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Autore: Giacomo Debenedetti

Titolo: 16 ottobre 1943

Casa editrice: Sellerio editore

Città: Palermo

Anno di pubblicazione: 1993

Trama

16 ottobre 1943 si svolge a Roma dove il maggiore Kappler delle SS manda a chiamare i capi della Comunità Israelitica per imporre agli ebrei romani una taglia. Essa consisteva in cinquanta chilogrammi d’oro che dovevano ripagare il fatto di essere italiani, e quindi traditori della Germania, e di appartenere alla razza da sempre nemica dei tedeschi. Consegnato l’oro, nell’ex Ghetto torna la tranquillità. Una sera sopraggiunge una donna, la quale afferma di aver visto in mano ad un tedesco un elenco di nomi di capi-famiglia ebrei, destinati alla deportazione, ma non viene creduta.

Nella stessa notte per le vie del quartiere si odono degli spari e delle urla, ma nessuno si sforza di capire cosa sia successo. Il mattino seguente inizia il rastrellamento e sono indiscriminatamente catturati tutti gli ebrei, tranne i pochi che riescono a fuggire. In seguito, alla stazione di Roma-Tiburtino, vengono fatti salire su un treno con destinazione sconosciuta. Il treno effettua due soste durante le quali alcuni ebrei tentano la fuga, ma vengono immediatamente uccisi.

Nessuno ha avuto mai notizie dei deportati, né il Vaticano, né la Croce Rossa, né la Svizzera, né altri Stati neutrali.

Otto ebrei si apre con il processo Caruso e con la testimonianza del Commissario di Pubblica Sicurezza Alianello, il quale dichiara di aver avuto la possibilità di far cancellare, dalla lista degli ostaggi destinati alle Fosse Ardeatine, dieci nomi e di aver fatto cancellare due nomi scelti a caso e otto nomi di ebrei. Quello che doveva rappresentare, agli occhi dei giudici e dell’opinione pubblica, un merito non è altro che un’ulteriore discriminazione razzista per l’autore. Debenedetti infatti riflette su questa concessione compassionevole, vedendola più come un modo per farsi pubblicità che come un vero e proprio gesto di pietà, come un modo opportunistico di prendere le distanze dal fascismo e dal nazismo, nel clima antifascista del dopoguerra. La difesa di quegli otto ebrei sarebbe dunque un gesto ipocrita e offensivo, perchè dà per scontata la loro "diversità". Gli ebrei ancora oggi si chiedono quale colpa avessero, da quale strana malattia potessero essere affetti, a tal punto da meritarsi violenze, supplizi e morti. E i superstiti non chiedono di avere diritti speciali, anzi chiedono l’assenza di ogni discriminazione, non vogliono essere considerati vittime ma essere inseriti nella società come gli altri, non vogliono suscitare pietà ma essere semplicemente accettati.

Stile

Enorme è l’importanza di questi due "opuscoli" perchè entrambi affrontano temi che riguardano la collettività ancora oggi, come ad esempio la violenza, il razzismo e la diversità. 16 ottobre 1943 è un racconto giornalistico in quanto l’autore espone una serie di eventi realmente accaduti, descrive perciò la realtà senza apportare propri commenti. Il punto di vista del narratore è quindi esterno; infatti Debenedetti non compare mai nel corso della vicenda. Il narratore coincide con l’autore, il quale si pone in posizione superiore rispetto ai fatti narrati poichè conosce tutto ciò che è accaduto, essendo egli stesso un ebreo e avendo vissuto il difficile periodo nazifascista.

Anche Otto ebrei è un resoconto giornalistico che si apre con un fatto di cronaca, il

processo Caruso. All’inizio Debenedetti si limita al semplice racconto dei fatti, mentre in seguito espone le sue idee riguardo a quanto è accaduto alla razza ebrea, all’atrocità dello sterminio di una collettività per motivi razziali e all’ "antipersecuzione"che dopo la fine della guerra i superstiti sono costretti a subire. Il testo diventa quindi occasione per una polemica dell’autore contro chi si ostina a considerare gli ebrei come dei diversi, prima bersaglio di una campagna denigratoria, poi oggetto di pietà, prima perseguitati in blocco solo perchè ebrei, poi salvati come anonimi rappresentanti di una "razza".

