Perseguitati in nome di un'idea, di un'appartenenza, di una fede:
è possibile resistere?
VIVERE E SOPRAVVIVERE
Costretti a sopravvivere a un'idea
di Giovanni Bonacci
Talvolta tra le tante condizioni che costringono una persona a sopravvivere anziché vivere c’è un modo di pensare, un’opinione, un’idea che viene strenuamente difesa malgrado tutto ciò che di avverso ci può essere, dalla società che ha preso un’altra direzione alla repressione politica dei seguaci di quello stesso pensiero. Quando mi è stato chiesto di scrivere questo articolo, visto che ero stato io stesso a proporlo (puro atto di masochismo!) non mi è stato facile come poter impostare il tutto; sia chiaro: sapevo benissimo di cosa dovevo parlare, tuttavia mi sfuggiva il sottilissimo filo che collega un qualcosa di così intimo e difendibile (un pensiero, un’idea appunto) a ciò che di più basilare e toccabile con mano c’è ossia la qualità stessa della nostra vita. Dopo averci riflettuto non poco e con una paura di sbagliare tutt’altro che banale sono giunto alla conclusione che quel sottilissimo filo altro non è che la via che riporta a vivere nel vero senso della parola. E’ opinabile certo e sotto molti punti di vista anche paradossale, ma più mi pongo davanti a questo argomento più essa mi convince. Mi spiego. Un’idea se profonda, vera, ricercata, altro non è che lo specchio di noi stessi, è intrinseca al nostro modo di essere, di pensare, di agire, è un vero e proprio pezzo di noi, un perno insostituibile intorno al quale si svolge la nostra esistenza, perciò il nostro stesso vivere sta nel non rinunciarvi. Come sarebbe oggi Nelson Mandela se alle prime difficoltà si fosse arreso, tradendo prima di tutti se stesso? Beh, penso che quell’uomo rinchiuso per anni fosse tra le quattro mura della cella infinitamente più vivo di innumerevoli altri individui, centinaia, migliaia, popoli interi di gente che vive senza uno scopo vero e proprio, senza una propria onestà interiore, senza impedire che sia il moto ondoso delle cose a sommergerli e controllarli. Se egli avesse rinunciato avrebbe perso realmente la possibilità di vivere. Penso dunque che chi per un suo pensiero è costretto ad andare avanti fra vessazioni e stenti sia più di tutti, forse inconsapevolmente, vivo, ed il suo quotidiano sopravvivere nasconde una ricchezza ben più grande e duratura.
Primo Levi: "Se questo è un uomo"
di Davide Toffoli
“Se questo è un uomo” è un libro di memorie pubblicato nel 1947 che racconta le esperienze vissute durante la deportazione in Germania nel lager di Monowitz (che faceva parte del sistema dei campi di Auschwitz). Abbiamo a che fare con un testo che si stacca dalla memorialistica del Neorealismo, lontano da uno stile “cinematografico” e dal proiettare immagini positive: si tratta piuttosto di un racconto-diario, nel quale si alternano il presente (tempo del diario) e il passato remoto (tempo della storia) e nel quale ogni descrizione appare costantemente guidata da una inesauribile volontà di capire, di scendere nel cuore di quella terribile esperienza ai limiti dell’umano, di fissare con delle parole una realtà che si mostra ben oltre ogni tipo di razionalità. Di fronte alla storia assurda nella quale altri uomini lo hanno precipitato, il prigioniero del lager resiste riuscendo a mantenere intatto almeno un fondo di cordialità umana. Il quadro rappresentato dal racconto è infernale: una Babele di linguaggi parlati da uomini dalle provenienze più diverse si intreccia nelle pagine di questo diario, nel quale ogni singola parola si aggrappa ad una “necessaria resistenza dell’umano” di fronte agli orrori del nazismo. Senza amplificazioni retoriche e linguistiche e senza particolari effetti narrativi, la descrizione di Primo Levi presenta, quasi biblicamente, la terribile epopea di un’umanità offesa, denudata, aggredita e privata dei più elementari attributi del suo essere. Un testo che scava nella memoria di un vissuto che “non può essere dimenticato” dal singolo e che non deve essere dimenticato dall’intera comunità umana che, suo malgrado l’ha prodotto.