Il
viaggio verso Bologna fu un incubo orrendo.Il nostro autista, che guidava come
un invasato, travolse ed uccise una quantità industriale di pollame ed una
mucca venne schivata solo per via della sua imponente stazza che avrebbe avuto
ragione della spider rossa. Dopo una breve sosta nella periferia del capoluogo
romagnolo per rifornirci di benzina, puntammo decisi verso gli Appennini ed il
mio stomaco cominciò a sospingere a ritroso la colazione mattutina.
Fortunatamente
a mezzogiorno non avevo pranzato.
Alle
sette e mezza di sera, con una plateale e secondo me un po’ cafona frenata, ci
fermammo davanti ad una locanda in località Porretta Terme.
“A
mangiare, soldati!” esclamò Tornado saltando fuori dall’auto ed entrando nell’alberghetto.
Fulmine
ed io lo seguimmo sfregandoci le braccia per il freddo.Lo ritrovammo al bancone
della reception che colpiva con insistenza un campanello a pressione.
“Allora!”
urlava “ Ma non ce nessuno in questa locanda dei miei stivali?”
“Arrivo..arrivo..”
rispose infine una voce da dietro una porta a doppio battente.
Dopo
pochi istanti, durante i quali Tornado ci fissò con un’aria soddisfatta che
sottintendeva che con il suo comportamento si era fatto obbedire anche lì,
arrivò un ragazzone rubizzo in volto che si sfregava le mani in un grembiule da
cucina.
“Buonasera
signori.” fece con un sorriso gioviale “Desiderate?”
Tornado
gli chiese tre stanze per passare la notte e tre coperti nel ristorante.Il
ragazzo ci consegnò tre chiavi e ci indicò le scale. Disse che la cena sarebbe
stata pronta alle otto e scomparve oltre la porta da cui era uscito.
La
stanza era molto confortevole. Tutte le pareti erano ricoperte di perline di
legno scuro, forse quercia, ed il letto era soffice ed accogliente. Mancavano
più di venti minuti alle otto, sicché decisi di sdraiarmi per riposare un po’.
Al
di là della parete sentivo Fulmine aggirarsi per la sua stanza facendo cigolare
le assi del pavimento.
Già,
Fulmine.Con le mani intrecciate dietro la nuca e lo sguardo fisso al soffitto
ripensai al nostro primo incontro all’ospedale militare di Gorizia. Era proprio
Fulmine, infatti, quell’ufficiale della prima compagnia che aveva lanciato le
due granate contro le postazioni austriache.Contrariamente a quanto avevo
pensato allora, il fuoco di risposta della mitraglia non lo aveva ucciso ma
solo ferito ad una spalla.Il caso volle che ci rincontrassimo nella stessa
stanza d’ospedale due giorni più tardi.Lo portarono nella mia camera tre o
quattro ore dopo di me e lo si sentiva inveire contro il mondo già dal
corridoio.Impassibili infermieri lo trasbordarono dalla barella al letto mentre
lui proseguiva con la sua interminabile lista di proteste.
“Ah,
maledetti suini, voi non sapete chi sono io!Brutti maiali zozzi, vi insegno io
a lasciarmi in cortile sotto l’acqua…bavosi che non siete altro. Ma ve ne
accorgerete…ah se ve ne accorgerete!!”
Gli
infermieri non fecero neanche una piega.Lo sistemarono sul letto e se ne andarono
portandosi dietro la barella.
Il
mio nuovo compagno di stanza borbottò fra i denti qualcosa di incomprensibile,
poi si voltò verso di me e mi spiegò l’oggetto delle sue lamentele.
“Ma
porca Eva..mi hanno lasciato fuori sotto la pioggia, medicato alla carlona,
mentre loro si aggiravano come due coglioni alla ricerca di un chirurgo.Un
quarto d’ora con la pioggia che mi sbatteva in faccia ed io che non mi potevo
nemmeno muovere. A me? Ma gli insegno io come ci si comporta! Scriverò a
Cadorna, al Ministero della Guerra se occorre! Prima ti conferiscono un encomio
e poi ti fanno morire di polmonite.”
“
Un encomio?” chiesi io “Che hai fatto?”
“Devi
sapere che due giorni fa, sulla Bainsizza, mi trovavo in una foppa con la mia
compagnia e non c’era verso di uscirne.Eravamo sotto il fuoco delle mitraglie
dei crucchi e i loro artiglieri ci stavano per beccare in pieno.Poi il maggiore
Tornado, non so se lo conosci…è quello del ponte sull’Isonzo, ha inviato
un’altra compagnia in soccorso.
