Il nazismo  e i campi di concentramento

«Plus jamais ça»

mostra fotografica e documentale

Album Auschwitz - testi

da «Album Auschwitz» a cura di Israel Gutman, Bella Gutterman e Marcello Pezzetti - G. Einaudi Editore - 2008

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L'annientamento degli ebrei ungheresi

di Israel Gutman

La comunità ebraica ungherese fu annientata nell'ultima fase della Seconda guerra mondiale, quando l'Armata Rossa si stava avvicinando ai confini dell'Ungheria e gli ebrei, terrorizzati ma speranzosi, contavano i giorni in attesa che l'incubo finisse. All'epoca, vivevano in Ungheria circa 800 000 ebrei. Quella ungherese era l'unica grande comunità ebraica nella sfera di influenza e di controllo del Terzo Reich a essere stata relativamente risparmiata dalla furia omicida nazista. Il 19 marzo 1944, da un giorno all'altro, gli ebrei ungheresi si trovarono risucchiati dall'atroce meccanismo di sterminio organizzato dai nazisti, con l'appoggio del governo ungherese. L'imminente disfatta tedesca e la responsabilità che gli autori del crimine avrebbero dovuto affrontare di lì a poco non sortirono l'effetto di porre fine agli omicidi. Al contrario, nell'estate del 1944, le deportazioni degli ebrei ungheresi ad Auschwitz procedettero più rapidamente rispetto a quanto non fosse avvenuto per altre comunità ebraiche d'Europa, a parte la deportazione di massa dal ghetto di Varsavia nell'estate del 1942. La macchina di morte funzionò a pieno ritmo durante quei mesi, dal punto di vista sia dell'entità dello sterminio degli ebrei ad Auschwitz-Birkenau sia della barbarie con cui si effettuò l'operazione. L'impero Austro-ungarico era stato sciolto alla fine della Prima guerra mondiale. Lo Stato ungherese fu costituito in seguito a questa sconfitta e dopo la breve ed effimera rivoluzione di ispirazione sovietica condotta da Béla Kun, leader politico di origini ebraiche. In un primo tempo, la nazione ungherese si rafforzò sotto la reggenza dell'ammiraglio Miklós Horthy, con governi conservatori di centrodestra. All'epoca, gli ebrei ricominciarono a svolgere un ruolo di primo piano nella vita economica e culturale, nella stampa e, a livello individuale, nella politica del paese. La comunità ebraica contava circa 450 000 persone, oltre 200 000 delle quali vivevano a Budapest, cioè circa il 5 per cento della popolazione del paese. Questa comunità, nota per la sua lealtà verso la nazione e i valori patriottici magiari, si dimostrò riluttante a rivendicare i diritti delle minoranze o a chiedere l'intervento degli organismi internazionali quando, per esempio, venne instaurato il numero chiuso che limitava l'accesso degli ebrei alle università. Gli ebrei ungheresi erano organizzati in comunità, si dividevano in tre principali correnti religiose e gestivano una rete di istituti e scuole elementari e di studi talmudici avanzati (yeshivah). Il movimento assimilazionista, che poteva contare su un ampio sostegno, riponeva grande fiducia nell'emancipazione che era stata concessa agli ebrei ungheresi nell'Ottocento e partecipava alla vita sociale e culturale del paese. L'Ungheria tra le due guerre era stata costituita come componente etnico-territoriale dell'ormai smembrato impero Austro-ungarico. Circa due terzi del suo territorio e 3 000 000 di magiari, vale a dire quasi un terzo della nazione ungherese, vennero inglobati in altri stati costituiti o ampliati si dopo la Seconda guerra mondiale: la Romania, la Cecoslovacchia e la Iugoslavia. È significativo osservare come gli ebrei di cittadinanza ungherese che andarono a finire in questi paesi avessero in genere mantenuto i rapporti con la tradizione, la lingua e la cultura ungheresi. Ciò che restava dell'Ungheria accettò a denti stretti e con grande amarezza le frontiere tracciate nei trattati di Trianon e Versailles dagli Alleati vincitori. L'Ungheria aveva rapporti molto tesi con i paesi limitrofi e finì per avvicinarsi gradualmente a nazioni non confinanti come l'Italia fascista e la Polonia. Tuttavia, il regime di Horthy cercava di impedire alle fazioni ultranazionalistiche di organizzarsi e alzare la testa. Nel 1923, l'Ungheria fu ammessa tardivamente nella Società delle Nazioni. Il regime di Horthy contava sull'appoggio dei ceti conservatori e della nobiltà tradizionale che manifestavano nostalgia e attaccamento al passato. La crisi economica generalizzata della fine degli anni Venti colpì duramente l'Ungheria. Le difficoltà e le incertezze provocarono un'intensificazione dei fenomeni di antisemitismo. Nel periodo