Una pagina esemplare

Verso l’alba del lunedì, i razziati furono messi su autofurgoni e condotti alla stazione di Roma-Tiburtino, dove li stivarono su carri bestiame, che per tutta la mattina rimasero su un binario morto. Una ventina di tedeschi armati impedivano a chiunque di avvicinarsi al convoglio.

Alle ore 13,30 il treno fu dato in consegna al macchinista Quirino Zazza. Costui apprese quasi subito che nei carri bestiame "erano racchiusi" – così si esprime una sua relazione- "numerosi borghesi promiscui per sesso e per età, che poi gli risultarono appartenenti a razza ebraica".

Il treno si mosse alle 14. Una giovane che veniva da Milano per raggiungere i suoi parenti a Roma, racconta che a Fara Sabina (ma più probabilmente a Orte) incrociò il "treno piombato", da cui uscivano voci di purgatorio. Di là dalla grata di uno dei carri, le parve di riconoscere il viso di una bambina sua parente. Tentò di chiamarla, ma un altro viso si avvicinò alla grata, e le accennò di tacere. Questo invito al silenzio, a non tentare più di rimetterli nel consorzio umano, è l’ultima parola, l’ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro.

Nei pressi di Orte, il treno trovò un semaforo chiuso e dovette fermarsi per una decina di minuti. "A richiesta dei viaggiatori invagonati"- è ancora il macchinista che parla - alcuni carri furono sbloccati perchè "chi ne avesse bisogno fosse andato per le funzioni corporali". Si verificarono alcuni tentativi di fuga, subito repressi con una nutrita sparatoria.

A Chiusi, altra breve fermata, per scaricare il cadavere di una vecchia, deceduta durante il viaggio. A Firenze il signor Zazza smonta, senza essere riuscito a parlare con nessuno di coloro a cui aveva fatto percorrere la prima tappa verso la deportazione. Cambiato il personale di servizio, il treno proseguì per Bologna.

Né il Vaticano, né la Croce Rossa, né la Svizzera, né altri stati neutrali sono riusciti ad avere notizie dei deportati. Si calcola che quelli del 16 ottobre ammontino a più di mille, ma certamente la cifra è inferiore al vero, perchè molte famiglie furono portate via al completo, senza che lasciassero traccia di sé, né parenti o amici che ne potessero segnalare la scomparsa.

Novembre 1944

G. Debenedetti, op. cit. pp. 62-64.

 

La pagina da me scelta si trova al fondo del resoconto giornalistico 16 ottobre 1943 e riproduce il momento in cui avviene la scena più impressionante, secondo me, di tutta la vicenda: dalla stazione di Roma-Tiburtino parte un treno che deporta un grande numero di ebrei stipati nei vagoni come fossero bestiame. Il treno parte alle ore 14, effettua due soste, poi prosegue per Bologna. Da qui in poi né il Vaticano, né la Croce Rossa, né la Svizzera, né altri stati neutrali hanno notizie dei mille e più deportati. A un certo punto della pagina troviamo una giovane proveniente da Milano, diretta verso Roma, la quale incrocia ad Orte il "treno piombato" in sosta. Attraverso le grate del treno riconosce una bambina sua parente, tenta di chiamarla, ma un altro viso si avvicina alle sbarre e le accenna di tacere. A mio giudizio questo gesto vuole significare la rassegnazione di questi ebrei, consapevoli della loro imminente morte e quindi dell'inutilità di instaurare un ulteriore contatto con la società umana esterna. Dalle parole del macchinista Quirino Zazza emergono l'insensibilità e la viltà dei milioni di complici che hanno reso possibile l'orrendo crimine della deportazione.

 

Scheda a cura di Marco Vurro

5ªE Telecomunicazioni

Anno Scolastico 1998/99

I.T.I.S. GB. Pininfarina

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