Mentre
i crucchi spostavano il tiro sui nuovi arrivati son balzato fuori d’impeto e
gridando <Savoia!> ho centrato una postazione con due granate. Poi un
proiettile mi ha beccato in piena spalla e son caduto.”
“Una
granata.”
“Come
dici scusa?”
“Una
sola granata ha centrato la postazione. L’altra stava rotolando indietro quando
è esplosa.”
“Ah..c’eri
anche tu?”
“Comandavo
la seconda compagnia che ha aggirato il reticolato.”
Il
fatto di essere stato beccato in castagna fece zittire fulmine per qualche
minuto.
Mentre
eravamo ancora in un meditativo silenzio un’infermiera entrò nella stanza
sospingendo il carrello con la nostra cena.Era una giovane veramente graziosa e
Fulmine la fissava con occhi da tonno, cosa che scoprii in seguito essere una
sua peculiarità.
“Buonasera
signori” cinguettò lei “Mi chiamo Kath e sono la vostra infermiera. Per
qualsiasi cosa chiedete pure a me.”
Per
un istante dimenticai il mio amore per Paola, la mia fidanzata al paese, e mi
scoprii a fare pensieri estremamente peccaminosi sul fondoschiena di Kath che
si era ora chinata per aiutare Fulmine a mettersi seduto sul letto.
La
ragazza si era infatti infilata nello spazio fra un letto e l’altro e
piegandosi verso il mio compagno di stanza mi porgeva uno dei panorami più
invitanti a cui possa anelare un soldato dopo un mese di trincea. Una scarica
ormonale incontenibile mi invase e dovetti fare appello a tutta la mia volontà
per non ritrovarmi con le cinque dita di Kath stampate sul viso.
La
ragazza si volto verso di me, che mi ero già tirato su da solo, e guardandomi
con i suoi splendidi occhioni mi porse il vassoio con la cena.
“G..grazie!”
balbettai deglutendo rumorosamente.
“Non
c’è di che.” Rispose lei e si portò alla sinistra di Fulmine per aiutarlo a
mangiare.Egli non era in grado di farlo da solo a causa della spalla destra
bloccata.Lei gli tagliuzzò la fettina di carne in tanti piccoli pezzi, in modo
che non avesse bisogno di usare il coltello.La zuppa sarebbe riuscito a
mangiarla senza alcun aiuto.
“Crede
di farcela, signor tenente?” gli domandò avvicinando il suo viso a quello del
mio terreo commilitone.
“S..si,
c..credo di si”rispose lui farfugliando
Lei
sorrise e si diresse verso la porta.
“Tornerò
fra mezz’ora per riprendere i piatti” disse senza voltarsi ed uscì dalla
stanza.
Fulmine
si girò verso di me e con aria sognante disse:
“Caro
collega, credo di essermi innamorato.”
Amore
o no divorò la cena come se non mangiasse da anni, e così feci io.
Al
posto di Kath venne un nerboruto infermiere a prendere i piatti sporchi e
Fulmine, dopo numerose insistenze, riuscì a sapere che la bella infermiera era
stata trattenuta dalla morte di un militare che le stava molto a cuore.
“Magari
adesso si prenderà a cuore il tuo caso” lo canzonai lasciando ad intendere che
far parte degli affetti di Kath portava jella.
“Correrò
il rischio!” controbatté lui virilmente, anche se non mi sfuggì quel movimento
palpeggiatorio sotto le coperte a titolo scaramantico.
Nei
giorni a seguire fui comunque felice di potere assistere all’evolversi
dell’inaspettata avventura amorosa del mio collega ufficiale.Non che mi potessi
esimere dal farlo, visto che ero immobilizzato a letto per la maggior parte del
tempo a causa della ferita alla gamba.Era comunque un valido diversivo che
distraeva Fulmine dalle fanfaronate guerresche che mi propinava di continuo. A
sentir lui aveva partecipato a tutte le azioni degne di nota del Regio
Esercito, arrivando ad asserire che lui era già pronto dal’14 e che in
quell’estate era andato in vacanza lungo i confini orientali del paese per
studiare le difese del futuro nemico. Gli chiesi come poteva essere ciò, visto
che nel ’14 eravamo ancora in dubbio sulle nostre alleanze, ma cercò di farmi
credere che lui era già a conoscenza di fatti che noi del popolino
ignoravamo.Meno male che di tanto in tanto Kath passava a trovarlo, altrimenti
avrebbe cercato di darmi ad intendere di aver contribuito, ancora in fasce, a
sedare la rivolta cinese dei Boxers nel ’95.
