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Preambolo
Talvolta si rivela necessario, per una nazione, difendersi
con l'uso delle armi. Poiché la guerra è una questione
grave, che implica il sacrificio e la perdita di preziose
vite umane, la coscienza impone che coloro che decidono di
muovere guerra affermino chiaramente il fondamento morale
che sottende le loro azioni, al fine di chiarire a se
stessi, e alla comunità mondiale, i principi che stanno
difendendo.Noi affermiamo cinque verità fondamentali che
riguardano tutti:
1.
Tutti gli esseri umani sono nati liberi e uguali quanto a
dignità e diritti.
2.
Il
soggetto fondamentale della società è l'essere umano, e il
ruolo legittimo del governo è quello di proteggere e
aiutare a promuovere le condizioni necessarie alla prosperità
umana.
3.
Gli esseri umani desiderano intrinsecamente scoprire la
verità in merito agli scopi e ai fini ultimi della vita.
4.
La
libertà di coscienza e la libertà di religione sono
diritti inalienabili della persona umana.
5.
Uccidere nel nome di Dio è contrario alla fede in Dio e
rappresenta il più grave tradimento dell'universalità
della fede religiosa.
Noi combattiamo per difendere noi stessi e questi principi
universali.
Quali
sono i valori americani?
Dopo l'11 settembre, milioni di americani si chiedono e si
domandano l'un l'altro: "Perché?". Perché siamo
l'obiettivo di questi attacchi spregevoli? Perché coloro
che tentano di ucciderci vogliono farlo?
Riconosciamo che talvolta la nostra nazione ha agito con
arroganza e ignoranza nei confronti di altre società.
Talvolta la nostra nazione ha perseguito politiche ingiuste.
Troppe volte noi, come nazione, non siamo stati in grado di
comportarci all'altezza dei nostri ideali. Non possiamo
spronare altre società a conformarsi ai principi morali se
non ammettiamo contemporaneamente l'incapacità della nostra
stessa società di rispettare, a volte, quegli stessi
principi. Siamo uniti nella nostra convinzione - e siamo
certi che tutti gli uomini di buona volontà in tutto il
mondo saranno d'accordo con noi - che nessun appello ai
meriti o demeriti di determinate politiche estere possa mai
giustificare, o eventualmente implicare, per legittimare, la
strage di persone innocenti.
Inoltre, in una democrazia come la nostra, nella quale il
governo trae il proprio potere dal consenso di coloro che
vengono governati, la politica deriva, almeno parzialmente,
dalla cultura, dai valori e dalle priorità della società
nel suo complesso. Sebbene noi non pretendiamo di possedere
la piena conoscenza delle motivazioni che muovono i nostri
aggressori e i loro simpatizzanti, quello che sappiamo ci
suggerisce che il loro risentimento si estende ben al di là
di qualunque politica o linea d'azione. Dopo tutto, gli
attentatori dell'11 settembre non hanno fatto nessuna
richiesta particolare; in questo senso, perlomeno,
l'uccisione è stata perpetrata in modo fine a se stesso. Il
leader di Al Qaida ha descritto i "fausti
attacchi" dell'11 settembre come dei colpi contro
l'America, "il capo dell'infedeltà mondiale".
Chiaramente, quindi, i nostri aggressori non disprezzano
soltanto il nostro governo, ma la nostra società in
generale, il nostro modo di vivere globale.
Fondamentalmente, il loro risentimento non è rivolto
soltanto contro l'operato dei nostri leader, ma anche contro
le nostre stesse persone.
Chi
siamo dunque? Che valori abbiamo?
Per molta gente, inclusi molti americani e diversi firmatari
di questa lettera, alcuni valori talvolta invalsi in America
sono poco attraenti e addirittura nocivi.
Il consumismo come modus vivendi. Il concetto di libertà
come assenza di regole.
La nozione dell'individuo come un sovrano assoluto che si è
fatto da sé, e che deve poco agli altri o alla società.
L'indebolimento del matrimonio e della vita familiare.
Con l'aggiunta di un enorme apparato di intrattenimento e
comunicazione che glorifica incessantemente tali ideali e li
diffonde, sia che siano desiderati o no, in quasi ogni
angolo del globo.
Un importante compito che noi americani ci troviamo di
fronte - importante già prima dell'11 settembre - è
affrontare onestamente questi sgradevoli aspetti della
nostra società e fare tutto quanto in nostro potere per
cambiarli in meglio.
Al contempo, altri valori americani - quelli che
consideriamo i nostri ideali fondamentali, e che definiscono
maggiormente il nostro stile di vita - sono completamente
diversi da questi, e sono molto più allettanti, non solo
per gli americani, ma per la gente di tutto il mondo.
