ISLAM |
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di Salman
Rushdie «QUESTO non riguarda l'Islam». I leader del mondo ripetono questo da settimane, in parte, nella virtuosa speranza che funzioni da deterrente per possibili rappresaglie contro musulmani innocenti che vivono nell'Occidente, in parte, perché gli Stati Uniti devono tenere insieme la loro coalizione contro il terrore e non possono permettersi di suggerire che l'Islam e il terrorismo siano in qualche modo collegati. Il guaio di questa premessa obbligata è che non è vera. Se questo non riguarda l'Islam, allora perché le manifestazioni di musulmani ovunque nel mondo a sostegno di Bin Laden e di Al Qaeda? Perché allora si stanno ammassando alla frontiera tra Pakistan e Afghanistan quelle migliaia di uomini armati di spade e asce, in risposta all'appello alla Jihad di qualche mullah? Perché allora il solito antisemitismo della tanto ripetuta diffamazione, che sono stati "gli ebrei" a organizzare gli attacchi contro il World Trade Center e contro il Pentagono, seguita dalla singolare e autoscreditante spiegazione, data anche dai dirigenti Taliban, che i musulmani non avrebbero avuto il knowhow tecnologico né il livello organizzativo per realizzare una tale impresa? Perché allora Imran Khan, l'ex star pachistana dello sport diventato uomo politico, chiede che gli siano mostrate le prove della colpevolezza di Al Qaeda, apparentemente sordo alle dichiarazioni autoincriminanti degli stessi portavoce di Al Qaeda (ci sarà una pioggia di aerei dai cieli, si avvertono i musulmani in Occidente di non andare ad abitare a o lavorare in edifici alti)? Perché tutto quel parlare sugli infedeli militari americani che dissacrano il suolo dell'Arabia Saudita, se non è la definizione di ciò che è sacro alla base degli attuali malumori? È ovvio che "questo riguarda l'Islam". La domanda è, cosa significa esattamente tutto ciò? Dopotutto, la maggior parte dei credi religiosi non includono molta teologia. Buona parte dei musulmani non sono profondi studiosi del Corano. Per un considerevole numero di uomini musulmani "credenti", "Islam" vuol dire, in maniera aggrovigliata, non molto approfondita, non soltanto paura di Dio - paura, più amore, si deve presumere - ma anche una congerie di usi, opinioni e pregiudizi che includono le pratiche dell'alimentazione; il sequestro o quasi sequestro delle "loro" donne; i sermoni tenuti dai loro mullah d'elezione; un rifiuto della società moderna in generale, contaminata com'è dalla sua musica, dall'assenza di Dio e dal sesso; e una più particolare ripulsa (e paura) di fronte alla prospettiva che il loro ambito immediato possa essere intossicato da uno stile di vita liberale all'occidentale. Negli ultimi 30 anni, all'incirca, organizzazioni molto motivate di uomini musulmani (oh, quando sarà dato sentire le voci delle donne musulmane!) sono state impegnate nello sviluppo e nella diffusione di movimenti politici di carattere radicale che si situano fuori da quella giungla di credenze. Tra questi islamisti - dovremmo abituarci a utilizzare questa parola, "islamisti", perché essa fa riferimento a coloro che sono compromessi con tali progetti politici, e imparare a distinguerla da "musulmani", un termine molto generico e politicamente neutrale - devono essere inclusi la Fratellanza Musulmana di Egitto; quei combattenti con le mani lorde di sangue del Fronte islamico di salvezza e del Gruppo islamico armato, entrambi algerini; i rivoluzionari sciiti dell'Iran e gli stessi Taliban. La povertà è il loro grande sostegno e la paranoia il frutto dei loro sforzi. Questo Islam paranoico che incolpa quelli di fuori, gli "infedeli", di tutti i mali patiti dalle società musulmane, e per le quali propongono quale rimedio la chiusura di queste società al progetto rivale di modernità, è la versione dell'Islam che attualmente cresce di più nel mondo. Tutto quanto detto finora non implica, tuttavia, l'essere completamente d'accordo con