Inizialmente
aveva supplicato l’infermiera di chiamarlo Fulmine al posto di “signor tenente”
e lei gli aveva concesso di chiamarla Kath. Poi erano arrivati a tenersi la
mano mentre sospiravano all’unisono.
Durante
questi incontri “amorosi” io cercavo di distrarmi scrivendo lettere
farneticanti a Paola,la quale, nelle sue risposte, si diceva sempre più
preoccupata riguardo alla mia salute mentale.
Dopo
una settimana di degenza in quella stanzetta da “guerra e amore” Fulmine prese
ad incontrarsi con Kath sull’uscio della camera. Io potevo solo immaginare di
cosa discutessero così soavemente, cercando di interpretare il linguaggio delle
loro ombre che si muovevano furtive sul pavimento.Appena vidi lo scuro profilo
delle loro teste diventare una cosa sola capii che Fulmine aveva coronato il
suo sogno di baciare la sua amata. Quando il mio compagno di stanza rientrò aveva
stampato sul viso il sorriso più ebete che io avessi mai visto.
Continuarono
ad amoreggiare così per giorni anche se la ragazza non concedeva a Fulmine di
andare più in là del baciarle le labbra. Trasformatomi in una sorta di attento
guardone delle loro ombre, vedevo chiaramente quando le mani di Fulmine
partivano impazzite lungo i fianchi di lei ed altrettanto chiaramente vedevo la
ragazza retrocedere di un passo afferrandogli dolcemente i polsi, scotendo la
testa.Fulmine si rassegnava e si accontentava di baciarla per qualche minuto,
ma poi la scena si ripeteva.
Un
martedì , dieci giorni dopo il nostro arrivo all’ospedale, Kath non si presentò
al solito appuntamento.
Fulmine
era agitatissimo; continuava ad alzarsi dal letto per gettare sguardi preoccupati
lungo il corridoio, per poi tornare a sdraiarsi. Io cercavo di confortarlo come
potevo, dicendogli che Kath doveva essere per forza stata trattenuta, ma lui si
lamentava protestando un brutto presentimento.
Quando
all’ora di cena si presentò un inaspettato infermiere dalla faccia di topo, il
mio commilitone balzò dal letto. Fulmine pareva essere stato morso da una
tarantola. Lo tempestò di domande, arrivando quasi ad afferrarlo per il bavero
del camice, finché questi non dovette ammettere di essere a conoscenza del
fatto che Kath era dovuta partire per Siena, sua città d’origine, a causa della
morte del padre.Il ratto-mannaro riuscì a sfuggire alle ire di Fulmine
squittendo che non sapeva assolutamente quando la giovane sarebbe tornata.
Di
lì a tre giorni ci rimandarono al fronte senza che Fulmine potesse rivedere la
sua bella.
Lui
tornò alla Bainsizza ormai espugnata dal Regio Esercito, mentre io venni
inviato al Comando Generale della VI Armata come attendente del Comandante. Ci
rincontrammo solo nel ’19 a Milano nella sede dei Fasci Italiani di
Combattimento. Gli chiesi di Kath ma si intristì subito dicendo che non l’aveva
più ritrovata nonostante, a guerra finita, si fosse recato fino a Siena nella
speranza di incontrarla.
Da
quel momento fummo sempre in ottima sintonia, ottimi Camerati, anche se non
toccai più l’argomento.
Mi
alzai dal letto richiamato dal bussare violento alla porta e dalla voce di
Tornado che urlava: giù dalle brande , Camerati, la zuppa l’è cotta!
Scendemmo
in sala da pranzo dove Abe, il ragazzotto che ci aveva accolti e che ora
scoprimmo essere il figlio del proprietario della locanda, ci servì dei
tortellini al sugo di lepre semplicemente divini e dello stufato
incredibilmente
saporito.
Tracannammo anche tre fiaschetti di San Giovese e giunti al caffè eravamo
satolli come tre porcelli.
Non
vi erano altri avventori anche se qualche paesano venne a farsi un bicchiere di
vino restando però al bancone del bar. Tornado, alla richiesta di informazioni
sul suo bolide fatta da un cliente, si avvicinò al banco e si lanciò in una
filippica sui motori e sulle sue esperienze di guida. Tenne una lezione sulle
valvole, un simposio sulle testate ed un seminario sulle carrozzerie.Più il
padre di Abe serviva grappa a lui ed agli altri avventori, più le sue avventure
somigliavano a quelle del Barone di Münchhausen, famigerato ballista di fine
‘700.