Illustriamone brevemente quattro.
Il primo
è la convinzione che tutti possiedono una dignità umana
come diritto di nascita, e che quindi ogni persona deve
sempre essere trattata come un fine anziché venire usata
come un mezzo. I Padri
Fondatori degli Stati Uniti,
basandosi sulla tradizione della legge naturale, nonché sul
presupposto religioso che tutti gli uomini sono creati a
immagine di Dio, proclamarono come "manifesta"
l'idea che tutte le persone possiedono pari dignità. L'espressione
politica più palese della fede nella dignità umana
trascendente è la democrazia. Negli Stati Uniti, nelle
ultime generazioni, tra le espressioni culturali più
marcate di questa convinzione si è imposta l'affermazione
della pari dignità di uomini e donne, e di tutte le
persone, indipendentemente dalla razza o dal colore della
pelle.
Il secondo,
che dipende strettamente dal primo, è la convinzione che le
verità morali universali esistono e sono accessibili a
tutte le persone. Alcune delle espressioni più eloquenti
del nostro affidamento su queste verità sono ravvisabili
nella nostra Dichiarazione di Indipendenza, nel discorso di
addio di George Washington, nel discorso di Gettysburg e nel
secondo discorso inaugurale di Abramo Lincoln, e nella
lettera dalla prigione di Martin Luther King.
Il terzo
è la convinzione che, poiché il nostro accesso individuale
e collettivo alla verità è imperfetto, molti disaccordi in
merito ai valori richiedono civiltà, apertura nei confronti
delle opinioni degli altri, nonché ragionevoli
argomentazioni a favore del perseguimento della verità.
Il quarto
è la libertà di coscienza e la libertà di religione.
Queste due libertà intrinsecamente connesse sono ampiamente
riconosciute come il presupposto per tutti gli altri tipi di
libertà individuale.
Questi valori riguardano tutte le persone senza alcuna
distinzione, e non possono essere usati per escludere alcuno
dal riconoscimento e dal rispetto. E' per questo che
chiunque, in linea di principio, può diventare un
americano. E, in pratica, chiunque lo fa. Persone da
qualunque parte del mondo vengono nel nostro paese con
quello che una statua nel porto di New York chiama un
desiderio di respirare liberamente e, molto presto,
diventano americani. Storicamente, nessun'altra nazione ha
forgiato la propria identità intrinseca - la propria
costituzione
e
altri documenti fondamentali, come pure la propria
consapevolezza di sé - in modo così diretto ed esplicito
sulla base di valori umani universali. Per noi, nessun altro
fatto di questo paese è più importante.
Alcuni
asseriscono che questi valori non sono per nulla universali,
ma derivano invece dalla civiltà occidentale, largamente
cristiana.
Essi sostengono che concepire questi valori come universali
significa negare il carattere distintivo di altre culture.
Noi non siamo d'accordo. Riconosciamo i conseguimenti della
nostra civiltà, ma siamo convinti che tutte le persone sono
state create uguali. Noi crediamo nella possibilità e
desiderabilità universali della libertà umana. Siamo
convinti che certe verità morali fondamentali siano
riconoscibili ovunque nel mondo. Siamo d'accordo con il
gruppo internazionale di eminenti filosofi che, verso la
fine degli anni 40, ha contribuito a creare la Dichiarazione
universale dei diritti umani delle Nazioni Unite, e che ha
concluso che pochi concetti morali fondamentali sono così
diffusi da "poter essere considerati intrinseci alla
natura dell'uomo come membro della società". Con un
sentimento di speranza, e sulla base dell'evidenza, siamo
d'accordo con Martin
Luther King quando
afferma che l'arco dell'universo morale è lungo, ma tende
verso la giustizia, e non solo per gli eletti o i fortunati,
ma per tutte le persone. Guardando alla nostra società,
riconosciamo ancora una volta il divario che frequentemente
si crea tra i nostri ideali e il nostro comportamento. Ma,
in quanto americani che vivono in un'epoca di guerra e di
crisi globale, affermiamo anche che la parte migliore di
quello che troppo leggermente chiamiamo "valori
americani" non appartiene solo all'America, ma è in
realtà l'eredità condivisa del genere umano, e pertanto
una possibile base di speranza per una comunità mondiale
costruita sulla pace e sulla giustizia.
E
che dire di Dio?
