PrimiPASSI

INCUBI

di Lyon

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Il diciannovesimo capitolo

20

Non appena ho oltrepassato il varco tra i due mondi, mi compare di fronte un castello in cima ad una collina, un vasto edificio circondato dalle classiche mura e torri di guardia e da un fossato raggiungibile attraverso la stradina che mi si apre dinanzi. Il maniero incute un timore reverenziale, per via dell’aspetto tetro dei mattoni di pietra scura che lo formano, messi insieme chissà quanto tempo fa, ma anche per via delle nuvole grigie che lo circondano dandogli un’atmosfera aliena al mondo dei vivi.

In ogni caso non ho scelta, devo intraprendere il cammino che mi porta verso la costruzione. Sono anche curioso di conoscere il proprietario che ha presumibilmente scritto una ballata musicale così… non trovo le parole per definirla, tetra come il castello? Allucinante come un cimitero? Diabolica come l’inferno? Mentre avanzo verso il fossato, mi guardo intorno e noto che la vegetazione è un confuso intreccio di cespugli spinosi da cui giganteggiano rose rosse. Quel rosso sembra sangue vivo, mi pare anche di percepirne le gocce che cadono a terra una dopo l’altra. La fortezza dell’inquisitore? O un girone dantesco pieno di anime trapassate? O più probabilmente un’illusione demoniaca atta ad allontanare i curiosi?

Ad ogni passo il castello mi pare sempre più grande, deve proprio essere la fotocopia tridimensionale di un villaggio medioevale ricco di casupole di paglia e argilla, circondato dalle colonne di pietre e protetto da un sortilegio arcano. Lo capisco dal fatto che le spesse mura sembrano ostacolare il mio cammino, aumentando a dismisura la forza respingente pur di rallentare il movimento delle mie gambe. Sembra di nuotare in mezzo ai flutti dell’oceano in tempesta! Non so quanto tempo impiego per arrivare al traguardo, forse anni, secoli, millenni di storia!

Finalmente arrivo di fronte ad un portone che sembra rivaleggiare con l’antro di Satana e l’ingresso verso l’Eden, il paradiso perduto. L’apertura è di solido legno ritagliato direttamente dalle cortecce plurisecolari, ed è adornata da sculture di acciaio massiccio, dalle forme più varie e terribili, un Minotauro con le fauci spalancate, un grosso coccodrillo che giganteggia sull’esercito di uomini, un tirannosauro che sembra voler urlare al mondo la propria ferocia.

Mi accorgo di essere rimasto ipnotizzato dal portone solo quando sento il cigolio dei battenti che si aprono lentamente e dietro compare una figura femminile. Oh, non è una donna da ammirare. Capisco subito che deve essere avanti con l’età per via delle rughe che solcano il viso e dello strato di grasso che ricopre alcune parti del corpo, segno di una vita già vissuta e destinata al tramonto. E la voce: « Benvenuto nella mia umile dimora, straniero o chiunque tu sia! Spero che vorrai approfittare degli umili servizi che sono a tua disposizione all’interno del castello! ».

Non mi faccio certo pregare a queste parole melliflue, che mi fanno rapidamente dimenticare l’atmosfera lugubre del quadro. Mentre entro, indovino il nome e l’età della donna: Giulia, cinquantaquattro anni compiuti chissà quando. Sento di potermi innamorare di lei, anche se nulla dovrebbe stimolarmi, né i suoi capelli nerissimi troppo gonfi, né i suoi occhi lievemente strabici, né i suoi fianchi appassiti. Potrei paragonare questa bellezza al mobilio straordinario che ricopre l’ampio androne? Le armature destinate a proteggere i soldati nel medioevo, una in fila con l’altra fino agli estremi del corridoio e ancora luccicanti, gli enormi quadri che si frappongono e che raffigurano scene di combattimenti fra eroi mitologici e antichi quanto misteriosi Dèi, i vasti mosaici geometrici sistemati sul pavimento di pietra…

Una simile atmosfera mi ispira al contempo ammirazione e timore, come se stessi violando un santuario antichissimo. Solo la voce di Giulia mi infonde coraggio: « Questo castello è la raffigurazione del monastero dei miei sogni. Fin da bambina ho sempre desiderato di rifugiarmi in un convento per sfuggire ai ritmi asfissianti della vita borghese! ».

Mentre camminiamo, ho un sussulto. Una mano si è intrufolata nel mio braccio destro. Capisco allora che è lei. Riesco a leggere nella sua mente il desiderio di tenersi mano alla mano come due fidanzatini teneri teneri. Non posso fare a meno di abbassare gli occhi per il disagio che mi provoca il contatto: da quand’è che non ho baciato una donna? In vita sono stato scapolo per scelta personale, e ho avuto saltuari rapporti mentre girovagavo per l’Italia e il mondo come inviato. Prima il dovere e poi il piacere, prima il lavoro e poi il relax!

I cinque minuti che passano mi sembrano un’eternità, io impacciato e muto e lei altezzosa come una gran dama. Poi finalmente arriviamo alla fine del corridoio, dove un grande salone stile antico ci accoglie con freddezza e al tempo stesso con viva partecipazione. Sembra che i mobili vogliano comunicare con me.

Ho già nella mente il primo messaggio, la sensazione di austerità che impone lo stile spesso del legno con cui è arredato il salone. I miei pensieri seguono la fila di sensazioni che provavano gli antichi nel vivere in abitazioni parche, dove nulla era lasciato al caso: l’eleganza era trascurata a vantaggio della resistenza degli oggetti d’uso. Nelle società tradizionali, antecedenti alla rivoluzione industriale, la scarsità di risorse era un problema serio e s’imponeva una rigida disciplina nel loro uso: il consumo era totalitario, senza spazio per rifiuti, scarti o avanzi, ed era severamente monitorato dal capofamiglia.

Il secondo messaggio è di isolamento. Basta già sentire nell’aria il fresco della notte che si mantiene nelle ore diurne, grazie alla mancanza di finestre che possano far penetrare i raggi del sole. Nelle case antiche si percepisce la netta separazione tra dentro e fuori, tra l’interno dell’abitacolo e gli eventi del mondo esterno. Al contrario dei grattacieli delle metropoli moderne, gli alloggi dei nobili e dei borghesi erano il regno della privacy assoluta, in particolare le camere degli ospiti; e i casolari dei contadini erano isolati l’uno dall’altro e in simbiosi assoluta con la natura, con gli odori degli ortaggi e dei frutti ammucchiati, con gli insetti e con le incrostazioni prodotte dall’usura del tempo.

Giulia abbandona il mio braccio e si siede sul divano, poi mi invita educatamente a fare lo stesso. Mentre mi appoggio ai cuscini, una sensazione di quiete assoluta mi assale, come se tutti i nervi avessero staccato la spina. Fantasma evanescente, nullità assoluta: è questa la ricompensa per gli eroi?

Il ventunesimo capitolo