PrimiPASSI

INCUBI

di Lyon

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Il primo capitolo

2

E adesso? Ho scritto quello che volevo scrivere, diciamo uno sfogo personale. Ho il desiderio di continuare a riempire fogli su fogli, nell’illusione che serva a qualcosa. Dunque, vediamo… scrivo qualche ricordo dell’infanzia, qualcosa che mi ha particolarmente colpito.

La montagna. Un luogo di riposo come tanti altri. L’Aspromonte, nel mio caso. Sebbene il lavoro mi tenesse inchiodato a Roma, ho spesso cercato di evadere nei momenti di riposo, i fine settimana, le ferie, le feste religiose e quelle civili, evadere e rifugiarmi al paesino natio, dove ho vissuto buona parte della mia adolescenza.

Il ricordo di cui parlo è legato al dolce viso di una ragazza, la prima ragazza che abbia mai amato, e che è morta dieci anni fa per overdose. Cocaina, come ha certificato il referto medico. Dopo un matrimonio fallito, è precipitata nel baratro senza ritorno e tutti i tentativi di farla ritornare alla normalità sono stati inutili.

Ma non divaghiamo e torniamo al ricordo. Era estate e stavo andando a passeggio in mezzo ai boschi con mio fratello Giuseppe, più grande di me di quattro anni (e io ne avevo sedici), per le solite camminate ritempranti quando all’improvviso incrociammo una piccola comitiva di boy-scouts. Volli approfittare dell’occasione per movimentare ancor di più la giornata. Il mio spirito d’iniziativa ebbe la meglio sulla riluttanza di mio fratello (un tipo più riservato di me).

Erano cinque boy-scouts, tre maschi e due femmine, che tornavano al loro campeggio, distante approssimativamente due km dal punto in cui eravamo. Una bella scarpinata! Ma era una delle due ragazze quello che mi aveva colpito di più. Era bellissima, alta poco meno di me, capelli biondi e occhi di un color turchese, ben proporzionata nel fisico. Non mi incollai subito a lei, non sono quel tipo. Preferisco fare le cose ad una ad una, con ordine. Prima volevo ammirarla e vedere se potevo avere qualche speranza di aggancio. Intanto erano cominciate le reciproche presentazioni, e così seppi che si chiamava Marilena. Bel nome, bellissimo nome (ma solo perché ne ero innamorato). Nel corso delle conversazioni di gruppo seppi che aveva quindici anni, uno in meno di me. E mentre riprendemmo il cammino tutti insieme fino al campeggio scouts, mi colpì il suo sguardo. Sincero e vivace. Mi ispirava. E trovai la scusa per avvicinarmi a lei: la compagnia femminile è migliore di quella maschile. Una scusa che fa sorridere, ma quelli erano i bei tempi della giovinezza, lontano dai problemi dei grandi: famiglia, figli, superlavoro, trafile burocratiche…

Dopo qualche minuto di conversazione, riuscii ad entrare in sintonia con i suoi pensieri. Potevo addirittura sentire il battito del suo cuore che accelerava ad ogni sforzo, un salto da un lato all’altro del ruscello, una breve arrampicata tra le rocce, una tratto di strada scosceso… Non era fidanzata, il suo ex ragazzo l’aveva lasciata poco prima che iniziasse il campeggio. Ne approfittai per buttare la conversazione sul tema dell’amore. Non che avesse le idee molto chiare in tema, ma io mi ero già allenato da tempo per dialoghi del genere, di fronte allo specchio. La conquistai subito, e finimmo per baciarci di nascosto una volta raggiunto il traguardo, dietro alcuni alberi. Ma si stava facendo sera, e mio fratello e io dovevamo tornare a casa. Purtroppo l’indomani non l’avrei più rivista, perché era il giorno di partenza: tutta la comitiva doveva rientrare a Gioia Tauro, dove aveva sede la loro parrocchia. Questo non ci voleva proprio, ma non ero io a reggere i destini del mondo. Fu una delle rare occasioni in cui avevo questo desiderio, fortissimo. Ci saremmo rivisti gli anni successivi, ma come semplici amici: nel frattempo si era fidanzata con uno degli scout. Non aveva più importanza per me, dato che avevo già una ragazza, con cui ero già intimo. Marilena aveva la mia stessa ambizione: il mondo del giornalismo. E così restammo in contatto, a scrivere e ragionare sul tema delle guerre, della droga, dell’inquinamento e di tanti altri problemi del mondo contemporaneo. Poi scomparve dalla mia vista dopo tre anni: si era trasferita a Parma per frequentare la facoltà di Lettere. I contatti con lei li ripresi da quando seppi, tramite un’amica e collega in comune, che anche lei lavorava come giornalista per un quotidiano locale di Roma. Non che la vedessi spesso, ci limitavamo a delle conversazioni telefoniche di tanto in tanto. Ma quando cominciò a drogarsi, dopo il divorzio, non riuscii più a rintracciarla perché stazionava in una clinica per disintossicarsi dalla quale di tanto in tanto evadeva, finché l’amica in comune non mi disse che era morta, e spedii un telegramma di condoglianze ai genitori piuttosto anziani.

La favola è finita. Che il mio cuore giaccia in pace. E lei con me.

Pausa di riflessione, adesso. Voglio rileggere quanto scritto finora, perché mi sembra di non aver scritto effettivamente nulla. Ho sintetizzato troppo la storiella, sembra più una fiaba da raccontare ai più piccini che un tema su “San Valentino”, la festa degli innamorati. Vorrei correggere le frasi, modificare il contenuto, aggiungere qualche particolare ben riuscito, come si consiglia al corso di giornalismo. Ma non ci riesco. Sono troppo nervoso per concentrarmi, già mi sembra un duro lavoro, da giornalismo “servile”, di professionisti che scrivono solo quello che vogliono i potenti per mettersi l’animo in pace. Sarà così anche per me? Volevo mettermi la coscienza a posto con lei? Avevo paura che i suoi ricordi rompessero la fragile armonia che ho raggiunto in queste ore?

No, così non va. Bisogna movimentare il ricordo, e posso farlo adesso che la mia mente domina il panorama intorno.

Il terzo capitolo