Dopo 1'11 settembre, milioni di americani si chiedono e si
domandano l'un l'altro: "Che cosa dobbiamo pensare di
Dio?". Crisi di una simile proporzione ci costringono a
riconsiderare i nostri principi fondamentali. Quando
contempliamo l'orrore di ciò che è accaduto e il pericolo
che ci sta di fronte, ci poniamo in tanti la stessa domanda:
"La fede religiosa fa parte della soluzione o fa parte
del problema?".
I firmatari di questa lettera appartengono a religioni e a
tradizioni morali diverse, tra cui anche tradizioni laiche,
ma si sentono uniti nella convinzione che invocare
l'intervento e l'autorità di Dio per uccidere o menomare
esseri umani sia cosa immorale e assolutamente contraria
alla fede in Dio. Molti di noi sono convinti che Dio ci
giudichi, ma nessuno crede che Dio abbia mai istigato
qualcuno a uccidere o a sottomettere i propri simili. In
verità, un simile comportamento, che si chiami "guerra
santa" o "crociata", non solo costituisce una
violazione dei principi fondamentali della giustizia, ma è
in realtà la negazione stessa di qualunque fede religiosa,
poiché trasforma Dio in un idolo che l'uomo utilizza per
giustificare i propri scopi. Anche la nostra nazione ha
vissuto un tempo l'esperienza della guerra civile, e anche
allora ciascuna fazione presumeva che Dio la aiutasse a
vincere contro l'altra. Lincoln,
il decimo presidente degli Stati Uniti, nel secondo discorso
inaugurale del 1865, lo disse con semplicità: "Dio
onnipotente ha i suoi progetti".
Coloro che hanno perpetrato gli attacchi dell'11 settembre
dichiarano apertamente di aver intrapreso una guerra santa.
E anche gran parte dei loro sostenitori o simpatizzanti
sembra abbracciare la causa, accettandone come fondamento
logico l'agire in nome di Dio. Ma per riconoscere gli
effetti disastrosi di questo modo di pensare, noi americani
non abbiamo che da ricordare la nostra stessa storia, quella
occidentale: le guerre religiose cristiane e la violenza
settaria cristiana hanno dilaniato l'Europa per quasi un
intero secolo. Noi che viviamo negli Stati Uniti non siamo
certo estranei al concetto dell'uccidere, almeno in parte,
in nome di una fede religiosa. Quando si tratta di questa
particolare piaga dell'umanità, nessun popolo è senza
macchia e nessuna tradizione religiosa è senza colpa.
L'essere umano in genere è spinto a porsi domande ai fini
della conoscenza: valutare, scegliere e avere dei motivi per
dare valore alle cose e per amarle sono caratteristiche
tipiche della persona umana. Questo nostro desiderio
intrinseco di conoscere riguarda in parte i motivi della
nostra stessa esistenza, perché siamo nati e che cosa
succederà quando moriremo, domande che ci conducono a
ricercare la verità su quelli
che
dovrebbero essere i propositi essenziali della nostra vita,
tra cui, per molta gente, la questione della fede. Alcuni di
coloro che hanno firmato questa lettera ritengono che
l'essere umano sia "religioso" per natura, nel
senso che tutti, compresi quelli che non credono in Dio e
non prendono parte a una fede religiosa organizzata, operano
delle scelte di valori, ossia decidono che cosa è
importante e quali sono, nella vita, le cose che
rispecchiano i valori più importanti. Tutti i firmatari di
questa lettera, inoltre, riconoscono che, nel mondo, la fede
religiosa e le istituzioni religiose costituiscono uno dei
fondamenti più importanti della società civile, che spesso
hanno effetti benefici e salutari sulla società umana
stessa, essendo però purtroppo a volte anche la causa di
divisioni e violenze.
Come possono, dunque, i governi e gli amministratori delle
nostre società fornire le migliori risposte a queste
importanti realtà umane e sociali? Una possibile risposta
è quella di bandire o reprimere la religione. Un'altra
soluzione potrebbe essere abbracciare un'ideologia
fondamentalmente laica, ossia assumere un atteggiamento
generale di scetticismo o di ostilità nei confronti della
religione (...). Una terza possibilità consisterebbe nello
sposare invece una teocrazia totale. ossia nel credere che
una sola religione, presumibilmente "quella vera",
debba essere obbligatoriamente imposta a tutta la società.
Noi non siamo d'accordo con nessuna di queste tre ipotesi.