fra le due guerre mondiali, gli ebrei in Ungheria erano una minoranza piuttosto in vista: molti di loro occupavano importanti posizioni nella vita economica del paese ed erano ampiamente rappresentati nell'intellighenzia e nelle professioni liberali. L'ascesa al potere di Hitler ebbe effetti immediati sull'Ungheria e la Germania si dimostrò subito interessata a consolidare i rapporti economici con questo paese. Vista e considerata la politica del Terzo Reich, intenzionato a sovvertire gli accordi di Versailles, e sullo sfondo della sempre crescente aggressività di Berlino, gli ungheresi cominciarono a coltivare la speranza di poter riconquistare il loro status internazionale e i territori perduti avvalendosi dell'influenza tedesca. In questo contesto, si moltiplicarono le organizzazioni filotedesche e filonaziste. La classe politica ungherese era divisa. Erano in molti ad auspicare un riavvicinamento alla Germania, ma altri - come per esempio il primo ministro, il conte Pál Teleki, e, per certi versi, lo stesso Horthy - temevano evidentemente le implicazioni di un'alleanza senza condizioni con i tedeschi, ormai posseduti da un'aggressività senza freni. Nell'aprile 1938, dopo l'Anschluß (l'annessione dell'Austria al Reich) e lo schieramento di truppe naziste lungo la frontiera fra Germania e Ungheria, il parlamento magiaro varò la prima legge antisemita (detta Prima legge ebraica), incontrando ancora una certa resistenza da parte dell'opposizione. Il provvedimento - che imponeva un tetto massimo del 20 per cento alla presenza degli ebrei nelle professioni liberali, nelle belle arti, nella classe dirigente, nell'industria e nel commercio - indusse un gran numero di israeliti a convertirsi al cristianesimo; fra il 1938 e il 1939 furono ben 14 654. Con gli accordi di Monaco, gli ungheresi ottennero una fetta di Cecoslovacchia. Più o meno in quello stesso periodo, fu promulgata e applicata la Seconda legge ebraica, basata su principi razzisti. Nel 1939, quando il Terzo Reich aggredì la Polonia dando inizio alla prima fase della Seconda guerra mondiale, l'Ungheria non entrò nel conflitto. Nel marzo del 1941, però, prese parte con le forze tedesche all'occupazione della Iugoslavia in cambio dei territori che le erano stati promessi. Prima di ciò, nell'agosto del 1940, si era annessa la grande provincia rumena della Transilvania settentrionale. Nel 1941, l'Ungheria varò la Terza legge ebraica, una legge razziale elaborata sul modello delle Leggi di Norimberga con l'intento di proteggere la razza magiara. Ma il passo fatale che rese schiava l'Ungheria - da paese alleato dello Stato nazista a vero e proprio satellite del Terzo Reich - fu la decisione di entrare in guerra contro l'Unione Sovietica alla fine di giugno del 1941e poi di svincolarsi in maniera irrevocabile dal mondo libero e dagli Alleati occidentali, nel dicembre dello stesso anno, dichiarando guerra agli Stati Uniti. La Seconda legge ebraica vietava agli ebrei di prestare servizio militare. Nel 1939-40, ebrei ed «elementi inaffidabili» vennero obbligati al lavoro coatto nell'esercito. Nel marzo 1942, furono emanate istruzioni riguardanti «l'impiego degli ebrei per esigenze di guerra» in battaglioni ausiliari. Gli ebrei di queste unità speciali erano disarmati e indossavano abiti civili, un berretto militare e un bracciale giallo. Erano comandati da ufficiali e soprintendenti dell'esercito e venivano «impiegati» per costruire strade e fortificazioni, trasportare carichi, scavare trincee e per operazioni di sminamento. Si stima che nel biennio 1942-43 siano state richiamate in queste unità circa 50 000 persone. Nel gennaio 1943, mentre l'esercito ungherese veniva massacrato sul campo, anche i battaglioni ausiliari ebraici subirono perdite pesantissime. Si ritiene che durante la grande ritirata siano morti dai 40 000 ai 43 000 ebrei costretti al lavoro coatto nell'esercito. Gli ebrei fatti prigionieri dai sovietici erano considerati nemici. A volte, i comandanti dell'Armata Rossa (ebrei e non ebrei) al corrente della loro situazione li lasciavano scappare prima che venissero deportati nei campi per prigionieri di guerra nell'interno dell'Unione Sovietica. Fino al marzo 1944, quando la Wehrmacht invase il paese, l'Ungheria non aveva ancora cominciato a uccidere gli ebrei né a consegnarli sistematicamente ai tedeschi ed erano stati perpetrati soltanto due omicidi di massa sotto la responsabilità delle autorità e dell'esercito ungheresi. Poco dopo l'inizio dell'Operazione Barbarossa - l'invasione dell'Unione Sovietica da