Abe
e la sua giovane moglie Abelarda si sedettero invece al nostro tavolo portando
una moka di caffè e quattro tazzine.
“Non
vi disturbiamo se prendiamo il caffè con voi?” chiese il ragazzo.
“Niente
affatto” risposi dando di gomito a Fulmine che stava per addormentarsi.
Abe
pareva estremamente interessato al motivo del nostro viaggio, si diceva
d’accordo con i nostri ideali e affermò più volte che sarebbe venuto anche lui
se la moglie non fosse stata contraria.Per evitare che i due litigassero
Fulmine ed io lo rassicurammo sul fatto che si era già in moltissimi per la
Marcia, e che la sua assenza non si sarebbe certo notata. La moglie parve rincuorata
dal nostro discorso che assolveva in parte il marito per la sua assenza da
Roma, ma Abe non pareva affatto convinto.
Scusandoci
con i due coniugi ce ne andammo di sopra a dormire.Sarebbe stato perfettamente
inutile cercare di dare la buonanotte a Tornado, visto che quando gli passammo
accanto stava praticamente urlando di quella volta sui tornanti del Tonale.
Una
volta in stanza feci giusto in tempo a togliermi la divisa che crollai a
dormire sul letto.
Alle
sette di mattina fui svegliato dalle urla di Tornado che ci chiamava a far
colazione.
Nella
sala da pranzo non c’era nessuno anche se il nostro tavolo era stato
apparecchiato ed imbandito con pane, burro, miele e marmellata di more.Ci
sedemmo e Tornado cominciò subito ad imburrarsi una fetta di pane canticchiando
“la leggenda del Piave”. Dopo un paio di minuti comparve il babbo di Abe che,
abbastanza freddamente, i portò una cuccuma di caffè ed una brocca di latte
caldo. Lì per lì non diedi peso agli umori del vecchio ma una volta pagato il
conto di poche lire ed usciti dalla locanda tornai a considerare ciò che prima
avevo ignorato. Abelarda stava seduta sui gradini che davano accesso
all’alberghetto, si abbracciava le ginocchia e teneva la testa sprofondata fra
le cosce.
Fulmine
e Tornado non le badarono, ma io mi avvicinai e le chiesi cosa le fosse
capitato. Per tutta risposta lei si alzò e fuggì piangendo all’interno della
locanda.
Chiesi
lumi al colonnello che si stava infilando la cuffia di pelle, ma liquidò la
questione dicendo che secondo lui aveva litigato col marito per futili motivi
da sposini.
Ripartimmo
per Roma lungo la Limentra e dopo il Passo della Porretta la strada prese a
scendere verso Pistoia.
Nonostante
non ne mostrasse alcun sintomo, Tornado doveva essere ancora un po’ rintronato
dalle gozzoviglie della sera precedente, infatti, guidava quasi come una
persona normale. Ciò fu un bene perché i tornanti prima della città toscana
avrebbero altrimenti massacrato il mio stomaco.
Poco
prima di Pistoia ci trovammo davanti un calesse e, altra stranezza rivelatrice,
Tornado non lo sorpassò attendendo uno slargo della strada. L’uomo che lo
guidava si voltò a guardarci, probabilmente incuriosito dal rombo possente
dell’auto del colonnello, rivelandosi così essere Abe.
Ci fermammo
sul ciglio della strada e lui ci spiegò che aveva lasciato la locanda alle
cinque del mattino per andare anche lui a Roma. Aveva deciso di andare alla
stazione di Firenze col calesse e da lì di prendere un treno che lo portasse
alla capitale. Fulmine gli domandò come l’avesse messa con la giovane moglie,
ma lui fece spallucce limitandosi a rispondere che ci sono momenti in cui un
uomo deve fare quello che un uomo deve fare.
Lo
salutammo e ripartimmo meditando su quella strana affermazione.
Il
viaggio procedeva spedito, ma nemmeno lontanamente simile alle acrobazie
spericolate del giorno precedente.
