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di
Pierangelo Sequeri
Tutto
questo gran parlare della ricerca della felicità, lo
confesso, mi mette un po' di malinconia. La seriosità della
sua prescrizione - politica, bioetica, biochimica - le
toglie il sorriso, ne spegne il profumo. Tanto la sua
indifesa fragilità mi intenerisce, quanto gli animosi
consulti terapeutici intorno al suo capezzale mi
infastidiscono. Tanto mi appaiono fascinose le sue rapide
incursioni nella vita dell'uomo, della donna, del bambino (e
qui tutti hanno qualche esempio pronto, ne sono sicuro),
quanto la sua puntigliosa programmazione (virtuosa o
virtuosistica che sia) mi induce il sospetto che non sia più
di lei che stiamo parlando. Il bello della felicità deve
sempre ancora venire. Essa sfugge all'ossessione della sua
conquista. L'angoscia di perderla l'ha già persa. Capisco
che qualche analista volonteroso potrebbe inarcare il
sopracciglio: e sono pronto a prendermi le mie responsabilità.
Vorrei almeno spiegarmi.
Non
ho in mente nulla che vada dalla parte dell'attimo fuggente,
o dove ti porti il cuore. (Nulla neppure in contrario, di
per sé. Si deve solo fare molta attenzione, perché anche
la malinconia, quella snervante e senza rimedio, percorre la
stessa corsia: un attimo di distrazione e ce l'hai nella
fiancata). Mi
pare però essenziale riconoscere che nella felicità
autentica c'è qualcosa di essenziale che deve assomigliare
alla grazia o al dono: ed è questo che fa la differenza.
La felicità è l'irradiazione di una riuscita intimità con
qualcosa di insperabilmente giusto e di segretamente atteso,
a dispetto di tutto. La felicità non è semplicemente il
benessere, ma neppure il bene. La felicità è il bene come
ha da essere: bello. La
felicità è grazia, non natura o destino.
È la vita restituita alla certezza di una promessa che può
e deve essere onorata, per noi, soprattutto custodendola
contro ogni disperato avvilimento. Non è neppure ornamento
e arredo: un semplice abbellimento estetico dell'esistenza,
un'evasione fortuita dalla routine, non sono ancora niente.
La felicità deve portare nel suo stesso godimento la forma
della gratuità riconoscente, ispirare gratitudine proprio
nella sua inafferrabilità, custodire la libertà anche
dalla ripetizione coatta del godimento. Sempre essa deve
accadere - finché c'è un alito di vita e anche per tutta
l'eternità - come un inatteso trasalimento. Che sorprende
il volere, il potere, il desiderare persino. Per come la
vedo io, insomma, "attesa"
è parola definitivamente giusta per la felicità.
Seguendo
il filo di questi pensieri, mi pare che l'attesa della
felicità - ogni momento e sempre, nel piccolo frammento
del quotidiano e fino all'ultimo respiro vissuto - possa
ridiventare socialmente comprensiva. La sola ricerca della
felicità, irresistibilmente narcisistica, divide e
distrugge. Finisce per essere ottusamente inospitale, ignara
dell'impotenza altrui, insensibile al ritardo di molti
cammini difficili. L'attesa
della felicità ci riunisce comunque.
Ci rende lieti del suo passaggio, ma anche complici della
sua comune speranza. Ne esce fuori un'altra verità profonda
dell'umano desiderare. L'infelicità irrimediabile, quella
che nessuna certezza del godimento potrebbe colmare, non è
forse la brutale scissione di ogni affettuoso legame? Non è
questa l'evidenza tragica di ciò che nella prospettiva
della malattia e della morte ci è più duro sopportare?
L'attesa della felicità è sempre l'attesa di legami umani
che rendano riconoscibile alla vita la sua destinazione e il
suo appagamento.
È per questo che, già ora e sempre, la felicità non è
compiuta se non è anche la gioia condivisa di qualche
legame. Nella
consolazione di qualche legame che rimane fedele, anche
l'attesa più dura e più improbabile non è senza il
profumo di quella misteriosa promessa che la felicità
contiene.
La parola cristiana sul Dio della risurrezione dei morti
vale esattamente quanto vale la speranza contro la morte che
essa è in grado di suscitare nei legami dell'intera
creazione. Nel giorno che deve venire, precisamente questo
ci verrà domandato. Non quanta ne abbiamo predicata, ma con
chi ne abbiamo sostenuto l'attesa.
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