Il viaggio come metafora attraverso la prosa


NUOVAMENTE NERO

NUOVAMENTE NERO

di Adriano Emaldi

Premetto che non ho mai amato viaggiare in treno.

Quella volta però un improvviso guasto della mia auto ed un impegno di lavoro inderogabile non mi permisero alternative. Uscii di casa piuttosto presto quella mattina novembrina, circa alle sei, e mi avviai verso la stazione distante poche centinaia di metri. Era una classica mattina di inizio inverno, con una fitta nebbia che ammantava il paesaggio circostante.

La stazione ferroviaria del mio paese non prevede la presenza di personale nelle ore notturne e l'acquisto del biglietto si effettua da un distributore automatico.

Come immaginavo, la sala d'aspetto era deserta e deserti erano i marciapiedi di accesso ai binari.

Attesi pochi minuti fino a che due pallidi fanali bucarono la coltre di nebbia ed introdussero il convoglio. Salii in fretta sulla prima carrozza che riconobbi di prima classe ed entrai in uno scompartimento vuoto. Mi sedetti accanto al finestrino dando le spalle al senso di marcia ed estrassi dalla valigetta il libro che avevo scelto per alleviare la noia di quell'indesiderato viaggio.

La lettura mi coinvolse a tal punto che non notai le fermate che si susseguirono fino a che non sentii aprirsi la porta dello scompartimento; entrò una donna con due grosse valige di pelle scura. Naturalmente la aiutai a riporle sulla retina portabagagli, della qual cosa lei mi ricambiò con un sorriso sommesso ed un ringraziamento a mezza voce.

Sedutomi non potei fare a meno di osservare la mia compagna di viaggio: era una donna di circa trent'anni, bella in maniera non appariscente, indossava un abito a giacca grigio con a gonna sotto al ginocchio. Sul capo portava un antiquato cappello di feltro a falda larga. La cosa che mi colpì maggiormente fu l'estremo pallore del viso ed una profonda tristezza che traspariva dallo sguardo

Si sedette nella poltrona vicino all'ingresso dello scompartimento nella fila opposta alla mia.

"Anche lei va a Trieste?" chiesi, più per cordialità che per reale interesse.

"Sì", rispose e dal tono capii che non desiderava conversare. La cosa non mi dispiacque così tornai ad immergermi nella lettura. Uno dei principali motivi per cui non amo viaggiare in treno sono proprio le conversazioni che inevitabilmente nascono tra gli occasionali compagni di viaggio, piene zeppe di luoghi comuni o di storie personali che, in realtà, non destano l'interesse di nessuno. Forse dipende dal mio carattere, ma difficilmente riesco ad entrare in confidenza con qualcuno nel breve spazio di un viaggio e mi infastidisce chi, invece, dopo pochi minuti si rivolge a me come ad un vecchio amico.

Così restammo in silenzio per qualche tempo fino a quando la mia lettura fu nuovamente interrotta dall'aprirsi della porta scorrevole: questa volta ad entrare era un uomo di circa quarant'anni che esibiva una chioma pesantemente lisciata dalla brillantina ed un curato pizzo gli incorniciava il mento. L'abbigliamento di costui, come del resto quello della donna, appariva antiquato e decisamente fuori moda. Il cappotto scuro con il collo di astrakan mi fece addirittura sorridere.

"Buongiorno, signori", fece l'uomo e, dopo avere riposto il bagaglio, si accomodò nel sedile di fronte alla donna che aveva risposto timidamente al saluto mantenendo lo sguardo abbassato.

Ricambiai anch'io il saluto e ritornai alla lettura. Dopo qualche minuto l'uomo estrasse dalla tasca interna dlla giacca una scatoletta metallica argentata dalla quale estrasse una sigaretta, accendendola. Trovai estremamente ineducato il fatto che non chiese a nessuno se il fumo ci infastidiva.

