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INCUBI

di Marco

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Il sesto capitolo

7

L’incubo inizia con una musica di sottofondo che penetra nei meandri della mia mente, attraverso il condotto uditivo collegato al mio immaginario cervello. Il ritmo dei suoni è costante e insistente. Lo riconosco, è il suono delle parate militari che ho sentito durante le cerimonie politiche di celebrazione per qualche anniversario. Musica da clarinetto e tromboni, rullo di tamburi leggeri, una successione di note che nella mia mente passeggiano mano alla mano.

Subito dopo compaiono i soldati. Hanno tutti lo stesso aspetto fisico, viso, altezza, dimensioni corporee. Anche i vestiti militari sono identici e si nota il fruscio mentre i cloni avanzano a passo di parata, rigidi nelle loro uniformi. Un-due. Un-due. Un-due. Un-due.

Non so quanti secondi è durata la scena, ma adesso vedo che è cambiata. Al fischio dell’allarme i soldati si disperdono e si acquattano sotto rocce comparse chissà da dove. Alcuni si sono sistemati vicino a me, così posso notare con maggiore attenzione i particolari del loro fisico.

Nella guancia destra del viso dai lineamenti delicati è posta una lunga cicatrice, evidentemente una ferita di guerra. La carnagione pallida sotto il berretto cede il posto a delle strisce nerastre che partono dal naso, attraversano le guance e terminano alle estremità delle orecchie, o almeno della parte delle orecchie visibile sotto il berretto. Le mani che impugnano il mitra, pallide anch’esse, sono lunghe e sottili, dal pelo rado ma ben visibile, mentre i piedi hanno uno spessore piuttosto notevole per il suo fisico magro e asciutto.

La guerra inizia con dei proiettili che sibilano intorno a me, provenienti dal fronte nemico al campo opposto. Mi acquatto a terra anch’io, mentre i miei cloni rispondono con raffiche brevi ma intense. Ogni tanto vedo qualcuno di loro abbassarsi al suolo, imprecare per una ferita, morire in un grido rauco. Inutile fare una filosofia della guerra: sono tutte uguali, eccetto qualche particolare. Uccidi o muori. I cloni sono ben addestrati a questo gioco, sembra quasi la loro unica fonte di vita. Adesso è venuto il turno delle bombe, granate stordenti, minibombe a mano, fuochi d’artificio dappertutto. Adesso so cosa mi ricorda questa battaglia: la prima guerra mondiale.

Osservo i cloni che muoiono. Chissà quanti ne moriranno prima che questa ennesima guerra finisca, e chissà quanti ne muoiono nel fronte avverso. Una pallottola conficcata nell’occhio destro, una alla fronte, una al petto. Vedo il sangue sprigionarsi dappertutto, nella nuda terra, nelle rocce, nella mitragliatrice… Un proiettile mi sfiora la testa, lo sento bollente nella sua traiettoria. Improvvisamente sento un dolore lancinante, fortissimo. Subito dopo il sangue esce copioso dalla mia fronte. Sarà vero o è solo un’illusione? Il dolore è talmente realistico da farmi dubitare di essere nel mondo delle favole. Mi accascio a terra, devo trovare un modo per far cessare questo incubo, altrimenti rischio di esserne inghiottito.

Uno dei cloni grida qualcosa, con voce molto allarmata. Subito dopo una bomba arriva ad esplodere proprio al centro del nostro territorio. Inutile descrivere i corpi dilaniati sollevati in aria e lasciati afflosciare a terra come ammassi di nulla. Devo pensare a me, alcune scheggie mi si sono conficcate nella pancia e il dolore mi fa dimenticare la ferita alla testa. Cerco di allontanarmi dal luogo, strisciando per terra per evitare i proiettili e contando i miei passi lungo la trincea. Non mi lascio intimidire dagli ostacoli che mi si frappongono, corpi divelti, spuntoni di roccia, crateri provocati dalle bombe. Ma quando arrivo all’estremità del campo, le retrovie della trincea, all’improvviso qualcosa ostruisce il mio cammino: come un muro invisibile che funge da barriera. Sono in trappola!