Tuttavia,
più passava il tempo e più Tornado pigiava sull’acceleratore, riprendendo
probabilmente fiducia nei suoi riflessi.Arrivati alle porte di Poggibonsi ci
fermammo in una trattoria lungo la strada. Eravamo affamati come lupi e
prendemmo posto ad un tavolinetto in fondo alla sala da pranzo. L’oste ci portò
subito del vino e degli affettati nostrani con un contorno di formaggini e
sottaceti. Lo stile della locanda era impostato sul mangiare quello che c’era,
senza possibilità di scelta. Mentre gustavamo uno squisito bollito misto notai
che al bancone del bar un capannello di persone ci guardava con aria ostile.Lo
feci notare anche a Fulmine ed a Tornado che con noncuranza infilò una mano
dietro la schiena ed armò il cane della rivoltella. Nel gruppetto di avventori
uno in particolare fremeva e veniva trattenuto dai suoi compari. I bisbigli che
serpeggiavano fra costoro divennero gradatamente un brusio e poi una
discussione animata, fino a che l’agitato non estrasse un falcetto avventandosi
contro di noi gridando “Fascisti maledetti!”
Tornado
estrasse e sparò ad una velocità incredibile, nemmeno fosse Tom Mix in uno dei
suoi western.
Il
falcetto volò via dalla mano dell’aggressore che ora se la teneva stretta
mentre un copioso fiotto di sangue colava a terra. Ci alzammo tutti e tre molto
lentamente e, mentre Tornado teneva sotto tiro il gruppo da cui era saltato
fuori l’esagitato, ci dirigemmo verso la porta. Un altro malconsigliato saltò
addosso al colonnello che lo sbilanciò facendolo cadere a terra. Gli puntò la
pistola alla fronte mentre costui lo guardava con aria di sfida.
“Adesso
basta!” urlò l’oste estraendo una doppietta da dietro il bancone “Il primo che
si muove gli faccio saltare la testa. E tu metti subito via quella pistola che
se no ce n’è anche per te!”
Tornado
si rimise la pistola nella fondina dietro alla schiena e mostrò le mani prive
di un qualsiasi tipo d’arma.
Gettò
un po’ di soldi sul bancone ed indietreggiammo verso l’uscita. Saltammo sulla
spider rossa e partimmo a tutta velocità. Adesso la velocità e lo stile di
guida erano tornati ad essere quelli della Milano-Bologna ma eravamo troppo
felici di averla scampata per
preoccuparci della guida di Tornado.
Avevamo
percorso una decina di chilometri quando, dietro ad una curva cieca, piombammo
come un missile su un gregge di pecore. Tornado frenò e si buttò di lato ma
travolgemmo comunque una mezza dozzina di animali prima di arrestarci violentemente
in un fosso. Come fossimo saltimbanchi volammo letteralmente fuori dalla
vettura con un salto mortale perfettamente sincronizzato e ci trovammo seduti
nel prato. La Alfa Romeo sbuffava come un vulcano spruzzando acqua bollente
tutt’intorno.
I
pastori, minacciosamente armati di lunghi e nodosi bastoni, accorsero subito a
soccorrere i loro animali feriti.
Tornado
si alzò e mugolando tutta la sua disperazione si accostò in lacrime al suo
gioiello morente.
Fulmine
ed io ci limitammo a massaggiarci i deretani pesti come mele marce.
Poi
Tornado iniziò ad inveire contro i pastori ed i pastori ad insultare Tornado.Fulmine
ed io ci spazzavamo di dosso, l’un con l’altro, le formiche alle quali avevamo
pestato i possedimenti atterrandovi sopra.
Tornado
ed un pastore si presero per i rispettivi baveri facendo un po’ di
spingi-spingi.
“Tieni
giù le mani” urlava il pastore.
“Perché
sennò??” rispondeva Tornado.
Come
è noto questo genere di situazione si può protrarre all’infinito ed infatti,
mentre gli altri due pastori avevano già bell’e che finito di caricare gli
animali feriti su di un carretto, i due litiganti erano ancora aggrappati l’uno
al bavero dell’altro.
“Tieni
giù le mani” urlava Tornado.
“Perché
sennò??” rispondeva il pastore.
Fulmine
ed io, liberatici della colonia di imenotteri aculeati estremamente incazzati,
raggiungemmo i due “maschi dominanti” che non la smettevano di scornarsi.
“Tieni
giù le mani perché sennò?” gridavano ormai all’unisono.
Ci
avvicinammo agli altri due pastori che guardavano divertiti la scena appoggiati
ai loro lunghi bastoni.
Dopo
una breve consultazione accertammo che le pecore non si erano fatte granché,
solo un paio di esse avevano le zampe rotte mentre le altre erano solo state
sbatacchiate per bene.
