Un semaforo sulla strada per il Marocco
Gli occhi dolci della biondina si strizzarono in un sorriso malizioso.
<<Luigi, finiresti tu questa pratica per me? Oggi dovrei uscire un po’ prima>>
<<Va bene>> rispose Luigi.
Seguiva la biondina nei suoi spicci tentativi di mettere a posto la scrivania. La biondina aprì la porta per uscire, ma non lo guardò, con i suoi occhi chiari cercava qualcosa. Trovò lo sguardo di Antonio, il collega seduto alla scrivania vicino alla finestra. I loro occhi si incontrarono e si scambiarono un cenno di intesa. Per lo meno così sembrò a Luigi.
La biondina era uscita, Antonio si alzò dalla scrivania e si stirò in un modo che a Luigi parve stupido ed esagerato. Volgare.
<<Bene, io vado>> disse.
<<Ma come, già vai via?>>
<<Sì, ho un impegno>>
Quel sorriso stupido, carico di sottintesi, quel sorrisino che Luigi così odiava, si accese sulla faccia allungata di Antonio.
<<Hai un appuntamento?>>
<<Sì mio caro, ho un appuntamento>>
<<Con una donna?>>
<<Con una donna, ma non mi far dire di più>>
Luigi si sentì stringere il cuore.
(No, non è possibile, non con questo stronzo!)
La sua voce uscì stranamente calma ed indifferente. Estranea.
<<Con la biondina, non mi dire?>>
<<Domani ti racconto…>> disse Antonio poggiandogli una mano sulla spalla <<Ma zitto, mi raccomando, qui c’è un ambiente di merda, nessuno che riesca a farsi i fatti propri>>
Gli fece l’occhietto ed uscì di corsa.
Luigi si guardò la spalla. Aveva l’impressione di avere ancora la mano di Antonio poggiata mollemente sopra. Ne sentiva il calore. Un calore strano. Un calore che gli penetrava nel cervello e contro cui non poteva reagire. Un calore che lo umiliava.
Aveva quarant’anni ormai. Nell’ufficio era il più anziano, eppure aveva l’impressione che tutti lo trattassero come un bambino.
(Che cazzo vuole, chi cazzo si crede di essere quel coglione di Antonio. Forse che non sono in grado di capire la situazione? Vaffanculo, gliela farò pagare. Prima o poi la farò pagare a tutti.)
La rabbia gli saliva acida dalle viscere.
(E quella stronzetta poi. Appena due mesi di banca e già si permette di lasciare il lavoro a me. A me con più di quindici anni!)
Si alzò in piedi e cominciò ad ammucchiare le carte. Voleva uscire da quell’ufficio, voleva uscire subito.
La figura alta e smilza del direttore entrò nella stanza.
<<Sta andando via?>>
Luigi ingoiò la saliva.
<<No>> rispose <<Stavo cercando un documento che…>>
<<Bravo, bravo Leopoldi, lei è il migliore. Fino ad ora ha avuto forse riconoscimenti inferiori ai suoi meriti. Ma è anche colpa sua, Santo Dio! Lei si fa notare poco, Leopoldi, deve imparare a tirare fuori i coglioni, Santo Dio! Domani mattina mi venga a trovare, capito. Lei è un bravo ragazzo Leopoldi, deve crescere, ma è un bravo ragazzo. Santo Dio!>>
Il dirigente uscì e Luigi tornò a sedersi, riordinò le carte, abbassò gli occhi e si mise a lavorare.
(Devo crescere. A quarant’anni devo ancora crescere!)
Erano le sette passate quando uscì dall’ufficio.
Il parcheggio annesso alla banca era quasi deserto. La Fiat Bravo luccicava in un angolo dietro all’enorme BMW. Era bloccata.
Con pazienza Luigi fece la strada in dietro e tornò in portineria. Si sentiva stanco, ma anche questa sarebbe passata. Tutto passa.
<<Di chi è il BMW nel parcheggio? Mi blocca l’uscita>> chiese alla guardia che sedeva in portineria.
<<Ah signor Leopoldi, è del dottor Mignardi. Mi sono dimenticato, questa mattina mi ha detto che… Ma lo avverto subito>>
(Dottor Mignardi, dottore un cazzo, io sono dottore!)
Luigi si sedette su una poltrona nell’atrio. Quante cose doveva fare ancora. Doveva tornare a casa, portare la macchina in garage, spogliarsi, mangiare, lavarsi i denti, piegare il vestito leggere un capitolo di quel maledetto libro… Chiuse gli occhi ed immaginò di potersi concentrare e trasportarsi con la forza del pensiero direttamente a letto, nel suo letto.
<<E Santo Dio Leopoldi, quanta fretta, lei non me la racconta giusta con quella faccetta buona buona, cosa ha da fare questa sera di tanto importante?>>
Luigi scattò in piedi.
<<Niente, niente dottore, è solo che… ma faccia pure con calma, mi dispiace averla disturbata, io…>>
<<E Santo Dio, questi ragazzi>>
(Ora lo mando a fanculo. Ora lo mando a fanculo.)
Luigi rimase zitto. Luigi non disse più niente.
Erano quasi le otto, ma le strade della città erano ancora intasate di traffico. Luigi guidava senza la cognizione di ciò che faceva. I suoi gesti erano meccanici, condizionati dalla routine di una vita. La sua mente era da un’altra parte. Una parte dove non c’erano pensieri né ricordi. C’era il vuoto.
