ISLAM |
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di Pier Aldo Rovati Avrei voluto intervenire nel dibattito sull'Illuminismo lanciato da Eugenio Scalfari su queste pagine circa un anno fa e por proseguito per vari mesi con autorevoli interventi. È perciò con piacere che prendo ora al volo l'occasione che si presenta grazie alla pubblicazione in volume dell'intera discussione (Attualità dell'Illuminismo, a cura di Eugenio Scalfari, Laterza, pagg. 130, lire 18.000, euro 9.30). Ricordo che oltre al nominato vi prendono la parola in ordine alfabetico: Carlo Bernardini, Norberto Bobbio, Giancarlo Bosetti, Rafl Dahrendorf, Umberto Eco, Roberto Esposito, Umberto Gatimberti, Sergio Givone, Sebastiano Maffettone, Sergio Moravia, Gianni Vattimo, Lucio Villari e Franco Volpi. Ricordo anche che il sasso gettato da Scalari aveva il nome di Isaiah Berlin. Da che parte stava - era la provocazione ‑ il cuore di Berlin considerate le sue costanti simpatie per pensatori anti‑illuministi? Leggere un libro è un'esperienza molto diversa dal leggere singoli articoli su un quotidiano. Siamo di fronte a un evento culturale di natura differente; lo si gode in un altro modo e se ne ricavano altri effetti di comprensione. Per esempio si vede bene che l'episodio Berlin è solo una narrazione interna: Berlin, in definitiva, era illuminista e ci ha detto, da illuminista, che l'uomo è un «legno storto» e non una bella essenza metafisica. E, per esempio, prende evidenza il fatto che la cornice narrativa di tutto il dibattito si identifica con l'affermazione: non possiamo non dirci illuministi. Cornice dalla quale non vedo proprio come e perché dovremmo uscire. Non è tutto, ma è molto importante sottolinearlo. Dunque: non possiamo non dirci illuministi (come, secondo me, non possiamo non dirci figli di Marx, ma questo a un altro dibattito che spero prossimo). C'è l'illuminismo come grande evento storico e c'è il nostro attuale illuminismo. In proposito osservo, o ripeto, che l'Illuminismo storico, quello di Voltaire e Diderot ma anche di Hume e di Kant, non è un sistema di pensiero, anzi, semmai è un antisistema che tenta dimettere fuori gioco ogni assoluto metafisico. Assomiglia a un «viaggio» (come dice in conclusione Scalfari) con tanti sentieri e peripezie, ed è piuttosto (come nota Umberto Galimberti) un «esercizio del pensiero», una pratica di vita più che una filosofia contemplata. Dal che ricaviamo anche che i philosophes (e i loro amici inglesi e tedeschi) ci suggeriscono uno stile di pensiero e un modo di fare filosofia. Già questi sono buoni motivi per dichiararci oggi illuministi, e per non potere non dirci tali. Motivi ai quali si aggiungono naturalmente l'affidamento alla ragione (intesa come ragionevolezza) e il fatto che non possiamo (né dobbiamo) rinunciare allo strumento della critica. L'espressione completa potrà sembrare usurata ma suona proprio così: ragione critica. La quale, se presa in parola, produce una quantità di effetti. Ne enumero alcuni. Che la ragione non può essere divinizzata né scritta con la maiuscola, e che dunque confina subito con le ragioni al plurale e sostiene un'idea di verità non violenta né unica, implicando un'etica della tolleranza senza condizioni. Che la ragione è perciò impura (corrispondente al «legno storto» che siamo) e chiede ogni volta che si ripeta il gesto kantiano di una critica della ragione pura con l'evidenziazione dei suoi limiti. Che questa ragione non può essere possesso di alcuni, ma deve essere pratica di tatti, pubblica, conflittuale, sottoposta alle regole e ai limiti dell'intesa e quindi anche ogni volta revocabile. Sono punti sui quali dovremmo essere tutti d'accordo: «dovremmo». Punti ovvi ma non scontali e che in realtà pratichiamo coli fatica, talvolta solo come ideologie di facciata. Perciò non possiamo non dirci illuministi. E sarebbe buona cosa che andassimo a leggere gli Illuministi, che crediamo di avere già tetto e che poi non sono così facili da leggere con il dovuto rispetto. Scoprendo magari che anche Nietzsche non