Davanti a me c’è un clone che si inginocchia per studiarmi meglio da vicino. Lo guardo e noto che è diverso dagli altri, perché il suo comportamento è più spontaneo e i movimenti più rapidi. Dallo sguardo intenso, capisco che prova solo odio nei miei confronti. Però cerca di trattenersi. Dà un ordine ai soldati e subito dopo due sedie compaiono davanti a noi due. Mi siedo anch’io, intuendo che forse vorrebbe comunicarmi qualcosa.

«Dai tuoi pensieri mi sembra di capire che sei un giornalista, e sono onorato della tua presenza in prima linea in questo campo di battaglia. Ho sempre desiderato esprimere la mia opinione personale sulle guerre che conduco. Sei libero di chiedermi quello che vuoi, non ho peli sulla lingua».

Balbetto un po’, forse confuso dalle emozioni del momento. Allora il generale riprende le redini del discorso:

«Questa scena è la riproduzione di una delle tante battaglie che ho vissuto nel Vietnam anni ’70. Una guerra terribile, in cui ero soltanto un soldato come tanti altri. Non sapevo niente di politica, diplomazia, fabbricazione di armi. Il mio unico pensiero era sopravvivere nella giungla e tornare a casa per riabbracciare i miei genitori e la mia fidanzata, che erano tutto il mio mondo personale. Ma dovresti saperlo anche tu che quando si entra all’inferno, non se ne esce più. Finita la guerra e rientrato dai miei, il mio unico pensiero è stato documentarmi sulle guerre, le filosofie che la giustificano e quelle che la condannano, i tentativi di catalogare le guerre, una cronologia delle guerre a livello storico, le diverse strategie di battaglia…».

Interrompo: «Quindi dovresti aver compreso l’inutilità delle guerre».

«Per niente! La guerra fa parte integrante nella vita di una persona. Ma forse è meglio se ti spiego fin dal principio la mia filosofia, altrimenti rischiamo di rovinare la nostra discussione sofistica. Dal mio punto di vista l’uomo, come tutti gli altri animali, non si distingue in molto da una macchina. Tutte le sue azioni sono preordinate nei cromosomi che compongono il suo corpo, e sono il risultato della combinazione di tre istinti base: sopravvivenza, procreazione e repulsione. Sopravvivenza significa accumulo delle energie necessarie per il funzionamento del robot composto di tante cellule che nascono, crescono, invecchiano e muoiono nell’arco di pochi giorni, esattamente come un computer ha bisogno di energia per poter avviarsi e compiere le operazioni per cui è predisposto. La procreazione è l’istinto di sopravvivenza della specie, e in quanto tale è presente in tutte le creature viventi; si tratta di un imperativo categorico a cui non è possibile sottrarsi. L’istinto di repulsione è la volontà insopprimibile di distruggere tutto quello che minaccia la tua esistenza o ti è necessario per sopravvivere: la tigre che insegue la lepre, un leone che strazia i cuccioli di un altro leone perché sottraggono il cibo ai suoi cuccioli, un uomo che uccide il suo nemico».

Tocca di nuovo a me: «Ma l’uomo è un essere civilizzato».

«Quella della civiltà è un’illusione creata dalla coscienza dell’uomo. L’uomo moderno ha semplicemente accantonato gli istinti bellicosi superflui, per dedicarsi ad altri tipi di violenza: la droga, il teppismo, gli omicidi rituali… tutta roba che il conformismo borghese mistifica dietro la sua retorica buonista e melensa. Quello che non si vuole ammettere è che l’uomo è fin dal principio una macchina distruttrice, che aspetta solo di essere stimolata al punto giusto per far scatenare la tragedia. Il lato cosciente dell’uomo non può nulla contro i fantasmi del subconscio, che sono i soli in grado di percepire la minaccia che gli si para e di reagire impulsivamente, in maniera distruttiva. Riconoscerai che anche qui non c’è una forma di «scelta» da parte dell’uomo, come vorrebbero i moralisti che hanno teorizzato la distinzione tra bene e male, tra buoni e cattivi. Se qualcosa minaccia la tua esistenza, non puoi fare a meno di distruggerla».

«Cosa c’entra tutto questo con la guerra?».