parte della Germania -, i funzionari del ministero ungherese che si occupavano degli «stranieri», cioè rifugiati apolidi che si erano infiltrati in Ungheria, predisposero un'operazione, coordinata con le autorità naziste, per trasferire gli ebrei apolidi in Galizia. Nel luglio 1941, questi ultimi furono arrestati e vennero catturati insieme agli stranieri anche numerosi ebrei ungheresi. Nella seconda settimana di agosto, già 14 000 ebrei erano stati consegnati alle SS. Alla fine di agosto, per ordine di Friedrich Jeckeln, comandante delle ss e della polizia della zona di occupazione meridionale, queste persone furono assassinate insieme agli ebrei della città di Kamenec-Podolski. Nel gennaio 1942, da 600 a 700 ebrei furono uccisi a Novi Sad e nelle vicinanze a seguito di un'azione punitiva dell'esercito ungherese nella quale perirono circa 3300 civili, perlopiù serbi. L'eccidio fu poi oggetto di indagine e i respon­sabili furono perseguiti penalmente, ma i mandanti riuscirono a fuggire in Germania. Le annessioni territoriali dell'Ungheria raddoppiarono quasi la popolazione ebraica della nazione portandola a 725 000 persone nel 1941, a cui se ne aggiungevano altre 100 000, de­finite ebree secondo le leggi razziali. Come detto sopra, fino all'occupazione da parte delle truppe tedesche nel marzo 1944, gli ebrei stavano molto meglio in Ungheria che non nella maggior parte delle nazioni occupate e degli stati nella sfera di influenza nazista. Gli ebrei godevano ancora di una certa libertà personale e i rifugiati di religione israelitica, il cui numero non è mai stato accertato, ma che sicuramente si aggirava attorno alle 15 000-20 000 persone, vi avevano trovato riparo. Le istituzioni ebraiche potevano ancora operare anche se, nel 1942, l'amministrazione della comunità ebraica fu privata dello status ufficialmente riconosciuto alle altre confessioni religiose. Diversi personaggi pubblici e leader della comunità ebraica mantenevano rapporti regolari con le autorità ungheresi e alcuni di essi erano anche in contatto con Horthy. Nell'aprile del 1943, Horthy fu convocato al castello di Klessheim per incontrare Hitler, il quale era venuto a conoscenza delle mosse esplorative compiute dal governo di Miklós Kállay per separarsi dal blocco nazista nel tentativo di instaurare un dialogo con gli Alleati. Nel corso dei colloqui, Hitler sollevò la «questione ebraica» affermando che «i parassiti ebrei vanno trattati come batteri pericolosi e annientati». Horthy rispose di non poter uccidere gli ebrei, visto che erano stati banditi dalle posizioni che ricoprivano nell' economia. Lo sterminio degli ebrei ungheresi cominciò quasi subito, non appena l'Ungheria compi i primi passi per uscire dalla guerra e concentrarsi sulla difesa del proprio territorio dagli attacchi dell'esercito sovietico. L'esercito magiaro sul fronte sovietico fu annientato in due grandi operazioni: la battaglia di Stalingrado e il combattimento nelle vicinanze di Voronez. All'inizio del 1944, quando l'Armata Rossa si stava ormai avvicinando ai Carpazi, Kallay intensificò gli sforzi per svincolare il proprio paese dalla Germania e pervenire a un accordo con gli Alleati occidentali. Per tutta risposta, l'alto comando tedesco decise di occupare l'Ungheria, che la Wehrmacht invase il 19 marzo 1944. Il 17 marzo 1944 Horthy fu nuovamente convocato al castello di Klessheim. Hitler e i comandanti del Reich gli comunicarono la loro decisione; i colloqui proseguirono sotto il diktat tedesco e nel tentativo, da parte dell'Ungheria, di rendere la capitolazione un po' meno amara. Mentre, capeggiata da Horthy, la delegazione ungherese tornava a casa, i tedeschi invasero l'Ungheria. Il primo ministro fu costretto alle dimissioni e gli successe Dome Sztojay, ex ambasciatore d'Ungheria a Berlino. Dal punto di vista formale, Horthy mantenne la propria carica, sostenendo che in tal modo l'Ungheria sarebbe rimasta indipendente. Di fatto, invece, la pretesa ungherese di mantenere la propria sovranità facilitò le cose alla Germania. Le truppe tedesche che invasero l'Ungheria erano affiancate da centinaia di agenti segreti della Gestapo e da 100-150 membri di un'unità speciale (Sonderkommando) agli ordini di Adolf Eichmann. Fu solo in Ungheria che Eichmann guidò personalmente l'unità incaricata di attuare la «soluzione finale», assistito da un gruppo di collaboratori che si occupavano di concentrare gli ebrei e di deportarli nei campi di sterminio. Sembra che Horthy, nell'incontro al castello di Klessheim, si fosse impegnato a consegnare un gran