La repressione legalizzata viola profondamente il concetto
di libertà civile e religiosa ed è assolutamente
incompatibile con l'esistenza stessa di una società civile
democratica. Per quanto riguarda la seconda possibilità,
sebbene il laicismo ideologico sia aumentato nella nostra
società con le ultime generazioni, siamo contrari
all'assunzione di un simile atteggiamento generalizzato, in
quanto negherebbe la legittimità pubblica di una parte
importante della società civile, oltre a costituire
comunque un atteggiamento repressivo o di negazione
dell'esistenza di quella che può essere considerata una
dimensione importante della natura umana stessa. La
teocrazia è già esistita nella storia dell'occidente
(anche se non in quella degli Stati Uniti), ma ci trova in
totale disaccordo sia per ragioni sociali sia teologiche.
Dal punto di vista sociale, l'imposizione di una determinata
religione da parte dello Stato può entrare in conflitto con
il principio di libertà di religione, che è uno dei
diritti fondamentali dell'essere umano, e inoltre una simile
imposizione potrebbe causare, se non addirittura aggravare,
i conflitti religiosi e, cosa forse ancor più importante,
potrebbe minacciare la vitalità e l'autenticità stessa
delle istituzioni religiose. Dal punto di vista teologico,
anche per coloro che sono fermamente convinti della verità
della propria fede, la coercizione di altri su questioni di
coscienza religiosa costituisce una grave violazione del
concetto stesso di religione, in quanto priva quelle persone
del diritto di rispondere liberamente e con dignità
all'invito del Creatore.
Gli Stati Uniti cercano di essere una società in cui la
fede e la libertà possano tranquillamente coesistere,
ciascuna elevando l'altra. Abbiamo uno Stato laico, ossia i
funzionari del nostro governo non sono contemporaneamente
funzionari religiosi, ma siamo anche di gran lunga la società
più religiosa del mondo occidentale. Siamo una nazione che
rispetta profondamente la libertà e la diversità
religiosa, compreso il diritto di non credere in nessun Dio,
ma siamo anche una nazione i cui cittadini recitano una
"promessa di fedeltà" (il
Pledge of Allegiance)
a "una nazione unita nel nome di Dio", e siamo una
nazione che proclama nei propri tribunali e che incide sulle
proprie monete il motto "Crediamo in Dio" (In
God We Trust).
Dal punto di vista politico, la separazione tra Chiesa e
Stato ha la funzione di mantenere la sfera politica distinta
da quella religiosa. Da un punto di vista spirituale,
inoltre, la separazione tra Chiesa e Stato permette alla
religione di essere davvero una religione, distinta e
staccata dal potere coercitivo dello Stato. In breve,
cerchiamo di separare la Chiesa dallo Stato proprio con
l'intento di proteggere e permettere la vitalità di
entrambi. (...)
Una
guerra giusta?
Conveniamo che qualsiasi guerra è un evento terribile,
suprema immagine del fallimento umano a livello politico.
Siamo inoltre consapevoli del fatto che la linea di
demarcazione tra il bene e il male non segna i confini tra
due diverse società o meno
ancora
tra due diverse religioni. In fondo, quelli di noi che sono
uomini di fede, siano essi ebrei, cristiani, musulmani o di
altra religione, riconoscono la propria responsabilità,
definita nelle sacre scritture, di amare la misericordia e
di fare tutto il possibile per
evitare la guerra e vivere nella pace. Tuttavia, la ragione,
unitamente a un'attenta riflessione a carattere morale, ci
insegna che
esistono momenti in cui la prima e più significativa
risposta al male consiste nel fermarlo.
Esistono momenti in cui muovere guerra è non solo
moralmente permesso, ma anche moralmente necessario, quale
reazione a tragici atti di violenza odio e ingiustizia. Ora
è giunto uno di quei momenti.
L'idea di una "guerra giusta" ha una base molto
vasta e affonda le sue radici nelle più svariate tradizioni
religiose e secolari di tutto il mondo. Le dottrine ebraica,
cristiana e musulmana, per esempio, racchiudono ognuna
profonde riflessioni sulla definizione di guerra giusta. Per
mettersi al sicuro, alcuni sostengono che la guerra altro
non riguarda se non i meandri dell'interesse personale e
della necessità, rendendo pertanto gran parte delle
speculazioni morali assolutamente irrilevanti. Noi non siamo
d'accordo. La mancata presa di posizione sul piano morale di
fronte alla guerra è già una presa di posizione morale
che, nel rifiuto della possibilità della ragione, accetta
l'assenza di regole negli affari internazionali e sconfina
nel cinismo. Il tentativo di applicare riflessioni morali
oggettive alla guerra equivale a difendere l'eventualità
che possa esistere una società civile e una comunità
mondiale basate sulla giustizia.
