Terrorismo

Per che cosa combattiamo

Il documento bipartisan sulla guerra giusta e sulla superiorità dei nostri principi universali


L’“Institute for American Values” ha promosso un documento bipartisan sulla guerra degli Stati Uniti contro il terrorismo, firmato dai 60 maggiori esponenti della cultura universitaria americana, sia liberal che conservative. Secondo il documento, l’accanimento contro gli Stati Uniti è di tipo culturale, è un attacco ai "valori americani", che non possono essere limitati a quelli negativi (libertà come assenza di regole; indebolimento del matrimonio e della realtà familiare; consumismo sfrenato), ma sono anche la dignità umana come diritto di nascita; il riconoscimento di verità morali universali come esistenti e accessibili a tutti; la libertà di religione.
«È per questo che chiunque, in linea di principio, può diventare un americano. E, in pratica, chiunque lo fa… Alcuni asseriscono che questi valori non sono per nulla universali, ma derivano invece dalla civiltà occidentale, largamente cristiana… Noi non siamo d’accordo. Riconosciamo i conseguimenti della nostra civiltà, ma siamo convinti che tutte le persone sono state create uguali… Storicamente, nessun’altra nazione ha forgiato la propria identità intrinseca - la propria costituzione e altri documenti fondamentali, come pure la propria consapevolezza di sé - in modo così diretto ed esplicito sulla base di valori umani universali. Per noi, nessun altro fatto di questo paese è più importante».

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Preambolo

Talvolta si rivela necessario, per una nazione, difendersi con l'uso delle armi. Poiché la guerra è una questione grave, che implica il sacrificio e la perdita di preziose vite umane, la coscienza impone che coloro che decidono di muovere guerra affermino chiaramente il fondamento morale che sottende le loro azioni, al fine di chiarire a se stessi, e alla comunità mondiale, i principi che stanno difendendo.Noi affermiamo cinque verità fondamentali che riguardano tutti:


1. Tutti gli esseri umani sono nati liberi e uguali quanto a dignità e diritti.

2. Il soggetto fondamentale della società è l'essere umano, e il ruolo legittimo del governo è quello di proteggere e aiutare a promuovere le condizioni necessarie alla prosperità umana.

3. Gli esseri umani desiderano intrinsecamente scoprire la verità in merito agli scopi e ai fini ultimi della vita.

4. La libertà di coscienza e la libertà di religione sono diritti inalienabili della persona umana.

5. Uccidere nel nome di Dio è contrario alla fede in Dio e rappresenta il più grave tradimento dell'universalità della fede religiosa.

Noi combattiamo per difendere noi stessi e questi principi universali.



Quali sono i valori americani?

Dopo l'11 settembre, milioni di americani si chiedono e si domandano l'un l'altro: "Perché?". Perché siamo l'obiettivo di questi attacchi spregevoli? Perché coloro che tentano di ucciderci vogliono farlo?


Riconosciamo che talvolta la nostra nazione ha agito con arroganza e ignoranza nei confronti di altre società. Talvolta la nostra nazione ha perseguito politiche ingiuste. Troppe volte noi, come nazione, non siamo stati in grado di comportarci all'altezza dei nostri ideali. Non possiamo spronare altre società a conformarsi ai principi morali se non ammettiamo contemporaneamente l'incapacità della nostra stessa società di rispettare, a volte, quegli stessi principi. Siamo uniti nella nostra convinzione - e siamo certi che tutti gli uomini di buona volontà in tutto il mondo saranno d'accordo con noi - che nessun appello ai meriti o demeriti di determinate politiche estere possa mai giustificare, o eventualmente implicare, per legittimare, la strage di persone innocenti.


Inoltre, in una democrazia come la nostra, nella quale il governo trae il proprio potere dal consenso di coloro che vengono governati, la politica deriva, almeno parzialmente, dalla cultura, dai valori e dalle priorità della società nel suo complesso. Sebbene noi non pretendiamo di possedere la piena conoscenza delle motivazioni che muovono i nostri aggressori e i loro simpatizzanti, quello che sappiamo ci suggerisce che il loro risentimento si estende ben al di là di qualunque politica o linea d'azione. Dopo tutto, gli attentatori dell'11 settembre non hanno fatto nessuna richiesta particolare; in questo senso, perlomeno, l'uccisione è stata perpetrata in modo fine a se stesso. Il leader di Al Qaida ha descritto i "fausti attacchi" dell'11 settembre come dei colpi contro l'America, "il capo dell'infedeltà mondiale". Chiaramente, quindi, i nostri aggressori non disprezzano soltanto il nostro governo, ma la nostra società in generale, il nostro modo di vivere globale. Fondamentalmente, il loro risentimento non è rivolto soltanto contro l'operato dei nostri leader, ma anche contro le nostre stesse persone.


