altri, per questo quando ho cominciato a studiare, alla scuola media, la storia dei pregiudizi razziali che hanno coinvolto intere razze, ho cominciato a percepire l’assurdità di tali pregiudizi.

In sintesi, dunque, la mia idea di uguaglianza delle razze significa semplicemente che un nero, come un cinese, come un indigeno, provano le nostre stesse emozioni, hanno i nostri stessi desideri e il nostro senso dell’idealismo. Per questo sono convinto che una società multietnica sia possibile, dove la tolleranza e la solidarietà tra individui diversi permettono forme di convivenza e pongano fine alla combinazione perversa tra prepotenza e ingiustizia. Mi sembra di aver concluso l’argomento.».

Ma l’avrò concluso davvero?

Il decimo capitolo