I principi che definiscono la guerra giusta ci insegnano che
i conflitti caratterizzati da aggressione e desiderio di
espansione non sono mai accettabili. Non si può combattere
una guerra per la gloria nazionale, per vendicare torti
subiti in passato, per conquiste territoriali o per
qualsiasi altro scopo non prettamente difensivo.
La
principale giustificazione morale per muovere guerra è
quella di proteggere gli innocenti dal male. S. Agostino,
la cui opera De civitate Dei, scritta agli inizi del V
secolo, ha posto le basi del pensiero sulla guerra giusta,
sostiene (riprendendo Socrate) che per un cristiano come
individuo sia meglio subire il male piuttosto che
commetterlo. Ma colui che è moralmente responsabile è
anche tenuto, o addirittura legittimato, a decidere anche a
nome di altre persone innocenti di rinunciare
all'autodifesa? Secondo S. Agostino, e secondo la più vasta
tradizione della guerra giusta, la risposta è negativa.
Qualora si abbiano prove inconfutabili che persone
innocenti, incapaci di proteggersi, saranno tragicamente
danneggiate a meno che non si ricorra alla forza coercitiva
per arrestare l'aggressore, allora il principio morale
dell'amore verso il prossimo ci induce a usare la forza.
Non si potrà fare ricorso alla guerra per contrastare
pericoli di lieve entità, discutibili o dalle incerte
conseguenze, oppure ancora pericoli che possano
plausibilmente essere appianati con il solo patteggiamento,
con appelli alla ragione, con la persuasione da parte di
terzi o altri mezzi non violenti. Ma quando il pericolo per
gli innocenti è reale e manifesto, e l'aggressore è
motivato da un'ostilità implacabile (e desidera distruggere
anziché conciliare), allora il ricorso alla forza nella
giusta misura è giustificato dal punto di vista morale.
Una guerra giusta può essere combattuta solo
da un'autorità legittima, responsabile dell'ordine
pubblico. La violenza mercenaria, opportunistica o
individualistica non è mai moralmente accettabile.
Una guerra giusta può essere mossa solo contro persone che
sono a loro volta combattenti. Le autorità della guerra
giusta nel corso della storia e nel mondo, siano esse
musulmane, ebraiche, cristiane, facenti capo ad altre
tradizioni religiose o laiche, ci insegnano costantemente
che i civili devono essere protetti contro gli attacchi
intenzionali. Pertanto, uccidere civili per vendetta o per
fermare l'aggressione da parte di persone che simpatizzano
con essi, è moralmente sbagliato. Per quanto in alcune
circostanze, ed entro limiti rigorosi, possa essere
considerato moralmente giustificabile intraprendere azioni
militari passibili di provocare morte o ferimenti non
intenzionali, ma prevedibili, di civili, non è moralmente
accettabile prefissarne l'uccisione quale obiettivo
operativo di un'azione militare.
Questi e altri principi della guerra giusta ci insegnano
come, ogni qualvolta degli esseri umani prendono in
considerazione o muovono guerra, sia possibile e necessario
affermare
la santità della vita umana e abbracciare il principio
della pari dignità umana. Tali principi, anche nel tragico
evento di una guerra, lottano per preservare e riflettere la
fondamentale verità morale che "gli altri" hanno
lo stesso diritto di vivere, la stessa dignità umana e gli
stessi diritti umani che abbiamo noi.
L'11
settembre 2001.
un gruppo di individui ha deliberatamente attaccato gli
Stati Uniti, utilizzando aeroplani dirottati come armi con
le quali uccidere oltre 3.000
nostri concittadini a New York, nella Pennsylvania e
a Washington in meno di due ore. La stragrande maggioranza
delle vittime dell'11 settembre era composta da civili, non
da combattenti, di cui gli assassini non sapevano
assolutamente nulla, se non che erano americani. Chi è
morto la mattina dell'11 settembre è stato ucciso
illegalmente, a cuor leggero e con una malvagità
premeditata - un tipo di massacro che, a rigor di
precisione, può essere descritto soltanto come omicidio. Le
vittime includevano persone di ogni razza, etnia, religione
- tanto lavapiatti, quanto dirigenti aziendali.
Gli individui che hanno commesso questi atti di guerra non
hanno agito da soli, senza aiuto o per motivi oscuri. Erano
membri di una rete "islamicista" internazionale,
attiva in 40 paesi, ora nota come Al Qaida. Questo gruppo, a
sua volta, non rappresenta altro che un ramo di un movimento
"islamicista" radicale più ampio, sviluppatosi
nell'arco di decenni e, in alcuni casi, tollerato e persino
sostenuto dai governi, che professa il desiderio di
ricorrere all'omicidio per perseguire il raggiungimento dei
propri obiettivi e dimostra sempre più di esserne capace.
