Una "duplice missione": al servizio degli altri
ma soprattutto alla ricerca di se stessi
SI PUO' ESSERE MISSIONARI
NELLA VITA DI TUTTI I GIORNI
La "missione nella missione"
di Claudia Chiapparelli
Quando si parla di missione si è soliti pensare immediatamente alle grandi imprese missionarie di alcuni gruppi di sacerdoti attivi nei paesi del Sud del mondo o comunque sempre a qualcosa che riguarda l’ambito religioso. Ma a pensarci meglio ognuno di noi è potenzialmente un missionario solo per il fatto che ha degli ideali.
Si può essere missionari nella vita di tutti i giorni senza obbligatoriamente appartenere a qualche gruppo di volontariato, religioso, politico, etc. La missione, certo, assume più importanza con l’aumentare del numero delle persone che la costituiscono ma il concetto che sta alla base resta sempre quello, ovvero inviare, trasmettere qualcosa di cui si è in possesso a chi si trova in difficoltà.
Personalmente non sento di meritarmi la fama di missionaria solo perché da due anni ormai partecipo all’azione di volontariato di una casa famiglia, però credo che tra il volontariato e la missione ci sia una sottile linea di demarcazione, quasi impercettibile se vogliamo. Almeno per quanto riguarda lo spirito che ne costituisce il fondo. La missione e il volontariato sono secondo me due importanti esperienze di crescita interiore, fondamentali per la formazione caratteriale di una persona non soltanto perché ci obbligano a confrontarci con delle realtà “diverse”, ma anche perché si impara una cosa fondamentale, ovvero a capire velocemente le persone che ci stanno di fronte e a modificare il nostro carattere in favore di queste.
Spesso, quando torno a casa dopo aver trascorso un pomeriggio intero nella casa famiglia mi rendo conto di quanto è importante per me stessa quello che faccio, è un po’ per così dire una “duplice missione”, nel senso che chi fa queste cose sa di essere al tempo stesso missionario per gli altri e per se stesso. Di certo non si finisce mai di imparare facendo del volontariato perché si incontrano sempre persone diverse ed è un po’ come trasferirsi ogni volta nella loro vita (ho dimenticato di dire che è fondamentale immedesimarsi nelle loro situazioni, se si restasse con gli occhi al di fuori delle loro storie sarebbe come guardare un film) e provare quindi emozioni mai provate, terribili a volte, però fondamentali affinché il nostro tempo per loro sia veramente d’aiuto. E’ come salvare una persona che sta annegando: senza entrare in acqua sarebbe impossibile salvarla! E così bisogna fare quando si fa volontariato, bisogna dimenticarsi di tutto tranne che della persona che abbiamo davanti: non deve esistere nient’altro che un filo diretto tra noi e lei, perché lei ci stima e merita tutte le attenzioni possibili. Ognuno di noi ha le capacità per immedesimarsi nei problemi di qualcuno, sapete, non è né magia nera, né qualcosa di innato che hanno solo in pochi, è solo questione di voglia e di forza.
Partecipare a queste attività è la cosa più utile per scoprire noi stessi, per cambiare quei lati spigolosi del nostro carattere che altrimenti resterebbero così per molto tempo o forse addirittura per sempre ed è un’occasione per sentire allo stesso tempo un sapore dolceamaro in bocca che proviene dallo “scambio di vite” che abbiamo fatto con i nostri amici della strada.
Ognuno di noi è potenzialmente un missionario.
Recuperare il senso profondo del volto,
della cittadinanza, del popolo.
Partendo da Korogocho il mio appello-augurio è semplicissimo: recuperare il senso profondo del volto.
Ma riconoscerete il vostro volto se sarete capaci di riconoscere il volto del vostro fratello, della vostra sorella: la comunità.
Non c’è il mio volto se non c’è il volto dell’altro. In Africa diciamo: io sono perché siamo. E’ la comunità, è l’altro che fa sì che io esista per quello che sono.
Ecco il cuore!
Infine, ed è fondamentale:
non ci può essere il mio volto e il volto del fratello e della sorella se esiste un volto dei crocifissi.
Tutti i volti sono uguali.
Io non posso piangere per le 3000 persone morte a New York se non piango anche per i 30 milioni di persone che muoiono di fame.
Perché o tutti sono cittadini o nessuno è cittadino, come diceva Don Milani.
Ecco il cuore: è il problema della legalità. Altrimenti tutto diventa assurdo. Il recupero dei volti, della cittadinanza, del popolo. Popolo: una parola che stiamo perdendo non solo nella società civile, ma anche nella Chiesa. Il concetto di “popolo di Dio” lo stiamo diluendo attraverso altre espressioni. Il recupero di una sovranità, come diceva Don Milani, in cui tutti siamo sovrani, i giovani sono sovrani, in cui l’obbedienza non è più una virtù.
A. ZANOTELLI