numero di ebrei, destinati ad andare a «lavorare in Germania». Le linee generali del piano erano state preparate in anticipo, e l'operazione venne condotta congiuntamente dalle autorità e dai funzionari di polizia tedeschi e ungheresi. I capi della comunità di Budapest, non sapendo come comportarsi, contattarono Horthy e alcuni membri del governo per essere consigliati su come rispondere alle richieste della Germania. I funzionari suggerirono loro di ubbidire ai tedeschi. I membri del Consiglio ebraico non la pensavano tutti allo stesso modo, ma i più ritenevano di non avere scelta e di dover instaurare un dialogo diretto con i tedeschi per mitigare le conseguenze distruttive dei decreti. Probabilmente pensavano che fosse il male minore. Invece i tedeschi diedero ai membri del Consiglio direttive contraddittorie, apposta per frastornarli. Nella prima settimana di aprile, il governo ordinò agli ebrei di indossare la stella gialla. In seguito furono confiscate le proprietà collettive e personali. Subito dopo l'inizio dell'occupazio­ne, fu istituito a Budapest il Consiglio centrale degli ebrei ungheresi e Samu Stern, ben noto capo della comunità, ne assunse la presidenza. Stern sottolineava il dovere di «ubbidire alle istruzioni e alle direttive» e rivolse il seguente messaggio ai suoi correligionari: «Ricordiamo l'ammonimento dei nostri eminenti profeti e maestri. Loro ci insegnano che il timor di Dio e la pietà sono le più grandi virtù dell'uomo. Lavorate e non disperate. Questo è l'imperativo odierno». Fu promesso agli ebrei che avrebbero potuto continuare a condurre indisturbati la loro vita religiosa, sociale e culturale. In un incontro con Eichmann, fu detto ad alcuni rappresentanti della comunità che tutte le direttive antiebraiche sarebbero rimaste in vigore per l'intera durata della guerra, ma che dopo la fine del conflitto tutto sarebbe tornato come prima. Nel loro complesso, gli ebrei ungheresi erano inconsapevoli dei pericoli a cui andavano incontro, anche se a Budapest cominciavano a circolare notizie sulle gravissime difficoltà in cui si dibattevano gli ebrei d'Europa nelle zone controllate dai nazisti. Rifugiati, testimoni di deportazioni in paesi vicini ed evasi da Auschwitz presentarono alle autorità ebraiche relazioni dettagliate su ciò che stava succedendo. Nella maggior parte dei casi, le notizie furono accolte con scetticismo. Evidentemente, gli ebrei ungheresi credevano che a loro sarebbe stato risparmiato quel genere di destino e riponevano fiducia in quello che era stato il loro paese e nella nazione dove avevano trascorso gli anni di guerra. La domanda cruciale che spesso ci si pone è come mai la leadership ebraica non abbia condiviso le informazioni con la gente del posto per metterla in guardia. Tuttavia, è pur vero che alcuni membri di movimenti giovanili hanno raccontato di essersi trovati di fronte a reazioni ostili e di grande scetticismo quando portavano queste terrificanti notizie nei villaggi ebraici delle campagne. La vicenda più nota e controversa è quella che riguarda il Comitato di soccorso che operava in Ungheria. Era un patronato a sé stante, sotto la guida sionista, che entrò in trattative con l'unità di Eichmann proponendo di fornire camion, materiale vario e denaro in cambio della liberazione e dell'allontanamento in massa di un certo numero di ebrei - un accordo che non giunse mai alla fase pratica. Rezső (Rudolf) Kasztner, il membro più in vista del comitato, fu accusato di preoccuparsi solo di un piccolo gruppo a cui era stata promessa la salvezza in cambio del silenzio e dell'abbandono della comunità ebraica. Fu solo dopo il suo assassinio, commesso in Israele ad opera di estremisti, che la Corte suprema israeliana prosciolse Kasztner dall'accusa più grave mossa contro di lui, e cioè di essere stato un collaborazionista. Per radunare gli ebrei e attuare la deportazione programmata, la polizia e la gendarmeria ungheresi furono messe sotto il controllo e la guida dei tedeschi. La prima fase fu quella della ghettizzazione, definita «alloggiamento e reinsediamento». La gendarmeria istituì ghetti nelle varie regioni. Solo alcuni sindaci e funzionari di polizia preferirono dimettersi piuttosto che prendere parte all' operazione; la maggior parte vi partecipò in un modo o nell'altro, e non senza un certo entusiasmo. L'internamento nei ghetti fu attuato gradualmente, dalla metà di aprile ai primi di giugno, nelle varie regioni: dalla Rutenia carpatica alla Transilvania settentrionale, passando per le zone interne. I luoghi dove istituire