L’imprevisto è l’unica salvezza |
«Non potevamo predire l'11
settembre. Ma ancora oggi non capisco la caduta del Muro».
|
|
di Alessandro Zaccuri, Dice di non saper parlar bene italiano, ma non è vero. Perché in realtà George Steiner, uno dei più grandi critici letterari viventi, parla sempre la stessa lingua, fantasiosa e stratificata, che attinge con identica naturalezza all'idioma terreno di Shakespeare, al dialetto celeste di Dante e al gergo sublime di Heidegger. E alla nomenclatura automobilistica. «Come dite in italiano rétroviseur? - domanda - Ah, sì: specchietto retrovisore. Ecco, per fare la storia del futuro è lì che dobbiamo guardare, nello specchietto retrovisore. L'utopia si riconosce sempre a posteriori. La previsione è difficile, quasi impossibile. L'11 settembre, per esempio, è stato un fatto del tutto imprevisto e imprevedibile. Come imprevedibile era la caduta del muro di Berlino. Le confesso che, a distanza di tanti anni, io ancora non sono riuscito a capire come è successo. Centinaia di migliaia di soldati dell'Armata rossa pronti a intervenire e in pochi giorni il blocco sovietico si dissolve senza che si spari neppure un colpo. Incomprensibile, almeno per me. Però qualcuno che aveva visto giusto c'era: ha presente il discorso di Giovanni Paolo II durante il suo viaggio a Varsavia?». Ebreo cosmopolita (è nato a Parigi nel 1929, da molto tempo insegna a Cambridge), Steiner ha uno strano rapporto con la tradizione religiosa cristiana. Già in un saggio del 1989, Vere presenze, aveva adottato i concetti teologici di incarnazione e transustanziazione come chiavi interpretative della grande letteratura occidentale. E nel suo nuovo libro, Grammatiche della creazione (Garzanti, pagine 320, euro 19,70), si spinge ancora più in là, suggerendo una continua analogia fra l'atto creatore di Dio e la creatività dell'artista. «La mia è un'indagine sull'inizio - spiega -, incentrata sull'intuizione di sant'Agostino, per il quale anche il tempo è creato. E non è un caso che la scienza contemporanea, attraverso l'immagine del Big Bang, ribadisca la convinzione che l'inizio è un atto, un processo. C'è sempre un momento oltre il quale la nostra indagine non può spingersi, un istante che trasforma in nonsense ogni obiezione. Questo, per me, significa essere religioso: sapere che la nostra mente è sempre troppo piccola rispetto alle domande che, nonostante tutto, continuiamo a formulare». Libro sull'inizio, Grammatiche della creazione, ma anche su quell'altra particolare forma di «quasi nulla» (un formulazione secentesca, molto amata da Steiner per le sue implicazioni heideggeriane) che è la fine. «Guardi, resto convinto che il Creatore sia troppo dotato di humour e di immaginazione per accontentarsi di un universo limitato. A Cambridge i miei colleghi astronomi sono convinti che, entro i prossimi cinque anni, i segnali radio inviati dalla Terra riceveranno una qualche risposta dallo spazio. Una prospettiva che ritengo di particolare interesse anche per la Chiesa». Uno Steiner ottimista, dunque? La risposta non è così immediata. «Più di mezzo secolo fa - racconta -, quando ho iniziato a insegnare, avevo davanti a me una generazione di giovani che ancora pensava di poter cambiare il mondo. Coltivavano quello che definirei il grande errore della speranza, una particolare forma di felix culpa che adesso sembra del tutto estinta. I ragazzi che entrano oggi nella mia classe sono caratterizzati, invece, da una terribile maturità precoce. Hanno la consapevolezza di non poter cambiare il mondo, preferiscono ritrarsi nella vita privata. E questo, mi creda, è un grande rischio per la civiltà occidentale».
La vera fine che Steiner teme,
però, è quella della creatività. «Viviamo nell'epoca dell'invenzione -
precisa -, che può dare frutti notevoli, ma non ha nulla a che fare con
l'atto creativo individuale. Soltanto Picasso poteva vedere nel manubrio di
un triciclo l'immagine di un toro. Se non ci fossero arrivati Crick e Watson,
invece, il Dna sarebbe stato ugualmente scoperto. Magari un po' più tardi,
d'accordo. Eppure...». |
||
Verità: «"Non potevamo predire l'11 settembre. Ma ancora oggi non capisco la caduta del Muro". Il critico George Steiner si confessa. L’imprevisto ci salverà» , di Alessandro Zaccuri, Avvenire, 4 aprile 2003 |
Rassegnina |
|
||
|
L'imprevisto
è l’unica salvezza. L’imprevisto è un fatto che non dipende da nessun
antecedente, che non si potrebbe neanche immaginare a partire dal contesto
in cui accade: come un’oasi in un deserto. Come le suore di Madre Teresa,
che curano dei bambini handicappati sotto le bombe di Baghdad; come la
caduta del muro di Berlino, spicconato dopo che il Papa consacrò la Russia
al cuore immacolato di Maria. Della guerra in Iraq continuano a riferirci
ciò che è prevedibile: le bombe, i morti, la devastazione generale. La
descrizione di questi fatti - soprattutto dalle immagini della televisione -
genera una profonda pietà, una profonda impotenza, spesso una disperazione
profonda: che non ci sia più niente da fare. La speranza, invece, è il
sentimento più umano che ci sia, perché dice dell’istinto dell’uomo alla
sopravvivenza, non solo: alla sopravvivenza in una realtà amica, positiva.
A cosa serve pregare la Madonna? Perché è già accaduto che abbia fatto miracoli. A cosa serve che 4 suore rischino la propria vita e quella di coloro che stanno accudendo? Perché il piegarsi su chi ha bisogno commuove il cuore dell’uomo e può anche fermare la spada, per pietà. L’imprevisto, piuttosto che la lucidità dei comandanti della guerra, dovrebbe essere invocato dai soldati nelle loro preghiere. Un miracolo è quello che serve. Giudicare questa guerra adesso non può più limitarsi a una critica - seppur giusta - sulla sua irragionevolezza, ma deve essere una mossa di pietà e di commozione verso coloro che vi stanno morendo. Come ha detto Monsignor Cordes sabato 29 marzo all’incontro promosso dalla CdO: «Noi stessi abbiamo un ruolo in questo evento. Lasciamoci smuovere dal dolore di quelle facce che la televisione ci porta in casa». La fine di questo conflitto è prevedibilmente a favore degli anglo-americani; la pietà per la fine dei soldati anglo-americani e degli iracheni è ciò che, imprevedibilmente, può cambiare tutto. |