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di
Barbara
Spinelli
Non
sono mancati gli scettici, a conclusione della preghiera di
Assisi, né gli scontenti. Molti pacifisti speravano in
parole più dure contro la guerra, e in un’armonia fra le
diverse religioni che sfociasse in fusione. I critici della
mondializzazione si aspettavano forse l’inno a un futuro
egualitario, radioso: a un mondo dove i conflitti saranno
sradicati grazie all’intervento di una divina bontà che
restituisce il pane all’indigente, il maltolto al
derubato, la giustizia agli umiliati. Chi pensa il mondo in
termini di scontro tra civiltà religiose deve esser tornato
a casa con una strana sensazione: al centro
dell’attenzione dei convenuti ad Assisi non v’era, in
fondo, questo scontro. A esser precisi non erano il
multiculturalismo, la tolleranza tra le fedi, a tormentare
le undici religioni, e Giovanni Paolo II che le aveva quasi
d’urgenza convocate.
In
realtà le ha convocate per un’altra emergenza, non meno
tormentosa. Il pericolo e il male non abitano più fuori
casa, come è apparso negli incontri ecumenici del passato.
Non sono l’ateismo e neppure il paganesimo o il
relativismo a esser additati come nemici da fronteggiare,
ripudiare. Non tutti alla preghiera comune l’hanno detto a
chiare lettere ma l’atmosfera che regnava ad Assisi aveva
toni apocalittici e designava il nemico interno come
massimo, ineludibile avversario. L’avversario che si
presenta al mondo come bigotto, come difensore inflessibile
delle fedi, come oppositore di tutte le guerre, le
ingiustizie. Incessante è la sua preghiera, notte e giorno
egli si rivolge a Dio, ed è in suo nome che non esita a
sterminare e fomentare guerre. Nell’Apocalisse e nelle
lettere di San Paolo è l’Anticristo, ad avanzare così
mascherato. In tutte le grandi religioni il maligno semina
violenza «ammantandosi di religiosità», come ammonisce il
Pontefice. Usa il nome di Dio e usa i credenti per i propri
disegni di distruzione e di cattura delle menti. Impaura
mentre prega, e quanto più prega tanto più incrudelisce.
In uno degli apologhi più conturbanti sul falso ecumenismo,
il filosofo russo Solovev descrive l'avvento del Santo
Vendicatore che uccide e regna in nome di Dio, e che in nome
di Dio annuncia la pace tra i popoli a condizione che questi
si sottomettano, il benessere a tutti purché ciascuno
rinunci alla libertà (Vladimir Solovev, Breve Racconto
sull'Anticristo).
Questo è stato Assisi, nella sua essenza. Non il trionfo di
un’universale fede pacifica ma dodici religioni riunite
all’ombra del disastro di Manhattan, e costrette quasi
loro malgrado a scoprire quel che davvero conta: lo spirito
del male che abita nel cuore stesso della «bella aiuola»
composta dai fedeli. Non solo la lotta fra le religioni ma
la la ferocia che spesso impregna i rapporti tra adepti
della medesima fede. Il nichilismo che non proclama la morte
di Dio ma anzi lo esalta, e impugnando i suoi simboli
annuncia che il valoroso vive oltre il bene e il male, dove
tutto è permesso. Come in Solovev, gli invitati di Assisi
si sono messi alle porte dell'inferno, hanno pronunciato il
loro non prevalebunt, ma in cuor loro lo sapevano:
nell’inferno che presidiavano non c’è l’ateo ma c’è
il religioso portato al parossismo, c’è l’uomo che
fantastica una fede a tal punto lancinante da immaginarsi
eguale a Dio. C’è l’uomo che si atteggia a
fondamentalista ma che cancella l'autentico fondamento delle
religioni: la distanza fra terra e cielo, fra sé e Dio. Il
praticante di questo tipo è chiamato l’Uomo che viene, in
Solovev. E’ l’uomo che forgerà la mondializzazione
basata su un’idea assolutizzata di bontà, che darà
prosperità all’universo in cambio di servitù volontaria.
Che «teorizzerà una giustizia di ripartizione e non di
retribuzione». «Salvatore perfetto e definitivo», lo
chiama il filosofo russo: idealista e feroce. Non uomo, ma
superuomo. Forse questo intendeva il Papa, quando ha
concluso che «le tenebre non si dissipano con le armi; le
tenebre si allontanano accendendo fari di luce». Non ha
detto che si allontanano con il pacifismo, la diplomazia. Si
dissipano con l'acutezza intransigente dell’occhio che sa
guardare nell’opacità, nell’inganno. L’occhio che
guarda dentro di sé, e dentro la natura infinitamente
mortale delle stesse religioni.
Tutti erano ai cancelli di quell'inferno, anche se non tutti
ne erano coscienti. Nell’Islam la percezione è tuttora
vaga, e lo sceicco Tantawi si è guardato dall’accennare
alla crudeltà che usurpa la religione e ne abusa. Ma ne era
specialmente cosciente il Pontefice, quando ha denunciato
l’«ingiusta associazione della religione con interessi
nazionalistici, politici, economici», aggiungendo: «Chi
utilizza la religione per fomentare la violenza ne
contraddice l'ispirazione più autentica». E ne era
cosciente il rappresentante ebraico, il rabbino americano
Israel Singer, forse più intensamente e disperatamente di
altri. E’ stata l’orazione più allarmata, e non a caso
la voce parlava in nome di quella Palestina dove le fedi si
fanno una guerra cui viene ancora dato il nome di processo
di pace. Scosso dall’iniziativa del Papa, Israel ha acceso
i fari sul male che si ammanta di religiosità, ha
abbandonato d’un tratto il discorso scritto e ha detto,
rivolgendosi ai musulmani: «Voi dovete chiedere al vostro
popolo e noi dovremo chiedere ai nostri, a tutti i nostri
fedeli, se la terra e le città sono più importanti delle
vite umane. Finché non impareremo questa lezione, non ci
sarà la pace». E’ un profondo ripensamento che il
rabbino invoca, non soltanto nell’Islam ma
nell’ebraismo: non è detto che sarà ascoltato.
Naturalmente
ci sono anche ragioni economiche, alla base delle violenze
mondiali. C’è anche il grido dei poveri della terra, che
gli integralismi sfruttano mescolandoli con false fedi. Ma
il punto cruciale non è questo. Non è per ragioni
economiche che gli ortodossi serbi e russi benedicono il
massacro di musulmani bosniaci, kosovari, ceceni. Non è per
propugnare la giustizia tra ricchi e poveri che Bin Laden
abbatte le torri di New York. Non è per un futuro di equità
che tanti rabbini hanno elogiato l’eccidio di musulmani in
preghiera a opera dell'integralista Goldstein. E’ per
sopprimere la distanza da Dio che tramutano, come ha detto
l’induista Talwalkar, «il messaggio religioso in
bigottismo». E’ per divenire uomini-Dio, anelanti
all'onnipotenza. Questa dismisura dell'uomo, questa hybris
del bigotto, era lo spettro che si aggirava nella basilica
di San Francesco. Spettro che impaura le religioni vere,
perché la dismisura minaccia mortalmente l'uomo, e offende
mortalmente la fede in Dio e il Dio della fede.
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