Chi siamo dunque? Che valori abbiamo? Per molta gente, inclusi molti americani e diversi firmatari di questa lettera, alcuni valori talvolta invalsi in America sono poco attraenti e addirittura nocivi. Il consumismo come modus vivendi. Il concetto di libertà come assenza di regole. La nozione dell'individuo come un sovrano assoluto che si è fatto da sé, e che deve poco agli altri o alla società. L'indebolimento del matrimonio e della vita familiare. Con l'aggiunta di un enorme apparato di intrattenimento e comunicazione che glorifica incessantemente tali ideali e li diffonde, sia che siano desiderati o no, in quasi ogni angolo del globo.


Un importante compito che noi americani ci troviamo di fronte - importante già prima dell'11 settembre - è affrontare onestamente questi sgradevoli aspetti della nostra società e fare tutto quanto in nostro potere per cambiarli in meglio.


Al contempo, altri valori americani - quelli che consideriamo i nostri ideali fondamentali, e che definiscono maggiormente il nostro stile di vita - sono completamente diversi da questi, e sono molto più allettanti, non solo per gli americani, ma per la gente di tutto il mondo.


Illustriamone brevemente quattro.

Il
primo è la convinzione che tutti possiedono una dignità umana come diritto di nascita, e che quindi ogni persona deve sempre essere trattata come un fine anziché venire usata come un mezzo. I Padri Fondatori degli Stati Uniti, basandosi sulla tradizione della legge naturale, nonché sul presupposto religioso che tutti gli uomini sono creati a immagine di Dio, proclamarono come "manifesta" l'idea che tutte le persone possiedono pari dignità. L'espressione politica più palese della fede nella dignità umana trascendente è la democrazia. Negli Stati Uniti, nelle ultime generazioni, tra le espressioni culturali più marcate di questa convinzione si è imposta l'affermazione della pari dignità di uomini e donne, e di tutte le persone, indipendentemente dalla razza o dal colore della pelle.


Il
secondo, che dipende strettamente dal primo, è la convinzione che le verità morali universali esistono e sono accessibili a tutte le persone. Alcune delle espressioni più eloquenti del nostro affidamento su queste verità sono ravvisabili nella nostra Dichiarazione di Indipendenza, nel discorso di addio di George Washington, nel discorso di Gettysburg e nel secondo discorso inaugurale di Abramo Lincoln, e nella lettera dalla prigione di Martin Luther King.


Il
terzo è la convinzione che, poiché il nostro accesso individuale e collettivo alla verità è imperfetto, molti disaccordi in merito ai valori richiedono civiltà, apertura nei confronti delle opinioni degli altri, nonché ragionevoli argomentazioni a favore del perseguimento della verità.


Il
quarto è la libertà di coscienza e la libertà di religione. Queste due libertà intrinsecamente connesse sono ampiamente riconosciute come il presupposto per tutti gli altri tipi di libertà individuale.


Questi valori riguardano tutte le persone senza alcuna distinzione, e non possono essere usati per escludere alcuno dal riconoscimento e dal rispetto. E' per questo che chiunque, in linea di principio, può diventare un americano. E, in pratica, chiunque lo fa. Persone da qualunque parte del mondo vengono nel nostro paese con quello che una statua nel porto di New York chiama un desiderio di respirare liberamente e, molto presto, diventano americani. Storicamente, nessun'altra nazione ha forgiato la propria identità intrinseca - la propria costituzione
e altri documenti fondamentali, come pure la propria consapevolezza di sé - in modo così diretto ed esplicito sulla base di valori umani universali. Per noi, nessun altro fatto di questo paese è più importante.


Alcuni asseriscono che questi valori non sono per nulla universali, ma derivano invece dalla civiltà occidentale, largamente cristiana. Essi sostengono che concepire questi valori come universali significa negare il carattere distintivo di altre culture. Noi non siamo d'accordo. Riconosciamo i conseguimenti della nostra civiltà, ma siamo convinti che tutte le persone sono state create uguali. Noi crediamo nella possibilità e desiderabilità universali della libertà umana. Siamo convinti che certe verità morali fondamentali siano riconoscibili ovunque nel mondo. Siamo d'accordo con il gruppo internazionale di eminenti filosofi che, verso la fine degli anni 40, ha contribuito a creare la Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite, e che ha concluso che pochi concetti morali fondamentali sono così diffusi da "poter essere considerati intrinseci alla natura dell'uomo come membro della società". Con un sentimento di speranza, e sulla base dell'evidenza, siamo d'accordo con Martin Luther King quando afferma che l'arco dell'universo morale è lungo, ma tende verso la giustizia, e non solo per gli eletti o i fortunati, ma per tutte le persone. Guardando alla nostra società, riconosciamo ancora una volta il divario che frequentemente si crea tra i nostri ideali e il nostro comportamento. Ma, in quanto americani che vivono in un'epoca di guerra e di crisi globale, affermiamo anche che la parte migliore di quello che troppo leggermente chiamiamo "valori americani" non appartiene solo all'America, ma è in realtà l'eredità condivisa del genere umano, e pertanto una possibile base di speranza per una comunità mondiale costruita sulla pace e sulla giustizia.