Dopo poche boccate, l'uomo si rivolse alla signora: "State andando anche voi a Gorizia, signora?". Notai l'uso scorretto del "voi" e lo immaginai dovuto ad una scarsa cultura.

"No, signore, a Trieste", rispose lei, sempre mantenendo lo sguardo sulle proprie ginocchia.

"E voi, signore?" disse rivolgendomi la parola, "anche voi diretto a Trieste?". Quel "voi" mi indispettiva.

"Sì, signore, anch'io vado a Trieste".

"Bella città, Trieste, soprattutto da quando è ritornata italiana" sentenziò l'uomo. Quell'osservazione mi parve quantomeno bizzarra, considerando il fatto che la città era parte dell'Italia da oltre settant'anni e, vista l'età non certo così avanzata del mio interlocutore, non riuscii a capire come potesse essere stato testimone di tale miglioramento. Comunque non feci osservazioni.

"Voi, signora, viaggiate spesso su questa linea?" chiese l'uomo.

"No, è la prima volta. Non ho mai visto Trieste" rispose lei e notai che, ogni qualvolta l'uomo le rivolgeva una domanda, questa si agitava, come spaventata e balbettava leggermente ad ogni risposta.

"E sarà un breve soggiorno oppure, e a giudicare dal vostro voluminoso bagaglio lo ritengo più probabile, vi ci fermerete a lungo?" continuò l'uomo.

"Non so quanto mi potrò fermare, vado a visitare alcuni parenti che non incontro da anni".

"Non mi sembra, ascoltando il vostro accento, che voi siate del posto. Mi sbaglio forse?"

"No, non vi sbagliate. Non sono nativa di qui. La mia famiglia ha origini svizzere".

"Viaggiate sola. Non siete sposata?"

La conversazione dell'uomo era indisponente. Il suo atteggiamento era caratterizzato da una spavalderia assolutamente fastidiosa.

"Sì. Anzi, non più. Mio marito, purtroppo, è morto due anni fa".

"Un incidente?"

"No, una malattia improvvisa"

Detestavo quell'uomo. Stava letteralmente interrogando quella povera donna che, dalla difficoltà con cui replicava alle incalzanti domande, ritenevo non avesse alcuna voglia di continuare la conversazione.

Intanto il viaggio continuava. Ogni tanto interrompevo la mia lettura per guardare dal finestrino. La nebbia era ancora fitta ed il panorama era avvolto da una pallida luce grigiastra. L'andatura, forse a causa della scarsa visibilità, era estremamente lenta.

"E voi, viaggiate per affari?", mi chiese a questo punto.

"Sì" risposi, richiudendo nuovamente il libro nel quale avevo cercato rifugio, "sono in viaggio per lavoro".

"E di cosa vi occupate?"

"Sono consulente di una industria inglese di elettronica. Mi occupo di prodotti per l'automazione aziendale".

"Inglese? Di questi tempi? Non credete sia quantomeno inopportuno lavorare per gli inglesi?" replicò l'uomo con tono adirato.

"E perchè mai? Al giorno d'oggi lavorare per una ditta inglese o italiana o tedesca non fa certo differenza".

"Questo lo dite voi!" urlò l'uomo alzandosi in piedi e ponendosi di fronte a me con fare minaccioso. "Gli inglesi sono nemici dell'Italia! Non ricordate ciò che è successo e che ancora sta accadendo ai nostri domini in Africa orientale? E vi siete forse dimenticato le norme dell'autarchia, signore?"

"Un pazzo!" pensai "sta citando episodi di cinquant'anni fa come se fossero accaduti ieri!"

Restavo immobile, seduto di fronte all'uomo che continuava ad urlare mentre la donna era divenuta, se possibile, ancora più pallida ed i suoi occhi esprimevano un terrore crescente causato, pensai, dalla consapevolezza di viaggiare in compagnia di uno squilibrato.

In quel momento, con mio grande sollievo, entrò nello scompartimento il controllore: "Signori, vi prego! Cosa succede? Che cos'è questo baccano?"