i ghetti furono scelti in maniera del tutto improvvisata: sinagoghe, fabbriche abbandonate, zone residenziali abitate da ebrei, e persino in aperta campagna. Il passaggio da una vita più o meno normale a un' esistenza confinata in luoghi di segregazione, in un contesto perlopiù ostile in cui gli ebrei subivano vessazioni e venivano depredati dei loro beni, gettò le famiglie e le comunità nell' angoscia e nello sconforto. Secondo i piani del Sonderkommando di Eichmann e della polizia ungherese, la ghettizzazione era solo una prima fase del concentramento in previsione del trasporto verso il campo di sterminio di Auschwitz. I trasporti cominciarono il 15 maggio 1944 e andarono avanti fino alla fine della prima settimana di luglio. Le occasioni di scappare dai ghetti e trovare rifugio presso famiglie non ebree, oppure di attraversare la frontiera con la Romania, si presentavano di rado, e comunque mancò il tempo materiale per organizzare qualsiasi tipo di fuga. L'atteggiamento della popolazione, secondo molte testimonianze - fatta eccezione per un numero limitato di persone - era ostile ed estraniato, e i delatori imperversavano. Gli ebrei in Ungheria, più che altrove, insistevano per mantenere unite le famiglie e non avevano la più pallida idea della destinazione finale del viaggio che intraprendevano. In tutto, partirono 147 treni merci, stipati di famiglie strappate dalle loro case nell'Ungheria post-Trianon e nei territori annessi. Secondo coloro che perpetrarono il crimine, le persone trasportate - uomini, donne, bambini e anziani - furono 435 000. L'operazione di trasporto interessò l'intero paese. Il 7 luglio Horthy ordinò di cessare le deportazioni. La ragione di questa misura, oltremodo tardiva, è stata ricondotta agli avvertimenti e alle sollecitazioni rivolti all'Ungheria dai paesi alleati, dai paesi neutrali e dal Vaticano, oltre che alle manifestazioni di resistenza e protesta di alcune personalità di spicco nella stessa Ungheria. Comunque, il motivo principale della condotta di Horthy fu la sua intenzione di liberare l'Ungheria, sebbene a caro prezzo, dal turbine della guerra e dalla dipendenza dalla Germania. Anche questa audace risoluzione arrivò però troppo tardi. Il 15 ottobre 1944, in risposta alla decisione di Horthy, le Croci frecciate di Ferenc Szálasi salirono al potere con un colpo di Stato. Questo partito filonazista - che era attivo e aveva acquisito forza già prima della Seconda guerra mondiale - era sempre stato escluso dai governi ungheresi, fino a quando non fu imposto dai tedeschi nell'ultima fase dell'occupazione, alla metà di ottobre del 1944. Il partito delle Croci frecciate era un movimento fascista, ultranazionalista e fortemente antisemita che legò il proprio destino in modo indissolubile a quello della Germania di Hitler. Il governo guidato dagli ufficiali delle Croci frecciate riprese ben presto le deportazioni, trasformando il paese in un luogo di terrore e di morte. Circa 80 000 ebrei, soprattutto donne, furono condotti a piedi verso il confine con l'Austria; una marcia che produsse indicibili sofferenze e mieté un gran numero di vittime. Da luglio in poi, gli ebrei di Budapest potevano risiedere esclusivamente nelle cosiddette «case ebraiche», contrassegnate da una stella gialla all'ingresso. In un secondo momento furono trasferiti in un vero e proprio ghetto. Durante le diverse fasi delle deportazioni, specie l'ultima, migliaia di ebrei furono salvati da persone oneste e coraggiose - primi fra tutti lo svedese Raoul Wallenberg, lo svizzero Cari Lutz, rappresentanti della Croce Rossa, oltre a esponenti del mondo cristiano e del movimento clandestino - che, mettendo spesso a repentaglio la loro stessa vita, si adoperarono per proteggere i perseguitati. Anche gli ebrei in prima persona svolsero un ruolo chiave in quei giorni tragici, in particolare i membri dei movimenti giovanili sionisti i quali intuirono, a ragione, che stante la situazione dell'Ungheria, la forma più adatta di resistenza non era una sollevazione attiva, bensì il tentativo di sfruttare al massimo ogni opportunità di soccorso esistente. Preparare documenti falsi, trovare cibo, proteggere gruppi di bambini, trasferire le persone in pericolo dall'Ungheria alla Romania: è anche cosi che molti ebrei furono aiutati, da persone che si mobilitarono per loro nelle ultime fasi e durante l'assedio di Budapest, che fu liberata nel febbraio del 1945. La sopravvissuta Sarah Beinhorn nata Klein, di Munkács, deportata dall'Ungheria ad Auschwitz, ha raccontato a Yehudit Golan:

 

[...] Il terribile viaggio durò due giorni e nessuno sapeva dove ci stessero portando. Ciascuno si teneva tutto dentro, cercando di superare quella paura che gli attanagliava il cuore, una paura che cresceva di ora in ora. «Per quanto tempo continueremo a viaggiare?», si chiedevano l'un l'altro, sussurrando. Stremate e impotenti, le persone si addormentavano in piedi per pochi istanti, risvegliandosi di colpo nel terrore. C'erano tanti bambini. Il piccolo Moshe Yehuda Leib, nove anni ancora da compiere, si accarezzava la toppa sulla giacca. «Porto sempre gli abiti smessi di Chaim Yerocham», aveva detto alla mamma alcuni mesi prima. Poi, con il sorriso di chi ha avuto un'intuizione geniale, le disse: «Promettimi almeno che sui buchi ci metterai una toppa di stoffa nuova». La madre disse di sì. Cucì sulla giacca del piccolo una toppa magnifica, e lui se ne andava in giro felice, coi suoi vestiti rappezzati, fiero di mostrarla a tutti. Ora era lì, nel vagone, che accarezzava la toppa, con il capo coperto e il volto solenne di un vecchio coi capelli bianchi. Shuri guardava il suo adorato fratellino, che era cresciuto tutto insieme, e troppo presto. Vedeva i suoi occhi lucidi e la sofferenza impressa sul suo volto di bambino, mentre teneva le labbra serrate. Volse lo sguardo verso Chaim Yerocham, quattordici anni, che controllava senza sosta gli sviluppi della situazione attraverso le fessure nelle tavole, e pensò che quelli non erano pili dei bambini, che il loro modo di comportarsi - cosi controllato - era tipico dell' età adulta. In cuor suo, ringraziò che stessero zitti, che non facessero domande a cui nessuno avrebbe saputo rispondere, che non si lamentassero, che non chiedessero cose che nessuno avrebbe potuto dargli. Poi guardò gli adulti - mamma, Tatty, Bubby, e il resto della famiglia. Sembrava che sapessero già dov'era diretto il treno. Il loro sguardo fisso tradiva l'orrore, come quello di una persona che ha fatto una scoperta improvvisa, una persona che vede davanti a sé una clessidra a segnare il poco tempo che le rimane. Qualcuno parlava di fede, di fiducia in Dio, del fatto che tutto è deciso dal Cielo... E il tempo scorre. Ora gli adulti si accorgono di non avere più l'orologio, perché tutti hanno dovuto consegnarlo durante l'ispezione prima di arrivare alla frontiera. Non si riesce a sapere che ore sono. Restano solo la mattina, con la sua luce pallida, e la notte, con le sue ombre cupe. Hanno già alle spalle due giorni di viaggio, e la luce del mattino del terzo giorno penetra attraverso le fessure del vagone, che si è fermato all'improvviso. Gli occhi scrutano attraverso le grate, si incollano ai buchi, cercano di capire che cosa succede fuori e di riferire a parole quello che vedono. Il vagone è ancora sigillato. Il treno, partito sabato mattina da Munkáks, avanza sul binario di pochi metri alla volta, e poi si ferma. Siamo già a lunedì pomeriggio, la vigilia di Rosh Chodesh Sivan 5704 (22 maggio 1944).