E che dire di Dio?

Dopo 1'11 settembre, milioni di americani si chiedono e si domandano l'un l'altro: "Che cosa dobbiamo pensare di Dio?". Crisi di una simile proporzione ci costringono a riconsiderare i nostri principi fondamentali. Quando contempliamo l'orrore di ciò che è accaduto e il pericolo che ci sta di fronte, ci poniamo in tanti la stessa domanda: "La fede religiosa fa parte della soluzione o fa parte del problema?".


I firmatari di questa lettera appartengono a religioni e a tradizioni morali diverse, tra cui anche tradizioni laiche, ma si sentono uniti nella convinzione che invocare l'intervento e l'autorità di Dio per uccidere o menomare esseri umani sia cosa immorale e assolutamente contraria alla fede in Dio. Molti di noi sono convinti che Dio ci giudichi, ma nessuno crede che Dio abbia mai istigato qualcuno a uccidere o a sottomettere i propri simili. In verità, un simile comportamento, che si chiami "guerra santa" o "crociata", non solo costituisce una violazione dei principi fondamentali della giustizia, ma è in realtà la negazione stessa di qualunque fede religiosa, poiché trasforma Dio in un idolo che l'uomo utilizza per giustificare i propri scopi. Anche la nostra nazione ha vissuto un tempo l'esperienza della guerra civile, e anche allora ciascuna fazione presumeva che Dio la aiutasse a vincere contro l'altra.
Lincoln, il decimo presidente degli Stati Uniti, nel secondo discorso inaugurale del 1865, lo disse con semplicità: "Dio onnipotente ha i suoi progetti".


Coloro che hanno perpetrato gli attacchi dell'11 settembre dichiarano apertamente di aver intrapreso una guerra santa. E anche gran parte dei loro sostenitori o simpatizzanti sembra abbracciare la causa, accettandone come fondamento logico l'agire in nome di Dio. Ma per riconoscere gli effetti disastrosi di questo modo di pensare, noi americani non abbiamo che da ricordare la nostra stessa storia, quella occidentale: le guerre religiose cristiane e la violenza settaria cristiana hanno dilaniato l'Europa per quasi un intero secolo. Noi che viviamo negli Stati Uniti non siamo certo estranei al concetto dell'uccidere, almeno in parte, in nome di una fede religiosa. Quando si tratta di questa particolare piaga dell'umanità, nessun popolo è senza macchia e nessuna tradizione religiosa è senza colpa.


L'essere umano in genere è spinto a porsi domande ai fini della conoscenza: valutare, scegliere e avere dei motivi per dare valore alle cose e per amarle sono caratteristiche tipiche della persona umana. Questo nostro desiderio intrinseco di conoscere riguarda in parte i motivi della nostra stessa esistenza, perché siamo nati e che cosa succederà quando moriremo, domande che ci conducono a ricercare la verità su quelli
che dovrebbero essere i propositi essenziali della nostra vita, tra cui, per molta gente, la questione della fede. Alcuni di coloro che hanno firmato questa lettera ritengono che l'essere umano sia "religioso" per natura, nel senso che tutti, compresi quelli che non credono in Dio e non prendono parte a una fede religiosa organizzata, operano delle scelte di valori, ossia decidono che cosa è importante e quali sono, nella vita, le cose che rispecchiano i valori più importanti. Tutti i firmatari di questa lettera, inoltre, riconoscono che, nel mondo, la fede religiosa e le istituzioni religiose costituiscono uno dei fondamenti più importanti della società civile, che spesso hanno effetti benefici e salutari sulla società umana stessa, essendo però purtroppo a volte anche la causa di divisioni e violenze.


Come possono, dunque, i governi e gli amministratori delle nostre società fornire le migliori risposte a queste importanti realtà umane e sociali? Una possibile risposta è quella di bandire o reprimere la religione. Un'altra soluzione potrebbe essere abbracciare un'ideologia fondamentalmente laica, ossia assumere un atteggiamento generale di scetticismo o di ostilità nei confronti della religione (...). Una terza possibilità consisterebbe nello sposare invece una teocrazia totale. ossia nel credere che una sola religione, presumibilmente "quella vera", debba essere obbligatoriamente imposta a tutta la società.