Usiamo i termini "Islam" e "islamico"
per indicare una delle grandi religioni mondiali, con 1,2
miliardi circa di seguaci, inclusi diversi milioni di
cittadini americani, alcuni dei quali sono rimasti uccisi l'11
settembre. Non sarebbe necessario dirlo, ma lo dichiariamo
qui una volta sola, chiaramente; la grande maggioranza dei
musulmani nel mondo, guidati dagli insegnamenti del Corano,
è rispettabile, leale e pacifica. Usiamo i termini
"islamismo" e "islamista radicale" per
indicare il movimento politico-religioso violento,
estremista e radicalmente intollerante che ora minaccia il
mondo, incluso il mondo musulmano.
Questo movimento violento e radicale non è contrario
soltanto a determinate politiche americane e occidentali -
anche alcuni firmatari di questa lettera si oppongono a tali
politiche - ma anche a un principio fondamentale del mondo
moderno, la tolleranza religiosa, nonché a quei diritti
umani basilari, in particolare la libertà di coscienza e di
religione, che sono inclusi nella Dichiarazione universale
dei diritti umani delle Nazioni Unite.
Questo movimento estremista afferma di parlare a nome
dell'Islam, ma tradisce i principi islamici fondamentali.
L'Islam si oppone alle atrocità morali. Per esempio,
riflettendo la dottrina del Corano e l'esempio del profeta,
gli studiosi musulmani hanno insegnato, attraverso i secoli,
che la lotta attuata seguendo le vie di Dio (cioè, il jihad),
proibisce l'uccisione premeditata di non combattenti e
richiede di intraprendere l'azione militare soltanto su
ordine delle autorità pubbliche legittime. (...)
Coloro che hanno trucidato più di 3.000 persone l'11
settembre e che, per propria ammissione, non desiderano
altro che ripetere l'azione, rappresentano un evidente
pericolo per tutte le persone di buona volontà ovunque nel
mondo, non soltanto negli Stati Uniti. Questi atti sono un
chiaro esempio di aggressione palese contro vite innocenti,
un
male che minaccia il mondo e la cui eliminazione richiede,
evidentemente, l'uso della forza. Assassini organizzati, che
hanno una portata globale, ora minacciano tutti noi. Nel
nome della moralità umana universale, e pienamente
consapevoli dei limiti e dei requisiti di una guerra giusta,
sosteniamo la decisione del nostro governo e della nostra
società di usare la forza delle armi contro di essi.
Conclusione
Promettiamo solennemente di fare quanto in nostro potere per
difenderci dalle tentazioni pericolose - in particolare,
dall'arroganza e dallo sciovinismo - cui le nazioni in
guerra sembrano così spesso cedere. Allo stesso tempo, con
una sola voce dichiariamo solennemente che, per la nostra
nazione e per i suoi alleati, è essenziale vincere questa
guerra. Combattiamo per difenderci, ma crediamo anche di
lottare per proteggere la dignità e i diritti
umani, principi universali che rappresentano la
migliore speranza per l'umanità.
Un giorno, questa guerra finirà. Quando accadrà - e, per
certi aspetti, anche prima che finisca - ci attenderà il
grande compito della conciliazione. Speriamo che questa
guerra, arrestando un implacabile male globale, possa
accrescere le possibilità di una comunità mondiale basata
sulla giustizia. Ma siamo coscienti del fatto che soltanto i
pacificatori tra di noi, presenti in ogni società, potranno
garantire che questa guerra non sarà stata vana.
In particolare, desideriamo rivolgerci ai nostri fratelli e
alle nostre sorelle nelle società musulmane. Ve lo
dichiariamo apertamente:
non siamo nemici, ma amici, Non dobbiamo essere nemici.
Abbiamo tanto in comune. Insieme possiamo ottenere grandi
risultati, Riteniamo di combattere per la vostra dignità
umana, non meno che per la nostra, per i vostri diritti e
opportunità di vivere una vita prospera, non meno che per i
nostri. Sappiamo che alcuni di voi non hanno alcuna fiducia
in noi e sappiamo che noi americani siamo in parte
responsabili per questo, Ma non dobbiamo essere nemici.
Pieni di speranza, desideriamo unirci a voi e a tutte le
persone di buona
volontà per costruire una pace giusta e duratura.