poteva noti dirsi illuminista. E Heidegger? Insomma, ripercorrendo una pista culturale che è impossibile denegare, e sulla quale si innestano quasi tutte le altre piste, all'apparenza anche opposte. Naturalmente, poiché l'Illuminismo apre l'orizzonte degli intendimenti e lo scenario dei rischi che sono intrecciati alla pratica radicale della ragionevolezza, esso è stato caricato di fraintendimenti e fin da subito esposto alle scorciatoie dell'irrigidimento. Ogni volta quella «r» rischia dì diventare una «R», ed è su questo confine assai mobile e spesso elusivo che dobbiamo esercitare il massimo di vigilanza critica. Il libro di cui sto parlando mi pare molto utile proprio per l'esercizio di questa vigilanza. Freccia o bersaglio? Direi che il nostro illuminismo è sia il bersaglio sia la freccia. Bersaglio perché è vero che in fatto di ragionevolezza versiamo in una situazione parecchio deficitaria, ed è dunque su un plus di ragione che dobbiamo puntare. Ma anche una freccia, perché soltanto con il veicolo e la punta della critica possiamo contenere il margine di errore e limitare gli effetti collaterali. Il bersaglio non può essere colpito una volta per tutte, la ragionevolezza non ha un compimento, è semmai un compito infinito. La freccia è la consapevolezza di questo limite necessario e non potrà che essere a sua volta un'arma limitata e continuamente messa in discussione. Ma è un'arma. E questo ha molto a che fare con il nostro illuminismo come esercizio e pratica. Ai tanti nomi di pensatori evocati dal dibattito vorrei aggiungere quello di Michel Foucault, il quale a un certo ha riflettuto a fondo su Kant, l'Illuminismo e la critica (cfr. Illuminismo e critica, Donzelli) introducendo questi temi nella sua preziosissima ricerca sull'assoggettamento. Richiamo Foucault perché ha evidenziato con particolare vigore il carattere «politico» della critica appunto come arma. La critica (illuministica) non è mai un semplice atto di tipo intellettuale ma mette in gioco il governo di sé e degli altri. Con la critica, gli assoggettati (come tutti noi siamo) producono, o comunque tentano di produrre, una resistenza e uno spazio di autodeterminazione nel tessuto del potere.
Nel nostro non potere non dirci illuministi
si
disegna così meglio un ruolo intellettuale e insieme una
responsabilità. Certo etica, ma anche e soprattutto
politica. |
Pier Aldo Rovati la Repubblica, 13 novembre 2001 |
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I
fenomeni descritti da William Dalrymple sono avvenuti nella totale
indifferenza di un Occidente, che tanto si dice pronto a
proteggere le altre minoranze religiose, quanto sembra disattento
a difendere i cristiani là dove sono minoranza. Vi è inoltre una grande confusione: si confonde la ragione, che è una dote, con la verità che è il contenuto per cui questa dote è fatta. Si dimentica che dall’Illuminismo proviene la celebrazione della Dea Ragione, ovvero dell’uomo misura di tutte le cose, e che proprio da questa pretesa nasce la violenza. Si confonde con la massima tranquillità il suicidio con il martirio. Il problema non è se esistano tante verità misurabili, ma se esista un amore (poiché questo è l’unico senso possibile di una verità desiderata) più grande della nostra misura e in grado di salvare la fragilità che la caratterizza. È questo il vero senso della rivoluzione cristiana, che - come giustamente dice Il Foglio - le nostre pareti dovrebbero ricordarci esponendo il Crocifisso. Il Crocifisso testimonia che il principio della tolleranza non è nella coesistenza e nella conciliazione di tante piccole e discutibili verità, ma nell’essere resi capaci di amare l’altro come se stessi. Per farsi un’idea non peregrina di cosa sia la ragione e di come funzioni in rapporto alla verità, si invita a leggere attentamente tutto - dalla prima all’ultima pagina - L’Autocoscienza del cosmo, di Luigi Giussani (edizioni Rizzoli). ____________________________________________________________________________ |
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