«Ognuno dei tre istinti agisce da catalizzatore delle guerre. Se qualcuno minaccia di ucciderti, o le risorse non bastano per sfamare te e i tuoi vicini, si può arrivare ad un duello, o a una guerra nel caso delle piccole o grandi comunità che riuniscono gli uomini: istinto di sopravvivenza. Se una comunità è altamente prolifica, le risorse possono non bastare per soddisfare le esigenze di tutti, e il territorio su cui vive la comunità può risultare stretto all’aumentare della popolazione. Per rimediare non c’è che un modo: applicare la guerra di conquista a scapito delle altre comunità, per sottrarre loro le risorse o la terra dove vivono. Tutti i grandi imperi del passato utilizzavano questa logica: per assicurarsi il dominio su qualcosa non c’era altro strumento che la guerra. Oppure prendiamo il caso delle comunità che devono rivoluzionare completamente il proprio apparato istituzionale: non hanno altro mezzo che la guerra per vincere le resistenze della vecchia classe al potere, e cito le rivoluzioni francese ed americana, la guerra civile in America, ecc.».

«E l’istinto di repulsione?».

«Ci stavo arrivando: quando la tua esistenza è limitata gioco forza alle regole stabilite dalla tua comunità in perenne stato di guerra, l’unica regola veramente valida è il sacrificio di te stesso, mentre tutto il resto ti è nemico perché minaccia la tua esistenza. L’istinto di repulsione diventa spontaneo. Ma prendiamo anche i sofismi su cui si reggono le società: il sofisma è la pretesa di presentare il proprio concetto di società come l’unico possibile, escludendo tutto il resto. È intuitivo pensare che la ragione scientifica ceda il passo alla cecità del cuore, e giudicare ciò che è diverso da te come un frammento del mondo degli inferi, il Male che minaccia la tua esistenza e quella di chi ti sta a cuore. Inutile sottolineare che se tutte le comunità ragionassero così, come infatti fanno, la distinzione tra bene e male viene a perdere molta della sua fondatezza. Prendi i miei soldati: sono tutti cloni perfetti di me, ho scelto io di rappresentarli a mia immagine e somiglianza».

«In effetti l’avevo notato».

«C’è una certa ironia nelle tue parole. Non dovresti, data la delicatezza dell’argomento… Ma ti concedo il fatto che i tuoi nervi sono messi a dura prova e hai bisogno di scaricarti un po’. Faccio finta di niente e riprendo il discorso. Nella scelta dei soldati, mi sono ispirato alle solite storielle sui cattivi che clonano tanti se stessi per dominare il mondo. Si tratta di una scelta psicologica: il cattivo di turno ritiene che la sua persona, anima e corpo, sia l’unica degna di rappresentare la razza umana, e sia pertanto l’unica capace di resistere alle torture della guerra con piglio cameratesco e solidale. Di resistere e di vincere, naturalmente. Il resto è giudicato feccia da annientare. Il pensiero dei cattivi: “Uno con la mia intelligenza! Uno con la mia forza! Uno con l’innato senso della giustizia nel mio seno! Perché uno come lui non può possedere lo spirito eroico dei guerrieri ed ergersi a dominatore?”. Naturalmente i cattivi non vinceranno mai perché si troveranno contro l’intero mondo “civilizzato”, senza contare che anche il cattivo di turno ha il suo tallone d’Achille, che si propagherà a tutti i suoi cloni e gli bloccherà la trionfale avanzata. Comunque è il pensiero che conta, ed è questo che mi ha ispirato: sto aspettando il mio tallone d’Achille, e intanto combatto la mia battaglia fino alla sconfitta o alla morte!».

«Me lo auguro!», lo dico quasi come un mormorio. Lui capisce ma non dice niente, non dice per esempio quello che ho già intuito dai suoi occhi: che lui stesso è diventato un cattivo con il desiderio di dominare il mondo o di morire, con la presunzione di appartenere alla «razza prescelta», con uno smodato coraggio che sconfina nella follia.

Chiudo gli occhi un secondo. Quando li riapro, lui è già scomparso con i suoi guerrieri fantasma in cerca della prossima Waterloo.

L'ottavo capitolo