Il viaggio come metafora attraverso la prosa

LA LUNA DI PIERO

Di Miriam Brondani

Non è facile parlare di Piero: a mio fratello piaceva stare da solo, parlava poco. Per descriverlo mi basterebbero poche parole in fondo, se non fosse che parlandone mi sembra di vederlo lì sul terrazzo a suonare la chitarra o leggere un libro. Suonava bene lui, non aveva mai voluto che qualcuno gli insegnasse davvero, ma da quando aveva preso quell’arnese in mano –aveva 12 anni, mi pare- era stato l’unico in famiglia a tirarne fuori della musica (ma da dove era venuta fuori poi quella chitarra?). Era anche l’unico che leggesse poesie qui e tutti lo guardavano come un fantasma per questo. A me piaceva tutto sommato, averlo attorno faceva respirare un po’ di quella cultura che si appiccica addosso quando frequenti l’università, come un odore che qui da noi si sente da lontano e la gente si tiene a distanza: era l’unico del nostro paese che aveva voluto lasciare la famiglia per andare a studiare in città, e mio padre non l’aveva digerita questa cosa. Gli aveva detto che se voleva andare doveva guadagnarsi anche da vivere in città, che lui non aveva soldi da buttare e non voleva saperne più niente. Se ne andò lo stesso a studiare, ogni tanto però tornava per non perdere del tutto la famiglia, e ci dava una mano con le bestie e i campi.

Ma non era facile tornare da papà perché se l’era proprio presa male. Secondo mio padre doveva rimanere qui a fare il suo dovere e togliersi dalla testa tutto il resto, i litigi che c’erano li ho sentiti uno per uno accidenti, e io dovevo dare ragione a papà, ma so che Piero non era come noi. Non so nemmeno io come fosse davvero.

Ma di certo era diverso.

Forse è per questo che non torna più. Non so.

Aveva vissuto tra queste montagne quasi per tutta la vita, e a modo suo dimostrava affetto anche a loro, conosceva ogni sentiero, cantava nei boschi, si fermava a guardare le rocce delle pareti che saliva solo con le mani. Diceva che dimostrava così il suo rispetto per le montagne: usava solo quelle per arrivare in cima, e non gli importava di farsi male, diceva che gli piaceva pensare che diventasse roccia anche il suo sangue, così da essere anche lui in qualche modo roccia e monte. Diceva proprio così. A ripensarci era quasi matto.

Però mi manca.

Parlava anche con le piante.

***

""Era grazie a quelle arrampicate solitarie che c’eravamo incontrati quassù: la prima volta non lo vidi subito, mi accorsi della sua presenza quando sentii rumori che provenivano dal fondo del burrone, distorti dall’eco. Poi lo vidi salire lentamente dalla parte dove sorge il sole, tirandosi su a fatica. Si sedette a terra, poggiando la schiena sul tronco di un abete e chiuse gli occhi.

Io non ero tranquilla: non potevo muovermi né difendermi, inchiodata come sono in questa piccola crepa.

Lo vidi alzarsi dopo un po’, quando il suo respiro divenne silenzioso: accanto all’abete, dalla mia parte c’è un piccolo spiazzo, là buttò a terra lo zainetto ed il maglione che prima teneva legato alla vita. Aveva una mano arrossata dal sangue: una roccia tagliente non aveva gradito il suo contatto.

Si chinò sullo zainetto e lo aprì, cercando poi qualcosa con cui fasciarsi. Trovò dei fazzoletti e si raddrizzò tamponando la mano, mentre io mi chiedevo da dove venisse, cosa ci fosse al di là della roccia da cui lo vidi salire e, soprattutto, perché fosse qui, in un luogo destinato al vento e al silenzio.

Fu in quel momento che mi vide, si avvicinò sorridendo, dimenticandosi per un po’ della ferita: tese una mano e mi carezzò piano i petali.

Disse che ero il suo fiore preferito e che quando vedeva una stella alpina tra le rocce gli sembrava un buon segno, come se anche quei monti ricambiassero il suo affetto.

Piero tornò ancora, a volte accompagnato dal suono delle campane del paese, trascinato dal vento sino a questa vetta: si sedeva sotto l’abete come la prima volta, per riprendere fiato e poi giocare con l’eco.

Una volta sola lo vidi arrivare da dietro il rovo che fiancheggia la roccia dietro l’abete e non dalla solita parte. Si sedette accanto a me ed appoggiò sulle ginocchia la sua chitarra, dopo averla tolta dalla custodia ed iniziò a suonare.

Sembrava che le note scendessero dalle sue mani sino alla stretta gola di fronte a noi, percorrendo all’inverso la traccia lasciata dai rintocchi delle campane.

Solo quando la mia ombra lo raggiunse si rese conto che il tempo era passato in fretta: era tardi ormai e doveva rincasare.

Ripose lo strumento nella custodia, mentre il sole stava per essere nascosto dalla vetta più distante.

Guardò per un po’ le nuvole nel cielo senza parlare, poi disse:

"Sai, a volte quando di notte c’è la luna mi piace guardare le cose in altro modo .

Pensa se ognuno avesse una luna diversa, che illumina il mondo solo per lui: chiunque camminerebbe sulla strada che in qualche modo è solo sua e vedrebbe cose che appartengono solo a lui e alla luna. Di nessun altro.

Come posso spiegare che quello che vedo io non è quello che vedono gli altri?

Mio padre ha la sua luna, io la mia… non possiamo vedere le stesse cose. Come faccio a spiegarlo?"

Si alzò, guardando per un po’ lo strapiombo che aveva davanti.

"Ma non è detto che io sia tenuto a farlo. "

Se ne andò oltre il cespuglio di rovi con la chitarra in mano, senza più una parola.

Fu l’ultima volta che lo vidi""

Pagina 35 Pagina 37

home pageItaca