Noi non siamo d'accordo con nessuna di queste tre ipotesi. La repressione legalizzata viola profondamente il concetto di libertà civile e religiosa ed è assolutamente incompatibile con l'esistenza stessa di una società civile democratica. Per quanto riguarda la seconda possibilità, sebbene il laicismo ideologico sia aumentato nella nostra società con le ultime generazioni, siamo contrari all'assunzione di un simile atteggiamento generalizzato, in quanto negherebbe la legittimità pubblica di una parte importante della società civile, oltre a costituire comunque un atteggiamento repressivo o di negazione dell'esistenza di quella che può essere considerata una dimensione importante della natura umana stessa. La teocrazia è già esistita nella storia dell'occidente (anche se non in quella degli Stati Uniti), ma ci trova in totale disaccordo sia per ragioni sociali sia teologiche. Dal punto di vista sociale, l'imposizione di una determinata religione da parte dello Stato può entrare in conflitto con il principio di libertà di religione, che è uno dei diritti fondamentali dell'essere umano, e inoltre una simile imposizione potrebbe causare, se non addirittura aggravare, i conflitti religiosi e, cosa forse ancor più importante, potrebbe minacciare la vitalità e l'autenticità stessa delle istituzioni religiose. Dal punto di vista teologico, anche per coloro che sono fermamente convinti della verità della propria fede, la coercizione di altri su questioni di coscienza religiosa costituisce una grave violazione del concetto stesso di religione, in quanto priva quelle persone del diritto di rispondere liberamente e con dignità all'invito del Creatore.


Gli Stati Uniti cercano di essere una società in cui la fede e la libertà possano tranquillamente coesistere, ciascuna elevando l'altra. Abbiamo uno Stato laico, ossia i funzionari del nostro governo non sono contemporaneamente funzionari religiosi, ma siamo anche di gran lunga la società più religiosa del mondo occidentale. Siamo una nazione che rispetta profondamente la libertà e la diversità religiosa, compreso il diritto di non credere in nessun Dio, ma siamo anche una nazione i cui cittadini recitano una "promessa di fedeltà" (
il Pledge of Allegiance) a "una nazione unita nel nome di Dio", e siamo una nazione che proclama nei propri tribunali e che incide sulle proprie monete il motto "Crediamo in Dio" (In God We Trust). Dal punto di vista politico, la separazione tra Chiesa e Stato ha la funzione di mantenere la sfera politica distinta da quella religiosa. Da un punto di vista spirituale, inoltre, la separazione tra Chiesa e Stato permette alla religione di essere davvero una religione, distinta e staccata dal potere coercitivo dello Stato. In breve, cerchiamo di separare la Chiesa dallo Stato proprio con l'intento di proteggere e permettere la vitalità di entrambi. (...)



Una guerra giusta?

Conveniamo che qualsiasi guerra è un evento terribile, suprema immagine del fallimento umano a livello politico. Siamo inoltre consapevoli del fatto che la linea di demarcazione tra il bene e il male non segna i confini tra due diverse società o meno
ancora tra due diverse religioni. In fondo, quelli di noi che sono uomini di fede, siano essi ebrei, cristiani, musulmani o di altra religione, riconoscono la propria responsabilità, definita nelle sacre scritture, di amare la misericordia e di fare tutto il possibile per evitare la guerra e vivere nella pace. Tuttavia, la ragione, unitamente a un'attenta riflessione a carattere morale, ci insegna che esistono momenti in cui la prima e più significativa risposta al male consiste nel fermarlo. Esistono momenti in cui muovere guerra è non solo moralmente permesso, ma anche moralmente necessario, quale reazione a tragici atti di violenza odio e ingiustizia. Ora è giunto uno di quei momenti.


L'idea di una "guerra giusta" ha una base molto vasta e affonda le sue radici nelle più svariate tradizioni religiose e secolari di tutto il mondo. Le dottrine ebraica, cristiana e musulmana, per esempio, racchiudono ognuna profonde riflessioni sulla definizione di guerra giusta. Per mettersi al sicuro, alcuni sostengono che la guerra altro non riguarda se non i meandri dell'interesse personale e della necessità, rendendo pertanto gran parte delle speculazioni morali assolutamente irrilevanti. Noi non siamo d'accordo. La mancata presa di posizione sul piano morale di fronte alla guerra è già una presa di posizione morale che, nel rifiuto della possibilità della ragione, accetta l'assenza di regole negli affari internazionali e sconfina nel cinismo. Il tentativo di applicare riflessioni morali oggettive alla guerra equivale a difendere l'eventualità che possa esistere una società civile e una comunità mondiale basate sulla giustizia.


I principi che definiscono la guerra giusta ci insegnano che i conflitti caratterizzati da aggressione e desiderio di espansione non sono mai accettabili. Non si può combattere una guerra per la gloria nazionale, per vendicare torti subiti in passato, per conquiste territoriali o per qualsiasi altro scopo non prettamente difensivo.


La principale giustificazione morale per muovere guerra è quella di proteggere gli innocenti dal male. S. Agostino, la cui opera De civitate Dei, scritta agli inizi del V secolo, ha posto le basi del pensiero sulla guerra giusta, sostiene (riprendendo Socrate) che per un cristiano come individuo sia meglio subire il male piuttosto che commetterlo. Ma colui che è moralmente responsabile è anche tenuto, o addirittura legittimato, a decidere anche a nome di altre persone innocenti di rinunciare all'autodifesa? Secondo S. Agostino, e secondo la più vasta tradizione della guerra giusta, la risposta è negativa. Qualora si abbiano prove inconfutabili che persone innocenti, incapaci di proteggersi, saranno tragicamente danneggiate a meno che non si ricorra alla forza coercitiva per arrestare l'aggressore, allora il principio morale dell'amore verso il prossimo ci induce a usare la forza.


