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di
Altichieri Alessio
E' il libro dell' anno, perché è la confessione di un comunista che
non ha mai abiurato. Eric Hobsbawm, il maggior storico britannico,
autore della gigantesca storia della rivoluzione industriale, giunto a
85 anni ha scritto la propria autobiografia (dal titolo deliziosamente
inglese, Tempi interessanti, per descrivere il «secolo breve» ma
terribile che proprio lui ci ha raccontato), in cui risponde
finalmente alla domanda che nessuno ha osato porgli:
perché non ha mai stracciato la tessera del partito?
Il libro di Hobsbawm, che sarà in libreria il 30 settembre, esce con
curiosa puntualità, perché anche a Londra s'è aperto uno di quei
ricorrenti dibattiti, sull' equiparazione tra fascismo e comunismo, su
cui noi italiani credevamo d'avere il monopolio: Martin Amis,
figlio di Kingsley, si domanda con tormento come milioni di
persone abbiano potuto credere in Stalin, anche di fronte all'
evidenza dei suoi orrori. E Hobsbawm, naturalmente in modo
indiretto, ora gli risponde:
la Rivoluzione d'Ottobre, dice, era più importante degli uomini,
perfino di Stalin.
Il fascino di Hobsbawm, come sa chi l'ha letto, sta nella sua
scrittura. Sarà un grande storico, figurarsi, ma è di sicuro un ottimo
narratore, come queste memorie ora rivelano:
«Io sono uno dei pochi abitanti al di fuori di quella che fu l' Unione
Sovietica ad aver visto Stalin in carne e ossa»
scrive con ironia: ma lo Stalin che egli incontrò era quello
imbalsamato nel mausoleo sulla piazza Rossa, prima che fosse rimosso,
nel 1961, dalla destalinizzazione. Infatti il primo e vero unico
viaggio di Hobsbawm in Urss (raccontato nelle pagine anticipate dal
New Statesman) avvenne nel 1956, con qualche immediata delusione: a
Leningrado, «città che non imparerò mai a chiamare San Pietroburgo»,
provò imbarazzo quando una ballerina del Kirov, forse Alla Shelest che
aveva ballato nel Lago dei cigni, gli fu portata davanti, «ancora
sudata», e gli s' inchinò con una profonda riverenza: « Non mi
sembrava una buona pubblicità per il comunismo». E altrettanto
sbalorditiva era «l' assoluta mancanza di senso pratico» di una
società senza elenchi del telefono, mappe stradali, orari ferroviari,
a causa d'una «paura delle spie quasi paranoica». Eppure... «Eppure c'
era qualcosa» scrive Hobsbawm. C' era per esempio la modernissima
metropolitana di Mosca, «che marciava a orologeria e, mi dicono,
ancora marcia», beffarda allusione al fatiscente tube di Londra. O
c'era, antropologicamente più importante, «lo straordinario spettacolo
di una società intellettuale, a malapena uscita dal mondo contadino
una generazione prima».
Così lo storico giunto da Londra, che avrebbe voluto incontrare
intellettuali che puntualmente «non erano potuti venire a Mosca per
motivi di salute» o «erano al momento a Gorkij», insomma non si
dovevano vedere, passò il Capodanno al circolo degli scienziati di
Mosca, dove il gioco di società era elencare proverbi popolari: e se
lo straniero presto esaurì la sua scorta di motti inglesi, i sovietici
avevano una miniera di saggezze su coltelli, asce, falci, «cioè ciò
che avevano portato dai villaggi di analfabeti in cui molti di loro
erano nati».