“Tieni
giù sennò perché le mani!” tuonavano i due contendenti.
Decidemmo
di intervenire e, mentre i due villici trascinavano via il loro amico, noi
facemmo lo stesso con Tornado.
“Vai
vai, che ti è andata bene!” gli urlò il colonnello mentre lo sospingevamo verso
i resti della sua vettura.
“Cornuto!”
lo apostrofò l’altro mentre veniva issato a forza sul carretto “Chi ti ha
insegnato a guidare? Quella maiala della tu mamma?”
A
quelle parole Tornado diventò bordeaux e gli occhi parvero volergli uscire
dalle orbite.
“Ueh!
Lasa stà la mia mamèta eh!” urlava come un ossesso. Prese la pistola dalla
fondina e, mentre Fulmine ed io gli stavamo appesi al braccio dando tempo ai
pastori di fuggire con il carretto, sparò due colpi all’indirizzo dei villani.
Fortunatamente
non li colpì e questi scomparvero dietro ad una curva continuando a mettere in
dubbio la rispettabilità della mamma di Tornado.
Tornammo
sconsolati a vegliare sul cadavere dell’Alfa Romeo.Tornado le parlava mentre le
accarezzava il cofano.
Una
scena a dir poco straziante.
Dopo
circa mezz’ora di contrite omelie sopraggiunse un vecchio contadino alla guida
di un carro trainato da due buoi possenti.
Morale
della favola: ci toccò raggiungere Siena a bordo del carro che rimorchiava la
salma della spider rossa.
Ogni
volta che un’ automobile ci sorpassava Tornado scuoteva il capo e mormorava
incomprensibili insulti alla sfortuna.
Il
vecchio contadino ci disse che, appena fuori città, in località Costalpino,
c’era un meccanico che riparava trattori e che magari avrebbe potuto aiutarci a
riparare la nostra vettura. Sulle prime Tornado ululò che mai e poi mai avrebbe
affidato il suo gioiello nelle mani di un riparatore di macchine agricole, ma
alla fine cedette alla cruda realtà dei fatti:
l’unico
meccanico specializzato in Alfa Romeo di Siena era partito per una gara e
sarebbe tornato solo da lì a due
settimane.
Molto
gentilmente il conducente del carro ci portò fino alla cascina del meccanico,
che raggiungemmo in vista del tramonto.
L’officina
era stata ricavata all’interno di un fienile e nell’aia antistante erano
disseminati copertoni, aratri e pezzi meccanici di trattori. Le porte del
fienile erano spalancate e, alla luce fioca di una nuda lampadina, si poteva
scorgere all’interno un mezzo agricolo, forse una trebbiatrice. Un uomo era
chino a lavorare all’interno di uno sportello laterale.
Alla
destra del fienile c’era una casa a due piani di mattoni rossi le cui finestre
del pianterreno erano tutte illuminate.
Un
gatto bianco ci fissava seduto fuori dall’uscio.
“Principe!!”
urlò il vecchio contadino alzandosi in piedi sul carro e portandosi le mani
alla bocca a formare un imbuto. “Principe, vieni fuori un momento!”
L’uomo
nel fienile si alzò e venne verso di noi pulendosi le mani in uno straccio
bisunto.Aveva un fisico da fabbro ferraio e portava un paio di calzoni di tela
blu ed una canottiera. Non appena si accorse di che cosa il carro stesse
trainando i suoi occhi si accesero di interesse e di cupidigia, come quelli di
un bimbo il giorno di Natale. Accelerò il passo e, senza degnare di uno sguardo
ne noi ne il vecchio, raggiunse la fuoriserie rossa.
“Ma
che cosa sei?” chiese Principe alla vettura. Le passò delicatamente il palmo
della mano sul cofano continuando a guardarla con aria sognante “Chi ti ha
fatta così bella? Fammi vedere il tuo cuore, fammi vedere dove hai male ed io
ti curerò.” Così dicendo sollevò la ribaltina del cofano ed alla vista del
motore un sorriso sognante gli si disegnò sul volto.
“Però…otto
cilindri in linea ed un turbocompressore…mmm…e guarda che valvole!”
“A
Tornà” sbottò Fulmine sogghignando “Occhio che questo te la ingravida.”
Come
risvegliatosi da un incanto il colonnello balzò giù dal carro e si avvicinò
all’uomo.