Nel Kalendarium di Danuta Czech, alla data del 16 maggio, si legge:

Nel campo di concentramento di Auschwitz II [Birkenau] è imposta ai detenuti la prima lunga serrata del lager che impediva ai prigionieri di lasciare il blocco (Blocksperre). Questo stesso giorno, arrivano al raccordo ferroviario tre treni merci; sono i primi trasporti del RSHA [il Reichsicherheitshauptamt, l'Ufficio centrale della sicurezza del Reich] con i quali vengono deportati gli ebrei ungheresi. Agli ebrei arrivati viene ordinato di scaricare il bagaglio; poi, si devono disporre in file di cinque e vengono condotti verso i crematori. Da questa notte tutti i camini dei crematori incominciano a fumare.

Nella deposizione resa al processo di Varsavia, Rudolf Höß - comandante del campo di Auschwitz fino all'autunno del 1943, e chiamato nel 1944 a organizzare la SS Aktion (operazione Höß), cioè lo sterminio degli ebrei ungheresi ad Auschwitz­Birkenau - dichiarò quanto segue:

Eichmann, nel suo programma, aveva previsto quattro treni [ciascuno era composto da 40-50 vagoni merci e trasportava circa 2000 persone al giorno], ma non riuscì mai a organizzarli tutti, malgrado l'avvenuto potenziamento di attrezzature e impianti. Per questa ragione, dovetti andare personalmente a Budapest ad annullare l'accordo, che fu poi modificato così: un giorno partivano per Auschwitz due treni, e il giorno dopo ne partivano tre. So per certo che il piano elaborato con l'amministrazione ferroviaria di Budapest parlava di III treni. Quando i primi trasporti giunsero ad Auschwitz, Eichmann vi si recò personalmente con una richiesta: non si potevano organizzare più treni, dal momento che il Reichsführer [Himmler] chiedeva di svolgere la Aktion ungherese con la massima celerità?

Il medico polacco Alfred Fiderkiewicz, prigioniero a Birkenau, lavorava nell'infermeria del campo. Riferisce nelle sue memorie:

Ricordo l'arrivo di uno dei primi trasporti dall'Ungheria, che nell'aspetto esteriore non differiva da tutti gli altri. Sentimmo le solite urla degli uomini delle SS. L'unica sorpresa furono le persone che scesero dai treni, perché si comportavano in modo diverso dal solito. Si fermarono sulla rampa, guardandosi attorno, e gridarono qualcosa. Scoppiò una specie di rissa, cosa che negli altri trasporti non era mai accaduta. Nonostante le grida delle SS, le persone si muovevano in modo disordinato o parlavano fra loro a gruppi. I tedeschi urlavano e facevano schioccare la frusta, ma i nuovi arrivati non la smettevano, anzi minacciavano, imprecavano e chiedevano di essere ricevuti dal comandante. Incuriositi, ci avvicinammo al filo spinato che separava il nostro campo dai binari. Vedemmo un gran numero di uomini ben vestiti e donne ancor più eleganti, alcune molto belle, con abiti di colore chiaro o persino in tailleur con cappello. Notammo molti bambini di tutte le età, e tanti neonati in splendide carrozzine. Avevamo assistito all'arrivo di numerosi trasporti, ma gente cosi elegante non se n'era mai vista. Parlavano una lingua sconosciuta. Alcuni di essi, vedendo ci appoggiati alla recinzione, fecero per avvicinarsi. Ci rivolgevano parole incomprensibili, parole che suonavano come una domanda, e quando a gesti gli facemmo intendere che non capivamo, cominciarono a parlare tedesco e francese. A quel punto, uno di noi gridò: «Das ist Birkenau! » Ma a loro, poteva forse dire qualcosa? Non lo so. Alcune SS gli si lanciarono contro picchiandoli con la frusta. Allora cominciammo a indietreggiare. I tedeschi si misero a urlare anche contro di noi, brandendo i fucili con aria minacciosa. Ci fermammo davanti all'infermeria, e di lì continuammo a osservare quegli sventurati. Il medico del campo, Thilo, e l'Obersturmführer Mengele diedero inizio a una selezione particolarmente severa. Sul tratto di strada che conduceva al crematorio radunarono molti uomini, un numero ancora maggiore di donne, e tutti i bambini e i neonati nelle carrozzine. Indirizzarono verso il campo non più di centocinquanta persone, fra cui pochissime donne. In lontananza, si sentiva urlare, piangere e singhiozzare. Quasi 1500 persone furono spedite verso i camini. Quando si misero in marcia, cominciammo a sentire le loro voci più da vicino.