Firmatari
Enola Aird (Direttore del Motherhood Project: Council
on Civil Society);
John Atlas (Presidente del National Housing Institute); Jay
Belsky (Direttore dell'Istituto di Studi dei bambini,
famiglia e affari sociali dell'Università di Londra); David
Blankenhorn (Presidente, dell'Institute for American Values);
David Bosworth (Università di Washington); R, Maurice Boyd
(The City Church. New York); Gerard V
Bradley (Professore di Legge, Università di Notre
Dame); Margaret E Brinig
(Edward A Howry Distinguished Professor, Università dell'Iowa.
College of Law):
Allan Carlson (The Howard Center for Family, Religion. and
Society); Khalid Duràn (Direttore di
Translslam Magaziner); Paul Ekman (Professore di Psicologia,
Università della California, San Francisco); Jean Bethke
Elshtain (Laura Spelman Rockefeller Professor of
Social and Political Ethics. Università of
Chicago Divinity School); Amitai Etzioni (The George
Washington University); Hillel Fradkin (Presidente dell'Ethics
and Public Policy Center?
Samuel G, Freedman (Professore alla Columbia University
Graduate School of Journalism);
Francis Fukuyama (Bernard Schwartz Professor of
International Political Economy, Johns Hopkins
University); William A, Galston (Professare alla School of
Public Affairs, Università del :Maryland; Director
Institute for Philosophy and Public Policy);
Claire Gaudiani (Yale Law School); Robert P.
George (Professore di Giurisprudenza e Politica alla
Princeton University); Neil Gilbert (Professore alla School of
Social Welfare, Università della California,
Berkeley); Mary Ann Glendon (Learned Hand Professor of
Law. Harvard University Law School); Norval D. Glenn
(Professore di Sociologia e Stiles Professor of
American Studies, University del Texas ad Austin); Os
Guinness (Senior Fel low,
Trinity Forum); David Gutmann (Professore Emerito di
Psychiatry and Education, Northwestern Univer sity); Kevin
J, "Seamus" Hasson (Becket Fund for Religious
Liberty); Sylvia Ann Hewlett (National Parenting Association);
James Davison Hunter (Professore di So ciology
and Religious Studies and Executive Director, Center
on Religion and Democracy. University della Virginia);
Samuel Huntington (Harvard University); Byron Johnson
(Center for Research on Religion and Urban Ci vil
Society, University della Pennsylvania); James Turner
Johnson (Department of Religion,
Rutgers Univer-ity); John Kelsay (Professore di Religione,
Florida State University); Diane Knippers (Presidente dell'Institute
on Religion and Democracy); Thomas C,
Kohler (Boston College Law School); Glenn C, Loury
(Professor of Economics
and Director, Institute on Race and Social Division, Boston
University); Harvey C. Mansfield
(Professore di Government, Harvard University); Will
Marshall (Presidente del Progressive Policy
Institute); Richard J. Mouw (Presidente del Fuller
Theological Seminary); Daniel Patrick Moynihan (Maxwell
School of Citizenship
and Public Affairs, Syracuse University); John E, Murray Jr,
(Professore di Legge, Duquesne University); Michael Novak (Chair
in Religion and Public Policy,
American Enterprise Institute); Rev. Val J, Peter
(Direttore esecutivo Boys and Girls Town);
David Popenoe (Professore di Sociologia e
condirettore del National Marriage Project. Rutgers
University); Robert D, Putnam (Professor of
Public Policy alla
Kennedy School of Government,
Harvard tiniversity); Gloria G, Rodriguez (Fondatrice e
Presidente di AVANCE.); Robert Royal (Presidente del Faith
& Reason Institute); Nina Shea (Direttore Freedom's
House's Center for Religious Freedom); Fred Siegel
(Professore di Storia, The Cooper Union); Theda Skocpol
(Professor of Government
and Sociology, Harvard University); Katherine Shaw Spaht
(Professore di Legge, Louisiana State University Law
Center); Max L. Stackhouse (Professore di Christian Ethics e
Direttore del Project on Public Theology, Princeton
Theological Seminary); William Tell,
Jr. (The William
and Karen Tell Foundation); Maris A,
Vinovskis (Professore di Storia alfUniversità del
Michigan); Paul C, Vitz (Professore di Psicologia alla New
York Univer sity); Michael Walzer (Professor e alla School of
Social Science, Institute for Advanced Study); George
Weigel (Senior Fellow, Ethics and Public Policy
Center): Charles Wilson (Direttore del Center for the
Study of Southern Culture, University of
Mississippi); James Q, Wilson (Professore di
Management and Public Policy
Emeritus, UCLA); John Witte (Professore di Legg ed
Etica alla Emory University Law School); Christopher Wolfe