Non si potrà fare ricorso alla guerra per contrastare pericoli di lieve entità, discutibili o dalle incerte conseguenze, oppure ancora pericoli che possano plausibilmente essere appianati con il solo patteggiamento, con appelli alla ragione, con la persuasione da parte di terzi o altri mezzi non violenti. Ma quando il pericolo per gli innocenti è reale e manifesto, e l'aggressore è motivato da un'ostilità implacabile (e desidera distruggere anziché conciliare), allora il ricorso alla forza nella giusta misura è giustificato dal punto di vista morale.


Una guerra giusta può essere combattuta
solo da un'autorità legittima, responsabile dell'ordine pubblico. La violenza mercenaria, opportunistica o individualistica non è mai moralmente accettabile.


Una guerra giusta può essere mossa solo contro persone che sono a loro volta combattenti. Le autorità della guerra giusta nel corso della storia e nel mondo, siano esse musulmane, ebraiche, cristiane, facenti capo ad altre tradizioni religiose o laiche, ci insegnano costantemente che i civili devono essere protetti contro gli attacchi intenzionali. Pertanto, uccidere civili per vendetta o per fermare l'aggressione da parte di persone che simpatizzano con essi, è moralmente sbagliato. Per quanto in alcune circostanze, ed entro limiti rigorosi, possa essere considerato moralmente giustificabile intraprendere azioni militari passibili di provocare morte o ferimenti non intenzionali, ma prevedibili, di civili, non è moralmente accettabile prefissarne l'uccisione quale obiettivo operativo di un'azione militare.


Questi e altri principi della guerra giusta ci insegnano come, ogni qualvolta degli esseri umani prendono in considerazione o muovono guerra, sia possibile e necessario
affermare la santità della vita umana e abbracciare il principio della pari dignità umana. Tali principi, anche nel tragico evento di una guerra, lottano per preservare e riflettere la fondamentale verità morale che "gli altri" hanno lo stesso diritto di vivere, la stessa dignità umana e gli stessi diritti umani che abbiamo noi.


L'11 settembre 2001. un gruppo di individui ha deliberatamente attaccato gli Stati Uniti, utilizzando aeroplani dirottati come armi con le quali uccidere oltre 3.000 nostri concittadini a New York, nella Pennsylvania e a Washington in meno di due ore. La stragrande maggioranza delle vittime dell'11 settembre era composta da civili, non da combattenti, di cui gli assassini non sapevano assolutamente nulla, se non che erano americani. Chi è morto la mattina dell'11 settembre è stato ucciso illegalmente, a cuor leggero e con una malvagità premeditata - un tipo di massacro che, a rigor di precisione, può essere descritto soltanto come omicidio. Le vittime includevano persone di ogni razza, etnia, religione - tanto lavapiatti, quanto dirigenti aziendali.


Gli individui che hanno commesso questi atti di guerra non hanno agito da soli, senza aiuto o per motivi oscuri. Erano membri di una rete "islamicista" internazionale, attiva in 40 paesi, ora nota come Al Qaida. Questo gruppo, a sua volta, non rappresenta altro che un ramo di un movimento "islamicista" radicale più ampio, sviluppatosi nell'arco di decenni e, in alcuni casi, tollerato e persino sostenuto dai governi, che professa il desiderio di ricorrere all'omicidio per perseguire il raggiungimento dei propri obiettivi e dimostra sempre più di esserne capace.


Usiamo i termini "Islam" e "islamico" per indicare una delle grandi religioni mondiali, con 1,2 miliardi circa di seguaci, inclusi diversi milioni di cittadini americani, alcuni dei quali sono rimasti uccisi l'11 settembre. Non sarebbe necessario dirlo, ma lo dichiariamo qui una volta sola, chiaramente; la grande maggioranza dei musulmani nel mondo, guidati dagli insegnamenti del
Corano, è rispettabile, leale e pacifica. Usiamo i termini "islamismo" e "islamista radicale" per indicare il movimento politico-religioso violento, estremista e radicalmente intollerante che ora minaccia il mondo, incluso il mondo musulmano.


Questo movimento violento e radicale non è contrario soltanto a determinate politiche americane e occidentali - anche alcuni firmatari di questa lettera si oppongono a tali politiche - ma anche a un principio fondamentale del mondo moderno, la tolleranza religiosa, nonché a quei diritti umani basilari, in particolare la libertà di coscienza e di religione, che sono inclusi nella Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite.


Questo movimento estremista afferma di parlare a nome dell'Islam, ma tradisce i principi islamici fondamentali. L'Islam si oppone alle atrocità morali. Per esempio, riflettendo la dottrina del Corano e l'esempio del profeta, gli studiosi musulmani hanno insegnato, attraverso i secoli, che la lotta attuata seguendo le vie di Dio (cioè, il jihad), proibisce l'uccisione premeditata di non combattenti e richiede di intraprendere l'azione militare soltanto su ordine delle autorità pubbliche legittime. (...)


