PrimiPASSI

INCUBI

di Lyon

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Sono seduto qui a scrivere non so bene neanche cosa. A dire il vero non so neanche cosa sono io, io che tengo la penna con la mano tremante, io che lascio scorrere l’inchiostro su un quaderno dalla copertina spessa, gialla e plastificata, e con dentro fogli lisci e bianchi, vuoti in attesa dell’ennesima confessione intima tenuta come una specie di diario, un messaggio in bottiglia per creare l’illusione di conservare i miei pensieri.

Ho scritto illusione perché non conosco parola migliore che possa definire l’ambiente in cui sono, il quaderno su cui scrivo, le parole che vedo scorrere in questo preciso momento: tutto questo è illusione.

Desideravo essere nel mio studio personale, così ho ricreato l’atmosfera. Lo studio è piccolo e poco spazioso, per via dei mobili che lasciano aperta solo una strettoia tra la porta d’ingresso e la finestra, ampia e sempre illuminata dal sole. A destra della porta vi è una piccola biblioteca, dove raccolgo libri alla rinfusa in cinque scaffali, e accanto un tavolo di legno mogano appoggiato al muro, come ve ne deve essere in ogni studio. Sopra lo scrittoio è posto un moderno computer, mentre sotto sono appoggiati due cassetti che raccolgono documenti, fogli, block-notes, penne, matite, fotografie, carte da gioco, mini-oggetti da ornamento. A sinistra della porta vi è il letto in cui dormo e un mobilio per i vestiti.

Non ricordo chi ha detto che l’uomo ha bisogno di illusioni per andare avanti. È disperatamente il mio caso. Senza l’illusione della mano che tiene la penna, avrei solo il fantasma delle dita che stringono il vuoto movendosi a zig-zag senza senso alcuno. L’intero mio corpo è evanescente, come se fosse puro spirito. Mi basta solo immaginare di avere i capelli disordinati, e subito l’illusione si concretizza.

È da poche ore che sono ridotto così – qui il tempo è relativo – e soltanto adesso riesco a padroneggiare le illusioni e quindi a scrivere, o più precisamente ad immaginare di scrivere. Stavo dormendo nel mio letto, di un sonno senza sogni quando all’improvviso sentii un dolore fortissimo, come un violento strappo. Tutto il mio corpo era percorso da tremiti, così alzai gli occhi e mi guardai intorno. Fu allora che cominciò.

La prima impressione fu di un’orgia di colori che si accendevano e si spegnevano, si allungavano e si restringevano: verde, giallo, bianco, rosso, nero, rosa, viola, e tanti altri. Poi qualcosa si modificò, non appena ebbi la coscienza dell’irrazionalità dei colori. Istintivamente, cercavo qualcosa di razionale, di spiegabile, di comprensibile nella confusione delle immagini.

I colori presero forma, si perfezionarono, si riordinarono assumendo linee rette all’infinito qua e là, cerchi concentrici, un abbozzo di farfalla, un corpo seminudo femminile ben conosciuto, anche se non riuscivo ad identificare la persona, un grattacielo in lontananza, il tutto sfuocato, non definibile secondo i parametri della realtà, oscillante come un fantasma variopinto che vagasse senza meta. Sembrava un quadro a tre dimensioni molto surreale, dipinto da un pittore eccentrico che si dilettava in evocazioni sataniche o angeliche.

Passò meno di un secondo da quando strabuzzai gli occhi, e tutto il panorama si dissolse, come se non fosse mai esistito: adesso vedevo il nulla. Il primo stadio della coscienza, come ho detto, fu quello dell’irrazionalità delle immagini, mentre il secondo stadio fu mnemonico: cercai di identificarmi in qualcosa di riconoscibile, perché istintivamente sapevo che solo così potevo, a poco a poco, districare la matassa in cui ero ingarbugliato.

Per prima cosa, ricordai che ero nel mio studio, più esattamente sopra il mio letto. Sapevo che mi ero appena svegliato, e quindi dovevo logicamente riuscire a vedere il panorama dello studio, che mi era così familiare essendoci vissuto per sei anni. La memoria mi spinse a concentrarmi sull’osservazione del panorama, e per qualche secondo lo studio pareva tornato quello di sempre, o meglio ipotizzavo che la mia vista, prima, fosse stata annebbiata dal duro colpo ricevuto in precedenza, e che restasse solo da spiegare questo doloroso strappo durante il sonno. Ma, appunto, fu questione di pochi istanti. All’improvviso lo studio si appannò davanti ai miei occhi. Adesso so che la causa di ciò erano i miei pensieri, che si erano rilassati alla vista di quell’ambiente familiare e si erano concentrati su qualcos’altro, i miei impegni della giornata.

Adesso vedevo una grande stanza dalle pareti bianche, con in fila l’uno dopo l’altro dei tavoli anch’essi bianchi, sulla gran parte dei quali delle persone lavoravano di fronte al computer. Era la sede principale del quotidiano “Mission”, un giornale a tiratura nazionale dove lavoravo in qualità di inviato di cronaca nera.