“Dica
un po’…ma oltre a sbavarle addosso crede di poterla anche riparare?Mi serve
assolutamente per domani mattina.”
Principe
si girò a guardarlo imbambolato.
“Certo
che posso ripararla questa ragazzina rossa.Però ci dovrò lavorare tutta la
notte e tu mi devi dare una mano.”
“Affare
fatto!” esclamò Tornado sollevato dal timore di lasciar sola col maniaco la sua
vettura.
In
men che non si dica sganciarono l’auto dal carro e la spinsero nel fienile a
fianco della trebbiatrice.
I
due si chiusero le porte alle spalle e ci lasciarono fuori.
“Bhe..”fece
il carrettiere “io ora me ne devo andare.Buona fortuna ragazzi.”
“E
noi che facciamo?” chiesi a Fulmine che già saltellava in su e in giù per il
freddo incalzante.
“Bussate
alla porta della casa” ci rispose il vecchi mentre girava il carro “Vi aprirà
la sorella di Principe.E’ una brava ragazza usa a sopportare le manie
motoristiche del fratello. Raccontatele che cosa è successo e vi darà cibo ed
ospitalità.”
Salutammo
il vecchio contadino e, non appena fu scomparso oltre la mura di confine, ci
dirigemmo verso la casa.
Fulmine
bussò all’uscio e fece un passo indietro.Ora toccava a me saltellare per il
gran freddo.
“Arrivo..arrivo”
fece una voce dall’interno.
All’udir
di quella voce io smisi di saltellare e Fulmine diventò bianco come un cencio
mentre le labbra presero a tremargli.
La
porta si aprì e Kath comparve nello specchio di luce che ne fuoriusciva.
“Kath…”
dissi io con un filo di voce. Fulmine non poteva parlare.La mascella gli
tremava convulsamente e due lacrime scintillanti nel buio presero a corrergli
lungo le gote.
“Signor
tenente….” fece la ragazza lasciandosi cadere le braccia inerti lungo i
fianchi. “Fulmine….”
Fulmine
fece un balzo in avanti e la baciò tenendola stretta a se.
Io
restai lì senza fiatare. L’inaspettata comparsa della ragazza mi aveva lasciato
senza parole. Ero talmente commosso e felice per il mio Camerata che presi a
piangere anche io come uno scemo.
I
due giovani continuavano a baciarsi, si staccavano per fissarsi negli occhi, si
sorridevano, si abbracciavano e tornavano a baciarsi.
“Kath…oh,Kath…” diceva Fulmine.
“Fulmine
…oh,Fulmine…”diceva Kath.
Io
sorridevo beato come un pirla pervaso dalla folle smania di applaudire.
Solo
dopo cinque minuti i due si voltarono a guardarmi e ci abbracciammo tutti e tre
saltellando e barcollando per il cortile. Kath ci fece poi entrare in casa e,
nella cucina riscaldata da un grande camino, ci servì due piatti di minestrone
caldo. Io lo sbafai a quattro palmenti, mentre Fulmine e Kath restarono seduti
a tenersi le mani ed a sospirare.
Quando
Kath prese a raccontare del suo ritorno a Siena per la morte del babbo io ero
già a metà del minestrone di Fulmine. Comunque lei insisteva col dire che aveva
tentato di ritrovare Fulmine, poi c’era stata la dodicesima battaglia
dell’Isonzo, nota come Caporetto, e lei si era spersa nel ripiegamento disordinato
+del Regio Esercito.In pratica era finita a far servizio a Milano mentre noi,
in separati reparti, ci attestavamo sulla sponda occidentale del Piave.
Devo
dire che i cinque anni passati avevano reso Kath ancora più bella e, lontana
dalle privazioni e dai dolori della guerra, molto più procace. A riprova di ciò
che dico porto a testimone lo sguardo da tonno che Fulmine assunse in quel
frangente.Finito il secondo piatto di minestrone mi stiracchiai ed annunciai la
mia intenzione di andare a passare la notte alla rimessa ad aiutare Principe e
Tornado a sistemare la vettura per il giorno dopo.
Se
Fulmine avesse potuto baciarmi lo avrebbe fatto.
Entrai
nel fienile e salutai i due uomini abbarbicati al radiatore della
fuoriserie.Non mi risposero nemmeno.
Ciondolai
un po’in giro ascoltando le loro teorie meccaniche e, di tanto in tanto,
fornendo un parere che veniva regolarmente ignorato.Si comportavano come se io
non esistessi. Dopo pochi minuti mi sedetti su un sedile posteriore di una
auto, abbandonato dietro la trebbiatrice, e mi addormentai.