"Succede" disse l'uomo, continuando a tenersi in piedi di fronte a me, "che abbiamo qui con noi un servo degli inglesi! Un amico dei nostri nemici!"

Ascoltando queste ulteriori assurdità immaginai che un intervento del controllore avrebbe presto ristabilito la calma allontanando lo squilibrato. L'uomo estrasse dalla tasca il portafogli e mostrò al controllore una tessera: il ferroviere immediatamente si irrigidì balbettando.

"E' tempo di presentazioni" disse quindi l'uomo sfoderando un sorriso sinistro, "sono Brenno Cordari, Federale di Milano. E voi, signore, è bene che mi mostriate immediatamente un vostro documento in modo che io sappia con chi ho a che fare quest'oggi!"

"Quest'uomo è pazzo! Un pazzo furioso!" urlai, alzandomi a mia volta. "Ma non lo sentite? Federale? Fate qualcosa, perdio!"

Il controllore uscì dallo scompartimento di gran furia senza dire una parola e lo sentii avviarsi correndo lungo il corridoio.

"E in quanto a voi, signora, non crederete che non me ne sia accorto! Avete dimenticato che esistono le leggi razziali? Voi ebrei che state insozzando la nostra patria con la vostra fetida presenza!" La donna, a queste parole urlategli dallo squilibrato, ebbe come un fremito e si accucciò singhiozzando contro lo schienale della poltrona.

"Piantatela di tormentare quella poveretta! Non vedete che è terrorizzata?" urlai afferrandolo per il bavero.

L'uomo mi colpì con un pugno allo stomaco che mi fece accasciare senza fiato. "Sentitelo, il traditore! E', ovviamente, anche amico degli ebrei oltre che servo degli inglesi! Sto ancora aspettando di vedere un vostro documento e sarà meglio per voi che mi accontentiate in fretta". Stavo in ginocchio sul pavimento incapace di proferire parola per il fortissimo dolore che mi impediva il respiro, "non mi avete sentito, forse? Volete un aiuto?" e, così dicendo, mi sferrò un calcio sul volto.

Mi trovai, allora, completamente disteso al suolo e sentivo in bocca il sapore caldo del mio sangue. Vidi entrare nuovamente il controllore accompagnata da due uomini in uniforme, "Sono salvo!" pensai "ora lo porteranno via!". Ma costoro vennero su di me e, strattonandomi, mi costrinsero a rimettermi in piedi.

"Arrestatelo e tenetelo sotto controllo fino a Trieste. Là ci penserò io ad affidarlo a chi di dovere. E anche per questa donna, al nostro arrivo, provvederemo per il meglio!"

Ero più incredulo che spaventato. Notai che, mentre mi stavano portando fuori dallo scompartimento, i due militari indossavano divise che non riconobbi in quelle della normale polizia ferroviaria.

Mi strattonarono lungo i corridoi di molti vagoni. Sentivo parlare le guardie: "nel vagone merci è il posto migliore. E' in coda, dopo la terza classe".

Fui trascinato attraverso l'intero convoglio fino a che non raggiungemmo l'ultimo vagone adibito al trasporto dei sacchi postali. Qui mi fecero sedere su di uno sgabello accanto ad uno stretto finestrino. Ero come in trance. Guardai fuori: la nebbia si era parzialmente diradata. Stavamo attraversando un tratto di campagna desolata. Giunti ad un'ampia curvai potei vedere la testa del convoglio: rabbrividii quando mi resi conto che chi trascinava quel treno era una vaporiera.