Lo stradone lungo ed in fondo il semaforo.
Luigi si incolonnò ordinato alla fila di auto. Lo sguardo fisso davanti a lui.
La fila era lunga ed i tempi del semaforo brevi. Tre, quattro, cinque… otto, nove macchine, poi ancora l’arancione e poi il rosso.
Un’ombra si muoveva tra le macchine, un’ombra leggera. Un ombra che Luigi sentiva aleggiare intorno densa e pungente come una medusa.
Teneva la mano sinistra sul volante, mentre con la destra stringeva forte la cloche del cambio, la stringeva pronto ad inserire la marcia non appena il semaforo fosse diventato di nuovo verde, non appena la macchina davanti alla sua si fosse mossa. Era teso come un pilota di formula uno al momento della partenza. Non doveva perdere neppure un attimo. Assolutamente neppure un attimo.
In quel preciso momento l’ombra si materializzò e prese corpo chiara davanti ai fari della macchina incolonnata davanti alla sua. Era il marocchino che puliva i vetri al semaforo. Il suo viso perfettamente ovale comparve illuminato, sorridente come quello di un folletto.
Luigi seguiva i movimenti del marocchino proiettati nel buio come in un film.
Nella macchina davanti alla sua vi era solo una persona. Luigi riconobbe dai capelli che si trattava di una donna. Al volante c’era una donna e la sua testa si muoveva e faceva cenno di no. Ma lui, il marocchino, rideva e le puliva il vetro.
La donna abbassò il finestrino e si sporse appena fuori. Sembrava bionda e giovane. Una ragazza carina. Luigi non poteva sentire cosa la ragazza dicesse. Parlava e sorrideva. Diede al marocchino qualche soldo ed il marocchino le indirizzò un bacio.
(Bastardo!)
Verde. Le macchine davanti erano partite. Non quella della ragazza.
(È distratta la stronza.)
Luigi aveva inserito la prima e stringeva nervoso il volante. Smaniava, ma non suonava il clacson, questo non rientrava nelle sue abitudini. Qualcuno lo fece dietro di lui. La ragazza guardò avanti, inserì la marcia, la macchina fece un paio di balzi e partì. Luigi vide la ragazza, la vide chiaramente: si portava la mano alle labbra ed inviava un bacio al marocchino che sorridente salutava.
(Troia!)
Il semaforo era ancora verde. Forse questa volta ce la faceva, forse questa volta sarebbe riuscito a passare. Arancione. La macchina davanti, quella della ragazza, rallentò.
(Ma che cazzo fa la stronza!)
Poi improvvisamente accelerò di nuovo e passò oltre l’incrocio. Luigi pure accelerò, ma il semaforo era di nuovo rosso. Frenò bruscamente e si fermò un poco oltre la linea bianca dello stop.
Il marocchino era rimasto alcune macchine dietro la sua.
Luigi guardava nello specchietto retrovisore. Il cuore gli batteva forte. Il marocchino camminava verso di lui.
(No, questa volta non mi pulirà il vetro, questa volta non mi fregherà le solite mille lire!)
Il marocchino si affacciò al suo finestrino. Era moro, forte e pieno di vita. Sorrise con gli occhietti furbi.
(Ma chi vuole prendere in giro!)
Luigi fece cenno di no con un movimento rigido della testa, ma il marocchino aveva già poggiato la sudicia spugna sul cristallo.
<<Noooooo>> urlò Luigi in modo innaturale.
Il marocchino alzò gli occhi sorridenti ed incrociò quelli di Luigi deformati dalla schiuma che si stava allargando sul cristallo. Il sorriso sparì dagli occhi del marocchino mentre la sua bocca, ancora atteggiata al riso, dava alla sua faccia l’espressione stupida e patetica di una maschera. La maschera di un fantoccio. Ed un fantoccio, esattamente un fantoccio, Luigi ebbe l’impressione di trovarsi tra le mani.
Luigi non aveva mai sperimentato la sue forza e mai avrebbe pensato di poterne sprigionare tanta. Né gli altri, quelli che lo conoscevano timido, remissivo e sempre gentile, avrebbero mai potuto riconoscere l’espressione del suo viso. Qualcosa sembrava colargli dagli occhi come lava incandescente di un vulcano. Era odio, odio allo stato puro.
Tutto si svolse in un attimo. Luigi scese dalla macchina, prese il marocchino per il bavero del piccolo giubbotto di pelle e lo sbatté forte sul cofano.
La testa del marocchino ciondolava e Luigi la sbatteva sul cristallo della macchina, la sbatteva e la sbatteva ancora.
La sbatté finché non sentì sulle braccia indolenzite tutto il peso di quel corpo morto. Allora lo lasciò scivolare in terra come un inutile sacco.
Nessuno era sceso dalle macchine intorno. Il semaforo era diventato verde e qualcuno, forse quattro, forse cinque macchine dietro, si era attaccato al clacson. Luigi si guardò le mani. Erano pulite. Neanche una goccia di sangue.
Alzò gli occhi. C’era un grosso cartello pubblicitario al lato della strada. Luigi rimaneva immobile. Leggeva e rileggeva quel cartello che non capiva, ma che gli occupava tutta la mente.
"A Natale stai pure con i tuoi, ma a Pasqua non ti far fregare. Vieni in Marocco con noi!"
Luigi sorrise.
Cesare Ferrazza