Poiché i forni crematori non avevano una capienza sufficiente per incenerire i cadaveri di tutti coloro che venivano gassati a morte, i tedeschi bruciavano i corpi in fosse a cielo aperto. Fiderkiewicz ricorda ancora: «Le fiamme spuntavano dai camini, ma con poco fumo. Durante il giorno era sopportabile, ma con il calar della notte avevi l'impressione che non fossero camini, bensì vulcani che eruttavano lava incandescente». Ci vollero meno di due mesi per annientare gli ebrei d'Ungheria, e questi lasciarono un segno nella vita dei prigionieri. Coloro che prima della deportazione avevano condotto una vita più o meno normale si erano portati dietro grandi quantità di cibo, parte del quale fu introdotto clandestinamente nel campo. Molti prigionieri furono incaricati di riordinare gli abiti e gli effetti personali delle vittime, fra cui si trovavano gioielli di valore, oro, monete e banconote. Parte del bottino fu introdotta di nascosto nel lager e sebbene i prigionieri non potessero fare alcun uso dei preziosi in quanto tali, li barattavano con il cibo. Alcuni detenuti si appropriarono di oggetti di valore, in vista delle marce della morte che cominciarono nella seconda quindicina del gennaio 1945. Una piccola percentuale di ebrei ungheresi dei trasporti - uomini e donne – ricevettero numeri di matricola contenenti i codici A e B. Questi prigionieri furono portati all'interno del campo o trasferiti in altri campi, dove affrontarono la prova durissima dell'esistenza umana nel lager. Alla voce «ebrei ungheresi» redatta da Randolph Braham in Encyclopedia of the Holocaust, si legge verso la fine:

La comunità israelitica ungherese perse 546 500 vite durante la guerra, di cui 63 000 prima dell'occupazione tedesca. Delle 501 500 persone che perirono dopo l'occupazione, 267800 provenivano dall'Ungheria post-Trianon - 85500 da Budapest e 182 300 dalle province - e 233 700 dai territori annessi fra il 1938 e il 1941 che erano appartenuti a Cecoslovacchia, Romania e Iugoslavia.

Un ex prigioniero ricorda lo scoramento di quei giorni:

Le camere a gas lavoravano a ciclo continuo, giorno e notte. Una colonna di fuoco saliva dai camini di Auschwitz e restava sospesa in aria insieme a una densa nuvola di fumo. I crematori, riempiti fino all'inverosimile, esplodevano e uno dei camini venne demolito. Ma l'officina della morte non si fermava mai e fu riattivata persino la camera a gas della casa colonica presso il bunker 2, chiusa dal 1942. Furono scavate delle enormi fosse dentro le quali venivano bruciati i cadaveri. Molti testimoni riferiscono di bambini arsi vivi nelle fosse di Birkenau. Noi prigionieri di Auschwitz abbiamo patito le pene dell'inferno. La guerra ci aveva spalancato davanti abissi di sofferenza e di dolore, e credevamo che la forza della distruzione non potesse pili sorprenderei. Ora sappiamo che ci eravamo sbagliati. Ogni abominio causava nuova angoscia, ci stordiva, ci riportava tutto alla coscienza. Ogni mattina, lo sguardo atterrito dei prigionieri di Auschwitz si posava sui crematori, nella velata speranza che la follia fosse finita, che i camini da cui erano passati migliaia di esseri umani si fossero finalmente fermati. Ma le nostre preghiere rimasero inascoltate. Le fiamme fuoriuscivano dal ventre della morte esattamente come il giorno prima. Il mondo non era rinsavito durante la notte. Terrorizzati e ridotti all'impotenza, sopravvivevamo con un peso sul cuore e un nodo in gola che non ci lasciavano mai.

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