Pasqua

«Ci hanno strappato i figli».
Un solo dolore, per arabe o ebree


«Dov’è la speranza? Se riesci a trovarla in questi volti fammela vedere. Neppure una nuova gravidanza può riempire quella voragine che è in ogni cellula del loro corpo».

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di Davide Frattini
Corriere della Sera, 3 aprile 2004


DA UNO DEI NOSTRI INVIATI GERUSALEMME - «Io ho, voglio dire avevo, due bambini». «Non so mai dire quanti bambini ho o avevo». «Detesto quando mi chiedono quanti bambini ho, sono sempre stati tre: come rispondo a una domanda così?». Undici madri. Undici agonie. Donne israeliane e palestinesi che provano a raccontare il dolore che non si può raccontare: tutte hanno perso almeno un figlio molto piccolo nei tre anni e mezzo di intifada, tutte hanno accettato di parlare davanti alla telecamera della regista Adi Arbel. Cinquanta minuti di monologhi, sedute nei loro soggiorni, alle spalle le foto dei bimbi che non ci sono più, in braccio quelli che sono rimasti o arrivati dopo. Cinquanta minuti intitolati Ninnananna, ma che non cercano e non portano sogni tranquilli. «Una signora francese che ha finanziato il documentario - racconta Adi Arbel, 34 anni, di Tel Aviv - mi aveva chiesto di metterci un po' di speranza, almeno nel finale. Io le ho inviato il materiale girato e le ho chiesto: dov' è la speranza? Se riesci a trovarla in questi volti, fammela vedere. Neppure una nuova gravidanza può riempire quella voragine che è in ogni cellula del loro corpo. Lo capisci quando le senti raccontare che la morte dei figli è la cosa a cui pensano quando si svegliano al mattino». La prima madre che Adi ha incontrato è Ronit Ilan, di Rishon Letzion, una cittadina a sud di Tel Aviv. Ronit ha perso due bambini in un attentato terroristico (Lidor, 10 anni, e la piccola Uriya, un anno). Quel giorno vennero uccisi anche suo fratello, la moglie e i loro tre figli, ma per lei non c' era altro pensiero, spazio per altro dolore. «La mia unica consolazione - dice Ronit nel documentario, che verrà trasmesso martedì prossimo, il giorno della Pasqua ebraica, dal Canale 2 in prima serata - è che alla fine arriva la morte e con la morte non c' è più la sofferenza per loro. A volte mi chiedo se sarebbe stato meglio non averli avuti, non averli conosciuti e amati. Non ho una risposta». In tre anni e mezzo di intifada - scrive il quotidiano Haaretz - sono morti 122 israeliani sotto ai 18 anni e 468 palestinesi (di cui 255 sotto ai 14 anni). Susan Hajo, di Gaza, ha perso Iman, 3 mesi, quando la loro casa è stata colpita dal proiettile di un carrarmato. Racconta nel film: «Ho riaperto gli occhi e ho visto mia figlia vicino a me, il sangue le usciva dalla bocca. L' ho presa in braccio, l' ho posata sotto a un albero, mi sono distesa sopra di lei. Non so perché l' ho fatto». Adi Arbel ha una bimba di tre anni, Anna. Da pochi mesi è incinta di un secondo bambino. Ha dovuto aspettare che finisse il montaggio, anche solo per pensare a un altro figlio. «Mentre stai girando - dice la regista, che ha lavorato con una troupe composta da donne - sei troppo concentrata. Segui tutti gli aspetti tecnici, quasi non ascolti. Ma chiusa nella cabina di montaggio ho sentito queste madri ripetere e ripetere la loro disperazione. Non potevo immaginare una nuova gravidanza». Le interviste alle palestinesi sono state fatte dalla giornalista Nidal Rafa, 27 anni, che vive a Gerusalemme Est e si definisce «un' araba palestinese cittadina d' Israele». Mentre Nidal parlava con loro in arabo, Adi seguiva gli sguardi e le espressioni sul monitor. Senza capire le parole, piangendo. «Abbiamo spiegato da subito che avremmo mostrato madri di tutt' e due i fronti, abbiamo chiarito che non volevamo produrre un documentario politico. Che un dolore così è lo stesso da una parte e dall' altra».
 
 

Pasqua: «"Ci hanno strappato i figli". Un solo dolore, per arabe o ebree», Davide Frattini, Corriere della Sera, 3 aprile 2004


 
Rassegnina  
  • Francesco Alberti
    Mostafà, Terrorista per disperazione, alcool e sconfitte, il martirio come sfida
    Corriere della Sera, 31 marzo 2004
    «Una serie di fallimenti a ripetizione che sfociano nella depressione, nell’alcool, in una solitudine cercata quasi scientificamente. Ed è in quel vuoto esistenziale che prende corpo, giorno dopo giorno, attraverso chissà quali canali, fantasmi e suggestioni, quel grumo di rabbia impotenza e autocompassione che lo porta ad inventarsi terrorista: sterminatore di uomini nel nome di un Allah vissuto confusamente, patologicamente, ultimo alibi di un’esistenza senza più appigli».
     
  • Nicoletta Tiliacos
    I danni del nichilismo passivo

    Il Foglio, 25 marzo 2004
    Il filosofo Giovanni Reale, intervistato, afferma: «É vero, l’uomo europeo è ammalato di nichilismo. Molti giovani non si fanno neanche più le domande che per secoli abbiamo considerato capitali: sulla nostra origine, sul nostro destino, sul senso della vita. Non se le fanno nemmeno per rispondersi in modo negativo: semplicemente, non interessano più. Un giovane mi ha addirittura confessato che negava l’esistenza della verità perché sarebbe troppo scomodo vivere, se ci fosse».
     
  • Francesca Floriani
    Teresa Strada: «Gino, l’amore e la gelosia»

    La Repubblica - MI, 3 aprile 2004
    « Questo è Emergency, una scommessa che sembrava impossibile. Non ci sono scommesse impossibili».
     
  • Davide Frattini
    «Ci hanno strappato i figli». Un solo dolore, per arabe o ebree

    Corriere della Sera, 3 aprile 2004
    «Dov’è la speranza? Se riesci a trovarla in questi volti fammela vedere. Neppure una nuova gravidanza può riempire quella voragine che è in ogni cellula del loro corpo».

 

Commento:

 

Da qualche anno ci eravamo abituati ai kamikaze indottrinati dal Corano, ai brigatisti che recitavano a memoria Mao. Adesso ci troviamo davanti ad un’origine della violenza tanto imprevista, quanto paradossalmente più comune come possibilità. Mostafà, il kamikaze di Brescia, non era particolarmente credente. Era un “bravo ragazzo” finito nella disoccupazione e nell’alcolismo, disilluso dall’Occidente e disperato per una vita che non andava. Teresa Strada - guardando alla grandezza dell’opera del marito, Emergency - dice di non credere in Dio ma: «Credo negli uomini, che ognuno faccia la sua parte con onestà».


Questo sentimento della vita stride con i fallimenti, con il dolore, che sembra inconsolabile, delle donne che nel conflitto palestinese hanno perso i propri figli.
Tanto è stimabile l’impeto di costruzione per il bene dimostrato da molti, quanto è evidente che esistono promesse che l’uomo non può mantenere. Ma nonostante questo, noi - tutti - abbiamo bisogno che davvero l’impossibile diventi possibile: che il dolore sia consolato; che l’amore sia vero; che ciò che si desidera si compia e duri.


Perché oggi possiamo sperare: 2000 anni fa un uomo è morto e, contro ogni umana e possibile previsione, risorto. Buona Pasqua.
 

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