Stupirsi se Hobsbawm lasciò l'Urss, «benché politicamente immutato»,
«depresso e senza voglia di tornarci»? Ma ciò avveniva prima dei
«dieci giorni che sconvolsero il mondo»: non quelli della rivoluzione
del 1917, narrati da John Reed, bensì i dieci giorni, dal 14 al 25
febbraio 1956, del congresso in cui Kruscev denunciò lo stalinismo:
«In parole semplici: la Rivoluzione d' Ottobre creò un movimento
comunista mondiale, il ventesimo Congresso del Pcus lo distrusse»
sentenzia lo storico e «aprì la crisi». Perché il comunismo non era
nemmeno immaginabile senza l'Unione Sovietica, «il Paese che aveva
strappato le budella alla Germania nazista ed era uscito dalla guerra
come una superpotenza». In pratica: «La vittoria della causa in altri
Paesi e la liberazione del mondo coloniale e semicoloniale dipendevano
sul sostegno dell'Urss». Perciò, «malgrado tutti i difetti dell'Urss,
la sua esistenza dimostrava che il socialismo era più d'un sogno».
(Qui si potrebbe citare la fedeltà al partito, anzi al Partito, che
chiedeva «disciplina, efficienza professionale, identificazione
emozionale e totale dedizione»: travolta da un crollo nell'unica bomba
nazista caduta su Cambridge, nel 1941, un'amica di Hobsbawm, Freddie,
si sentì morire tra le fiamme ed esalò l'ultimo grido: «Viva Stalin,
ragazzi , e addio!». Per sua fortuna, o per alta intercessione, la
compagna Freddie si salvò e tanto basti a spiegare la fede nel
partito).
Che la destalinizzazione equivalesse alla fine del comunismo mondiale
si vide presto, con le crepe che subito s'aprirono in Polonia e
in Ungheria: «Ciò che sconcertava le masse degli iscritti era
il fatto che la spietata denuncia dei misfatti di Stalin non venisse
dalla "stampa borghese", le cui cronache, se pure venivano lette,
erano respinte a priori come calunnie e bugie, ma da Mosca stessa. Era
impossibile non prenderne nota, ma anche impossibile sapere che cosa
ne avrebbero dovuto pensare i seguaci».
Mesi orrendi, quelli dei fatti d'Ungheria, per un comunista:
«Praticamente mezzo secolo dopo, ancora mi si chiude la gola se
ricordo l'intollerabile tensione in cui vivevamo mese dopo mese, in
momenti interminabili a causa di decisioni su cosa dire o fare, da cui
sembrava che dipendessero le nostre vite future».
Hobsbawm, come tanti altri, visse per più d' un anno «sull' orlo dell'
equivalente politico di un esaurimento nervoso collettivo». Ed è qui
che, finalmente, lo storico si rivolge da solo la domanda che mai gli
hanno posto:
«Perché, allora, rimasi nel partito?».
Dopo il ' 57, spiega, si sentiva un dissidente:
«Mi riciclai da militante a simpatizzante, a compagno di viaggio o,
per dirla in altro modo, da iscritto effettivo del Partito comunista
britannico a socio spirituale del partito comunista italiano, che
soddisfaceva assai meglio le mie idee sul comunismo».
Perché, allora, conservare la tessera? «Primo, perché ero diventato
comunista come un cittadino dell' Europa centrale al momento del
collasso della Repubblica di Weimar».
Hobsbawm, ebreo nato ad Alessandria d' Egitto nel 1917, cresciuto a
Vienna e «convertito al comunismo» nella Berlino del 1932, prima
dell'emigrazione in Inghilterra, non poteva tagliare, dice, «il
cordone ombelicale con la speranza della rivoluzione mondiale». Ma la
seconda ragione, più forte, fu
l'orgoglio:
«Perdere l' handicap dell' iscrizione al partito avrebbe migliorato le
mie prospettive di carriera, se non altro in America. Sarebbe stato
facile scivolarne fuori, silenziosamente». E invece?
«Invece volevo dimostrare a me stesso che potevo avere successo -
qualunque cosa significhi "successo" - come un comunista dichiarato,
nel pieno della guerra fredda».
Superbo, forse capriccioso, ma coerente nella scelta di settant' anni
fa, Hobsbawm, ancora oggi:
«Non difendo questa forma d'egoismo, ma non posso nemmeno negarne la
forza. Perciò restai nel partito».
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