(Professore di Scienze Politiche, Marquette University);
Daniel Yankelovich (Presidente di Public Agenda),
Il
girotondo intorno al mondo di sessanta intellettuali liberal
e conservative
Non
sono studiosi e accademici di
una parte politica, non è un manifesto di
conservatori a sostegno del
presidente Bush, e non solo perché tra loro figura
Daniel Patrick Moynihan, ex senatore, anzi l'ex senatore più
liberal d'America, o Michael Walzer, professore a Princeton,
che è sempre stato un socialista, o Samuel Freedman, ex
giornalista del New York Times, ora alla Columbia, o Amitai
Etzioni, George Washington University, leader del
comunitarismo, Mary Ann Glendon, Harvard, teologa del Papa,
Francis Fukuyama, della Johns Hopkins, profeta della fine
della storia; non solo perché l'Institute
for American Values,
che ha promosso l'appello, e il suo presidente David
Blankenhorn, hanno da sempre in uggia la "old dicotomy"
di destra e sinistra, e si dichiarano in questo
rigorosamente non-partisan; ma soprattutto perché questa
lettera dall'America, non all'America che già così la
pensa, è il perfezionamento,
la declinazione collettiva, e anche la presa d'atto, di un
passaggio importante nel mondo dell'accademia e della
cultura americane, quel che il direttore della rivista Salon,
David Talbot, ha ben definito "the
making of a hawk",
la costruzione di un falco, la mutazione di pelle di due o
tre generazioni di intellettuali che credevano di morire
libera) e pacifisti, ma oggi ammettono con coraggio civile
che invece non è così, che si sono sbagliati, avevano
torto, "ci sono tempi nei quali appoggiare la guerra
non
è solo consentito moralmente, è anche necessario
moralmente, è la risposta ad atti tremendi di violenza,
odio e ingiustizia". E
che questo, il lungo dopo 11
settembre, è uno di quei tempi.
I
sessanta dell'appello
rappresentano il meglio della cultura universitaria, non
hanno bisogno di pubblicità né di dichiarazioni di fede;
piuttosto sentono il bisogno di sistemare un dibattito
forte, che era cominciato con le accuse all'imperialismo di
Susan Sontag e di Noam
Chomsky, con le invettive di Gore Vidal, con le convocazioni
di assemblee pacifiste nei campus, insomma con il repertorio
storico e abituale, ma poi è cambiato, non ce l'ha fatta.
Mancava il seguito, i giovani andavano ad arruolarsi nella
Cia e nell'Fbi, veneravano i
vigili
del fuoco,
cantavano l'inno Nazionale; i cantanti rock hanno
organizzato concerti che si chiamavano "tribute
to the heroes",
Paul
McCartney
si è messo a cantare "la libertà per la quale è
giusto combattere", riviste liberal come The New
Republic ad attaccare il relativismo culturale che per
troppi anni ha impedito di giudicare e scegliere, l'eccesso
di politically
correct che ha mascherato accidia e impotenza. I
morti dell'11 settembre pesano tanto.
Pesano anche sulla coscienza degli intellettuali, degli
educatori. E' questo
che ammettono i sessanta, che ora è il
momento di parlare chiaro. La lettera non nomina la
campagna militare
contro l'Afghanistan, non parla dei Talebani, di condizioni
dei prigionieri, di cattura di Osama o di attacco all'Iraq.
Fa di più, definisce il nemico, "l'islamismo radicale,
un movimento politico e religioso violento, estremista,
radicale, intollerante, che ora minaccia il mondo":
denuncia l'imbroglio degli integralisti, i quali
"proclamano di parlare a nome dell'lslam ma ne
tradiscono i principi fondamentali, che proibiscono
l'uccisione deliberata di non combattenti e consentono
un'azione militare solo se ordinata dalla legittima autorità";
chiama il resto dei paesi civili alla guerra contro il
movimento integralista islamico, che "tradisce la
religione, rigetta le fondamenta della vita civilizzata e la
stessa possibilità di pace tra le nazioni".
Nell'appello è forte il richiamo ai "founding ideals",
ai valori che non appartengono solo agli Stati Uniti
d'America, che il mondo intero ama e persegue: la
convinzione dell'eguale dignità della persona; la
convinzione che le verità universali morali esistono e sono
accessibili a tutti; la convinzione che i contrasti e i
disaccordi richiedono apertura ad altri
punti di vista e ragionevolezza nella ricerca della verità;
la convinzione che debba esserci libertà di espressione e
di religione. E' anche
un appello all'Europa e ai suoi intellettuali che in questi
giorni rumoreggiano e si agitano come nel passato liberal
che all'America appare già così lontano.
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