Mi
svegliò il rombo degli otto cilindri della spider che ruggiva sotto repentini
colpi di acceleratore. Girai intorno alla trebbiatrice e vidi che Principe
stava alla guida dell’auto mentre Tornado lo fissava felice.
Aprii
le porte della rimessa per far uscire il denso fumo grigio e scorsi Fulmine e
Kath fermi in mezzo all’aia.
Guardavano
verso il fienile e si tenevano la mano.
Principe
inserì la retromarcia e portò velocemente l’auto fuori della rimessa.
“Siamo
d’accordo eh?” gridava a Tornado che usciva anch’egli dal fabbricato annuendo
col capo “Te tu non mi paghi, ma te tu mi lascia andare a Siena con la
“bambina” a prendere il caffè in piazza!”
“Vai
vai…” rispose il colonnello soddisfatto.
“Signor
Principe Carazzoli!” lo chiamò Fulmine assumendo l’aria più seria che riuscì a
trovare nel suo repertorio di facce serie “In mancanza del babbo di Kath è a
lei che chiedo la mano di sua sorella Kath e….”
Principe
diede gas e la spider rossa si allontanò sculettando a tutta velocità.
Erano
le sette del mattino e fra poche ore dovevamo essere a Roma.
Entrammo
tutti e quattro in casa e, dopo aver presentato Kath a Tornado, Fulmine ci
annunciò che avevano deciso di sposarsi.
“Adesso?”
domandò Tornado stupefatto a Kath “Sarà meglio che aspettiate almeno
domani.Oggi Fulmine è ancora cosa mia e deve marciare su Roma….domani te lo
riporterò e ne potrai fare tutto ciò che vorrai.”
Risatine
di intesa salutarono un bricco di caffè nero, latte i biscotti caserecci.
Dopo
un’ora abbondante udimmo il rombo dell’Alfa Romeo che irrompeva nell’aia e che
si fermava con stridor di gomme.Vista la stazza di Principe avevamo deciso che
fosse Tornado a dargli la buona, per noi, notizia dell’imminente matrimonio di
sua sorella con Fulmine. Ormai i due avevano diviso olio e gasolio e c’era fra
loro un innegabile sentimento di stima reciproca. Il colonnello uscì quindi a
parlare con Principe mentre noi tre li spiavamo dalle finestre della cucina.
Come d’accordo Tornado la avrebbe messa sul melodrammatico, iniziando il
racconto dalle origini della relazione fra i due giovani. Egli descrisse
infatti l’innegabile valore di fulmine in battaglia , esagerò spudoratamente il
periglio a cui si era esposto arrivando a raccontare di venti postazioni
nemiche ed infine gli narrò di come il ragazzo, mentre si trovava fra la vita e
la morte, avesse conosciuto Kath e come fra i due giovani fosse nato un amore
sincero, puro e , almeno fino a quel momento, casto. Concluse dicendo che, ora
che si erano finalmente ritrovati, sarebbe stato un peccato agli occhi di Dio
se qualcuno si fosse interposto ad ostacolare il loro matrimonio.
Principe
ascoltò in silenzio ed alla fine del discorso teneva lo sguardo fisso al suolo
e le labbra serrate in un’invisibile fessura. Senza preavviso prese a correre
verso la casa, cogliendo Tornado completamente di sorpresa.
“Ehi,
Principe…non fare cazzate!” urlò il colonnello gettandosi al suo inseguimento.
Noi
restammo sbigottiti e Kath si aggrappò al suo fulmine con un singhiozzo.Dalla
cucina udimmo lo schianto della porta che veniva violentemente sbattuta contro
il muro e, dopo una frazione di secondo, Principe entrò nella stanza.
Nessuno
fiatò e il tempo rallentò fino a fermarsi.Principe si lanciò sulla coppia e,
mentre io già afferravo un lungo coltello dal tavolo, li abbracciò
singhiozzando.Anche Tornado irruppe in cucina con la rivoltella in mano.
Principe
prese a baciare sulle guance prima una e poi l’altro. Kath piangeva dalla
felicità e Fulmine era rosso come un pomodoro maturo. Tornado ripose la pistola
ed io rimisi il coltello al suo posto.
Dopo
ulteriori felicitazioni e complimenti riuscimmo a strappare Fulmine ai suoi
nuovi pseudo-parenti ed a partire alla volta di Roma.