Naturalmente l’immagine del posto non era perfetta, ma solo la brutta copia della reale sede del quotidiano. Quella che vedevo, in realtà, era una versione adattata alle mie abitudini e alle mie convenienze. In altre parole, vedevo la stanza come piaceva a me, come mi sarebbe piaciuto che fosse: grandi finestre ovunque, che lasciavano riflettere i possenti raggi del sole e che si affacciavano su una fitta vegetazione di pini e arbusti; i tavoli sistemati esattamente come il mio, e il mio tavolo era una fila ordinata di incartamenti legati con una cordicella spessa due centimetri, vari casi di cronaca nera su cui stavo lavorando (o devo dire «sto lavorando»? La situazione attuale è così ingarbugliata!); le persone presenti erano una molteplicità di cloni di alcuni miei colleghi, e a ben riflettere nessuno di loro poteva definirsi la copia originale dei colleghi stessi; infine, la cosa più strana, i corridoi che collegavano la sede con gli altri dipartimenti del giornale non c’erano proprio: scomparsi, svaniti, dissolti senza lasciar traccia.

La prima cosa che avrei dovuto fare nell’arco della giornata era, appunto, recarmi alla sede di “Mission” e discutere con il caporedattore sul caso su cui stavo lavorando, un processo contro alcuni giovani colti in flagrante mentre trasportavano nel cofano della loro auto 50 chilogrammi di cocaina pura, molto più della dose minima che si identifica con l’autoconsumo. Un caso come tanti, ovviamente, alle sue prime battute e pertanto ancora da classificare nel quadro delle notizie della settimana: di qui l’appuntamento col caporedattore.

Ma è assurdo, pensai, in riferimento a quello che i miei occhi registravano. E subito svanì anche questa immagine. Ah no, basta! Ne avevo abbastanza dell’accavallamento caotico. I miei occhi non erano televisori che modificavano le scene in maniera istantanea, senza un criterio preciso, così li richiusi. Che diavolo era successo? Prima una confusione di colori, un quadro alla Picasso, il mio studio personale, ed infine la sede di “Mission”. Tre ipotesi sopra le altre: allucinazioni, droga, perdita della vista.

Purtroppo non avevo la possibilità di verificare nessuna di queste ipotesi, perché avrei dovuto recarmi dallo specialista oppure scoprire chi avesse iniettato la droga e gli allucinogeni a mia insaputa: mai provato ad iniettarmi una siringa in vita mia. Ora, per qualsiasi tipo di controllo medico, avrei dovuto aspettare che riuscissi a padroneggiare i miei sensi oppure chiedere aiuto a qualcuno, un qualcuno che dentro il mio appartamento non poteva esistere.

Va bene, mi dissi, affrontiamo questa minaccia. Ciò detto, riaprii gli occhi. E quello che vidi mi lasciò di sasso: una spirale che procedeva a cerchi concentrici sempre più piccoli, per terminare nell’infinito. Avevo già visto quell’immagine ad un convegno mondiale degli scienziati, tenutosi a Berlino due anni fa. Probabilmente fu questo a farmi intuire una piccola parte della realtà con cui avevo a che fare; ci doveva essere, infatti, un legame tra i miei pensieri e quello che vedevo (anzi, che NON vedevo). Dapprincipio i miei pensieri erano fluttuanti perché mi ero appena svegliato, così avevo visto una serie di figure che provenivano dal mio subconscio, cioè dalla parte non controllabile della mente. Poi avevo ricordato di essere nel mio studio personale, e così avevo visto il panorama così familiare. Ma quando ero passato ad altri pensieri, i miei occhi avevano registrato l’immagine della sede del giornale “Mission”. Infine, era di nuovo il subconscio ad ispirarmi l’immagine della spirale. Ed infatti ecco che il lato cosciente dei miei pensieri, predominando su quelli subcoscienti, aveva cancellato la figura.

Solo che non era ancora finita. Non avevo mai fatto esercizio di autocontrollo mentale, perché la mia concentrazione era sempre stata rivolta verso l’esterno, cioè al senso del dovere, alla mia riconoscenza morale verso la società, e pertanto alla mia aspirazione a risolvere i dilemmi del mondo contemporaneo. Probabilmente ero – e sono – influenzato dall’educazione inculcatami dalla famiglia d’origine, legata ancora alle tradizioni, all’idea del sacrificio della comunità, al mito dell’eroe medioevale e romantico.

Comunque adesso era tempo di recuperare terreno, come dice il detto “C’è sempre una prima volta”. E gli inizi non furono incoraggianti: avrei dovuto immaginare la stanza dove mi ero appena svegliato, ma i miei pensieri sapevano già della falsità del quadro. In realtà stavo pensando a come ricreare le immagini, e quando ci si concentra in quel senso si immaginano i particolari del quadro, scartando tutte le figure estranee. Così finii col vedere, o con l’immaginare di vedere, frammenti di immagini, una matita rossa a punta, una bambolina ricciuta, un dopobarba, una lama di rasoio, le coperte del letto, una rivista di donne nude nascosta dentro uno dei cassetti, una sedia della cucina, una sedia più grande sita nello studio…

Forse stavo sbagliando metodo. Dovevo evitare di sforzarmi nell’immaginazione perché, come ha spiegato il mio oculista qualche anno fa, focalizzare troppo l’attenzione su qualcosa o qualcuno significa trascurare il resto dell’ambiente. E dovevo essere quanto più naturale possibile, perché era l’unico modo per assicurarmi che l’immagine sarebbe durata più a lungo, amalgamandosi con le mie sensazioni e i miei pensieri.

Fu così che decisi di trascurare le immagini che mi si paravano dinanzi. Dovevo solo essere quanto più spontaneo possibile. Evidentemente ha funzionato, visto che sono qui a scrivere frasi. Frasi per il nulla.

Il secondo capitolo