Coloro che hanno trucidato più di 3.000 persone l'11 settembre e che, per propria ammissione, non desiderano altro che ripetere l'azione, rappresentano un evidente pericolo per tutte le persone di buona volontà ovunque nel mondo, non soltanto negli Stati Uniti. Questi atti sono un chiaro esempio di aggressione palese contro vite innocenti,
un male che minaccia il mondo e la cui eliminazione richiede, evidentemente, l'uso della forza. Assassini organizzati, che hanno una portata globale, ora minacciano tutti noi. Nel nome della moralità umana universale, e pienamente consapevoli dei limiti e dei requisiti di una guerra giusta, sosteniamo la decisione del nostro governo e della nostra società di usare la forza delle armi contro di essi.



Conclusione

Promettiamo solennemente di fare quanto in nostro potere per difenderci dalle tentazioni pericolose - in particolare, dall'arroganza e dallo sciovinismo - cui le nazioni in guerra sembrano così spesso cedere. Allo stesso tempo, con una sola voce dichiariamo solennemente che, per la nostra nazione e per i suoi alleati, è essenziale vincere questa guerra. Combattiamo per difenderci, ma crediamo anche di lottare per proteggere la dignità e i diritti umani, principi universali che rappresentano la migliore speranza per l'umanità.


Un giorno, questa guerra finirà. Quando accadrà - e, per certi aspetti, anche prima che finisca - ci attenderà il grande compito della conciliazione. Speriamo che questa guerra, arrestando un implacabile male globale, possa accrescere le possibilità di una comunità mondiale basata sulla giustizia. Ma siamo coscienti del fatto che soltanto i pacificatori tra di noi, presenti in ogni società, potranno garantire che questa guerra non sarà stata vana.


In particolare, desideriamo rivolgerci ai nostri fratelli e alle nostre sorelle nelle società musulmane. Ve lo dichiariamo aper
tamente: non siamo nemici, ma amici, Non dobbiamo essere nemici. Abbiamo tanto in comune. Insieme possiamo ottenere grandi risultati, Riteniamo di combattere per la vostra dignità umana, non meno che per la nostra, per i vostri diritti e opportunità di vivere una vita prospera, non meno che per i nostri. Sappiamo che alcuni di voi non hanno alcuna fiducia in noi e sappiamo che noi americani siamo in parte responsabili per questo, Ma non dobbiamo essere nemici. Pieni di speranza, desideriamo unirci a voi e a tutte le persone di buona volontà per costruire una pace giusta e duratura.