la tesi di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà, per la semplice ragione che i progetti di questi islamisti non soltanto si rivolgono contro l'Occidente e contro "gli ebrei", ma anche contro i loro stessi correligionari islamici. Indipendentemente dalla retorica ufficiale, non corre buon sangue tra i Taliban e il regime iraniano. I dissensi tra le nazioni musulmane sono profondi, se non di più, al meno tanto quanto il risentimento di queste verso l'Occidente. Tuttavia, sarebbe assurdo sostenere che questo Islam autoassolutorio e paranoico non sia un'ideologia che fa presa tra la popolazione. Vent'anni fa, mentre scrivevo un romanzo sulle lotte di potere in un Pakistan di finzione, era già di rigore nel mondo musulmano l'uso d'addossare tutti i suoi guai all'Occidente e, in particolare, agli Stati Uniti. Allora come adesso, alcune di queste critiche avevano fondamento; e non è questo il luogo per passare in rassegna la geopolitica della Guerra fredda e "le inclinazioni", per usare il termine di Kissinger, spesso dannose della politica estera statunitense, verso (o in allontanamento da) questo o quello stato-nazione temporaneamente utile (o scaricato) o il ruolo degli Usa nel collocare al potere o deporre una sequela di governi o regimi non proprio moralmente impeccabili. Allora mi premeva porre una domanda che non ha perso importanza oggi: supponiamo che si dica che i problemi delle nostre società non sono prevalentemente colpa dell'America, che dovremmo incolpare noi stessi per i nostri fallimenti, come li vedremmo allora? Non accadrebbe che, accettando le nostre responsabilità per i nostri problemi, cominceremmo a imparare a risolverli da soli? Molti musulmani, nonché analisti laici con radici nel mondo musulmano, oggi cominciano a porsi questa domanda. Ovunque, nelle ultime settimane, si sono sollevate voci musulmane contro il sequestro oscurantista della loro religione. Le teste calde di ieri (tra queste Yusuf Islam, alias Cat Stevens) stanno improbabilmente ripristinando la propria immagine per presentarsi come i buoni di oggi. Uno scrittore iracheno ha citato un vecchio scrittore satirico del suo paese: «La malattia che è in noi, viene da noi». Un musulmano britannico ha scritto: «L'Islam è diventato il nemico di se stesso». Un amico libanese, di ritorno da Beirut, m'ha raccontato che, dopo gli attacchi dell'11 settembre, la critica aperta all'islamismo è diventata molto più manifesta. Molti commentatori hanno parlato della necessità di una Riforma nel mondo musulmano. Ciò mi ricorda il modo in cui i socialisti non comunisti erano soliti distanziarsi dal tirannico socialismo dei Soviet; ciononostante, i primi cenni di questo controprogetto hanno un grande significato. Se l'Islam si deve riconciliare con la modernità, allora quelle voci devono essere incoraggiate finché diventeranno un boato. Molte di esse parlano di un altro Islam, di una loro fede personale e privata. Il ritorno della religione alla sfera del personale, la sua depoliticizzazione, è la pianta spinosa che tutte le società musulmane devono cogliere per diventare moderne. Il solo aspetto della modernità che interessa ai terroristi è la tecnologia, nella quale vedono un'arma che può essere rivolta contro coloro che l'hanno forgiata. Se si vuole sconfiggere il terrorismo, occorre che il mondo dell'Islam faccia suoi i principi secolari umanistici sui quali il mondo moderno è fondato e senza i quali la libertà dei paesi musulmani continuerà a essere un sogno lontano. |
Salman Rushdie, la Repubblica, 5 novembre 2001 |
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Tutti
i commentatori appaiono decisi a difendere l’occidente, perché
in fondo l’occidente come identità è niente e in questo niente
ripongono la tolleranza di tutto come il valore più moderno.
Tuttavia, è uscito un articolo molto pertinente alla situazione
attuale, scritto pressappoco cent’anni fa da Soloviev e
ripubblicato da Tempi in data 14 novembre. |