Dopo qualche minuto il treno fiancheggiò un fiume; sulla riva più vicina vidi marciare un gruppo di uomini in uniforme. Erano senza dubbio soldati ma indossavano le divise di mezzo secolo fa con le fasce arrotolate sopra i bassi scarponi ed i cappotti stretti in vita dalle giberne. Chiusi gli occhi. Era, quella, una mattina del 1995 ed io mi ritrovavo in un treno a vapore accusato da un Federale di collaborazione col nemico e di violazione delle leggi razziali. Osservai i due militari che mi avevano condotto lì: stavano ora parlottando tra loro. Uno dei miei custodi estrasse dal taschino un pacchetto di sigarette e lo passò all'altro. Questi ne accese una e rivolse il pacchetto verso di me dicendomi: "Hai una faccia da matto, amico mio! Certo che l'hai combinata grossa! Non avevi mai sentito parlare del Federale Cordari? No, eh? Sai che è il più accanito cacciatore di ebrei e comunisti del regno? Ogni tanto sale su qualche treno e se a bordo c'è qualcuno di questi stai sicuro che non gli scappa! Tieni, dai, fumati una sigeretta che fra poco arriviamo a Trieste".

Accettai l'offerta. Sorrisi, perfino, quando lessi la marca stampata sul pacchetto: Milit. Quel nome mi ricordò i racconti di guerra di mio nonno, quando mi descriveva il contenuto della razioni di conforto.

"Siete poliziotti?" chiesi.

"No, non riconosci la divisa? Non vedi la fiamma sul berretto? Siamo Reali Carabinieri".

Il treno iniziò a rallentare per entrare ad una stazione. Osservai il vagone: la porta di fronte a me era parzialmente aperta.

Improvvisamente il treno frenò di colpo ed uno dei miei guardiani cadde imprecando dallo sgabello su cui era seduto. Non ebbi un attimo di esitazione e balzai in piedi. Aprii di slancio la porta del vagone e saltai fuori. Caddi sul marciapiede sottostante.

"Fermo!" sentii urlare alle mie spalle, mi rialzai e presi a correre senza voltarmi.

Corsi lungo il marciapede fino a che non giunsi all'interno della stazione, dove caddi nuovamente urtando un viaggiatore in attesa.

Mi rialzai ancora e ripresi la mia fuga. Dopo pochi passi sentii una mano che mi afferrava un braccio; cercai di divincolarmi dalla presa ma altre mani furono su di me fino a bloccarmi. Allora mi girai e vidi che chi mi teneva erano agenti della polizia ferroviaria.

Provai una sensazione di indicibile sollievo nel vedere le loro uniformi finalmente attuali.

Venni portato all'interno del posto di polizia della stazione dove raccontai quanto mi era accaduto: dalle espressioni e dalle occhiate che si scambiavano gli agenti era evidente che non credevano alla mia storia, e non posso certo dar loro torto. Mi chiesero se ero soggetto ad allucinazioni o se facevo uso di stupefacenti. Risposi di no. Quando mi fui finalmente calmato, venni accompagnato in una saletta, nell'attesa di ricevere la risposta ai controlli sui miei documenti.

Dalla finestra della stanza dove mi trovavo ora si poteva vedere l'ampia sala centrale della stazione. Guardavo ogni particolare: i giornali della vicina edicola erano attuali e c'era all'angolo opposto un apparecchio per le foto-tessera. Il ritorno alla normalità mi tranquillizzò ulteriormente.

All'improvviso vidi arrivare da un marciapiede quattro figure sinistramente familiari. Contrastavano con l'ambiente circostante come i protagonisti di un vecchio film in bianco e nero inseriti in un moderno scenario. Riconobbi le divise dei due carabinieri che mi avevano preso in consegna e tra di loro, con le mani bloccate dalle catenelle, la donna ebrea. Davanti a loro camminava con passo trionfante la nera figura di Cordari, ammantato nel suo cappotto col collo di pelliccia.

Arretrai di qualche passo, in preda ad un terrore cieco. I quattro passarono di fronte alla finestra della saletta. Il Federale si fermò e portò il suo sguardo su du me, dall'altra parte del vetro. Nei suoi occhi c'era un'espressione feroce. Barcollai arretrando fino ad appoggiarmi alla parete opposta dove rimasi tremante. Poi passò oltre.

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