Firmatari


Enola Aird (Direttore del Motherhood Project: Council on Civil Society); John Atlas (Presidente del National Housing Institute); Jay Belsky (Direttore dell'Istituto di Studi dei bambini, famiglia e affari sociali dell'Università di Londra); David Blankenhorn (Presidente, dell'Institute for American Values); David Bosworth (Università di Washington); R, Maurice Boyd (The City Church. New York); Gerard V Bradley (Professore di Legge, Università di Notre Dame); Margaret E Brinig (Edward A Howry Distinguished Professor, Università dell'Iowa. College of Law): Allan Carlson (The Howard Center for Family, Religion. and Society); Khalid Duràn (Direttore di Translslam Magaziner); Paul Ekman (Professore di Psicologia, Università della California, San Francisco); Jean Bethke Elshtain (Laura Spelman Rockefeller Professor of Social and Political Ethics. Università of Chicago Divinity School); Amitai Etzioni (The George Washington University); Hillel Fradkin (Presidente dell'Ethics and Public Policy Center? Samuel G, Freedman (Professore alla Columbia University Graduate School of Journalism); Francis Fukuyama (Bernard Schwartz Professor of International Political Economy, Johns Hopkins University); William A, Galston (Professare alla School of Public Affairs, Università del :Maryland; Director Institute for Philosophy and Public Policy); Claire Gaudiani (Yale Law School); Robert P. George (Professore di Giurisprudenza e Politica alla Princeton University); Neil Gilbert (Professore alla School of Social Welfare, Università della California, Berkeley); Mary Ann Glendon (Learned Hand Professor of Law. Harvard University Law School); Norval D. Glenn (Professore di Sociologia e Stiles Professor of American Studies, University del Texas ad Austin); Os Guinness (Senior Fel low, Trinity Forum); David Gutmann (Professore Emerito di Psychiatry and Education, Northwestern Univer sity); Kevin J, "Seamus" Hasson (Becket Fund for Religious Liberty); Sylvia Ann Hewlett (National Parenting Association); James Davison Hunter (Professore di So ciology and Religious Studies and Executive Director, Center on Religion and Democracy. University della Virginia); Samuel Huntington (Harvard University); Byron Johnson (Center for Research on Religion and Urban Ci vil Society, University della Pennsylvania); James Turner Johnson (Department of Religion, Rutgers Univer-ity); John Kelsay (Professore di Religione, Florida State University); Diane Knippers (Presidente dell'Institute on Religion and Democracy); Thomas C, Kohler (Boston College Law School); Glenn C, Loury (Professor of Economics and Director, Institute on Race and Social Division, Boston University); Harvey C. Mansfield (Professore di Government, Harvard University); Will Marshall (Presidente del Progressive Policy Institute); Richard J. Mouw (Presidente del Fuller Theological Seminary); Daniel Patrick Moynihan (Maxwell School of Citizenship and Public Affairs, Syracuse University); John E, Murray Jr, (Professore di Legge, Duquesne University); Michael Novak (Chair in Religion and Public Policy, American Enterprise Institute); Rev. Val J, Peter (Direttore esecutivo Boys and Girls Town); David Popenoe (Professore di Sociologia e condirettore del National Marriage Project. Rutgers University); Robert D, Putnam (Professor of Public Policy alla Kennedy School of Government, Harvard tiniversity); Gloria G, Rodriguez (Fondatrice e Presidente di AVANCE.); Robert Royal (Presidente del Faith & Reason Institute); Nina Shea (Direttore Freedom's House's Center for Religious Freedom); Fred Siegel (Professore di Storia, The Cooper Union); Theda Skocpol (Professor of Government and Sociology, Harvard University); Katherine Shaw Spaht (Professore di Legge, Louisiana State University Law Center); Max L. Stackhouse (Professore di Christian Ethics e Direttore del Project on Public Theology, Princeton Theological Seminary); William Tell, Jr. (The William and Karen Tell Foundation); Maris A, Vinovskis (Professore di Storia alfUniversità del Michigan); Paul C, Vitz (Professore di Psicologia alla New York Univer sity); Michael Walzer (Professor e alla School of Social Science, Institute for Advanced Study); George Weigel (Senior Fellow, Ethics and Public Policy Center): Charles Wilson (Direttore del Center for the Study of Southern Culture, University of Mississippi); James Q, Wilson (Professore di Management and Public Policy Emeritus, UCLA); John Witte (Professore di Legg ed Etica alla Emory University Law School); Christopher Wolfe (Professore di Scienze Politiche, Marquette University); Daniel Yankelovich (Presidente di Public Agenda),




Il girotondo intorno al mondo di sessanta intellettuali liberal e conservative

Non sono studiosi e accademici di una parte politica, non è un manifesto di conservatori a sostegno del presidente Bush, e non solo perché tra loro figura Daniel Patrick Moynihan, ex senatore, anzi l'ex senatore più liberal d'America, o Michael Walzer, professore a Princeton, che è sempre stato un socialista, o Samuel Freedman, ex giornalista del New York Times, ora alla Columbia, o Amitai Etzioni, George Washington University, leader del comunitarismo, Mary Ann Glendon, Harvard, teologa del Papa, Francis Fukuyama, della Johns Hopkins, profeta della fine della storia; non solo perché l'Institute for American Values, che ha promosso l'appello, e il suo presidente David Blankenhorn, hanno da sempre in uggia la "old dicotomy" di destra e sinistra, e si dichiarano in questo rigorosamente non-partisan; ma soprattutto perché questa lettera dall'America, non all'America che già così la pensa, è il perfezionamento, la declinazione collettiva, e anche la presa d'atto, di un passaggio importante nel mondo dell'accademia e della cultura americane, quel che il direttore della rivista Salon, David Talbot, ha ben definito "the making of a hawk", la costruzione di un falco, la mutazione di pelle di due o tre generazioni di intellettuali che credevano di morire libera) e pacifisti, ma oggi ammettono con coraggio civile che invece non è così, che si sono sbagliati, avevano torto, "ci sono tempi nei quali appoggiare la guerra non è solo consentito moralmente, è anche necessario moralmente, è la risposta ad atti tremendi di violenza, odio e ingiustizia". E che questo, il lungo dopo 11 settembre, è uno di quei tempi.


I sessanta dell'appello rappresentano il meglio della cultura universitaria, non hanno bisogno di pubblicità né di dichiarazioni di fede; piuttosto sentono il bisogno di sistemare un dibattito forte, che era cominciato con le accuse all'imperialismo di Susan Sontag e di Noam Chomsky, con le invettive di Gore Vidal, con le convocazioni di assemblee pacifiste nei campus, insomma con il repertorio storico e abituale, ma poi è cambiato, non ce l'ha fatta. Mancava il seguito, i giovani andavano ad arruolarsi nella Cia e nell'Fbi, veneravano i  vigili del fuoco, cantavano l'inno Nazionale; i cantanti rock hanno organizzato concerti che si chiamavano "tribute to the heroes", Paul McCartney si è messo a cantare "la libertà per la quale è giusto combattere", riviste liberal come The New Republic ad attaccare il relativismo culturale che per troppi anni ha impedito di giudicare e scegliere, l'eccesso di politically correct che ha mascherato accidia e impotenza. I morti dell'11 settembre pesano tanto.


Pesano anche sulla coscienza degli intellettuali, degli educatori. E' questo che ammettono i sessanta, che ora è il momento di parlare chiaro. La lettera non nomina la campagna
militare contro l'Afghanistan, non parla dei Talebani, di condizioni dei prigionieri, di cattura di Osama o di attacco all'Iraq. Fa di più, definisce il nemico, "l'islamismo radicale, un movimento politico e religioso violento, estremista, radicale, intollerante, che ora minaccia il mondo": denuncia l'imbroglio degli integralisti, i quali "proclamano di parlare a nome dell'lslam ma ne tradiscono i principi fondamentali, che proibiscono l'uccisione deliberata di non combattenti e consentono un'azione militare solo se ordinata dalla legittima autorità"; chiama il resto dei paesi civili alla guerra contro il movimento integralista islamico, che "tradisce la religione, rigetta le fondamenta della vita civilizzata e la stessa possibilità di pace tra le nazioni".


Nell'appello è forte il richiamo ai "founding ideals", ai valori che non appartengono solo agli Stati Uniti d'America, che il mondo intero ama e persegue: la convinzione dell'eguale dignità della persona; la convinzione che le verità universali morali esistono e sono accessibili a tutti; la convinzione che i contrasti e i disaccordi richiedono apertura ad altri punti di vista e ragionevolezza nella ricerca della verità; la convinzione che debba esserci libertà di espressione e di religione. E' anche un appello all'Europa e ai suoi intellettuali che in questi giorni rumoreggiano e si agitano come nel passato liberal che all'America appare già così lontano.

Il Foglio, (19 febbraio 2002)

Commento:

 

L’America è un grande paese e i suoi intellettuali sono di prim’ordine, come si evince anche dal documento, che è molto bello. Però, in America - forse perché si è al centro del mondo - si manifestano anche pensieri e atteggiamenti di onnipotenza: siccome in America si mangia tanta pizza, molti americani sono convinti, non solo che la loro è più buona, ma di averla addirittura inventata. Così gli intellettuali sono convinti che è l’America ad avere inventato i valori “universali” su cui essa si regge (i quali valori, per definizione, vengono prima dell’America). In effetti, se la superficie dei valori positivamente indicati dal documento può essere americana, la loro profondità e consistenza è solo cristiana. Non c’è veramente altro: tutte le espressioni “forti” usate dal documento sono cristiane, incluso un appello finale agli «uomini di buona volontà».


Viviamo in tempi in cui il cristianesimo è ridotto a una parzialità, bonariamente nel caso degli intellettuali americani, carognescamente nel caso di Toscani (la croce trasformata in svastica, cioè nell’opposto). Il problema non è che la croce stia scomparendo «come simbolo dell’identità religiosa», è che la croce non è più guardata come segno della verità che salva il mondo. Così, il relativismo selvaggio nel quale si cade è, come da sempre, fonte di guerra, senza rimedio e senza speranza, cioè senza la croce e la resurrezione di Cristo.


   
  • Per che cosa combattiamo
    Il Foglio, (19 febbraio 2002)
    L’“Institute for American Values” ha promosso un documento bipartisan sulla guerra degli Stati Uniti contro il terrorismo, firmato dai 60 maggiori esponenti della cultura universitaria americana, sia liberal che conservative. Secondo il documento, l’accanimento contro gli Stati Uniti è di tipo culturale, è un attacco ai "valori americani", che non possono essere limitati a quelli negativi (libertà come assenza di regole; indebolimento del matrimonio e della realtà familiare; consumismo sfrenato), ma sono anche la dignità umana come diritto di nascita; il riconoscimento di verità morali universali come esistenti e accessibili a tutti; la libertà di religione.
    «È per questo che chiunque, in linea di principio, può diventare un americano. E, in pratica, chiunque lo fa… Alcuni asseriscono che questi valori non sono per nulla universali, ma derivano invece dalla civiltà occidentale, largamente cristiana… Noi non siamo d’accordo. Riconosciamo i conseguimenti della nostra civiltà, ma siamo convinti che tutte le persone sono state create uguali… Storicamente, nessun’altra nazione ha forgiato la propria identità intrinseca - la propria costituzione e altri documenti fondamentali, come pure la propria consapevolezza di sé - in modo così diretto ed esplicito sulla base di valori umani universali. Per noi, nessun altro fatto di questo paese è più importante».

  • Lucetta Scaraffa
    Per favore, non mischiate la croce e la svastica
    Avvenire, (20 febbraio 2002)
    Nel manifesto - ideato da Oliviero Toscani - del film “Amen”, una croce diventa una svastica rossa su fondo nero. Risulta inevitabile l’associazione del simbolo sacro per eccellenza con l’emblema dell’orrore nazista. «La croce sta così scomparendo come simbolo dell’identità religiosa del nostro paese, sia nello spazio pubblico che in quello privato».

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