Sangue in città
di Matteo Treleani
A ripensarci adesso non avrei di sicuro agito in quel modo. Ci vuole una certa prontezza di riflessi, un controllo assoluto su ogni parte del proprio corpo in quelle situazioni. Le molotov non dovrebbero sfuggire di mano, né si dovrebbe partecipare a certe manifestazioni se si teme di far male a qualcuno come lo temevo io. Non che fossi un vigliacco. Certo l’idea di venir preso a manganellate da un gruppo di poliziotti a caccia di capri espiatori non mi esaltava, ma il mio problema era di mettermi sempre nei loro panni. Fanno solo ciò per cui vengono pagati, dopotutto. Necessari come tanti altri. Erano lì per proteggerci mica per attaccarci. Facevano parte del caos e delle sue leggi, ecco tutto. E chi ce l’aveva con loro?
Combattevamo un nemico astratto e migliaia di manifestanti sfasciavano il corso, ribaltavano automobili e lanciavano sassi e molotov improvvisate. Striscioni ovunque con gli ideali più belli del mondo e poi violenza sulle strade. "E’ una questione di pubblicità" sosteneva L. agitando la mazza da baseball a mezz’aria "in questi casi la cosa principale è essere visibili." Effettivamente non gliene frega niente a nessuno delle manifestazioni pacifiche. Al massimo se ne parla quando regalano soldi. Ma tutto quel casino mi pareva sinceramente fuori luogo. La città intera si era fermata. Schiere di poliziotti che sembravano usciti da Guerre Stellari, con maschere antigas e tenute antisommossa. Fumo ovunque per disperdere la folla (il che permetteva solo a noi manifestanti di insidiarci meglio tra le file nemiche). Addirittura un blindato con un cannone che ogni tanto sparava getti d’acqua su quei due furbi che gli si avvicinavano spavaldi. Echi d’anni lontani, in cui le manifestazioni si facevano a ritmo di rock and roll, annunciati da giornalisti poco creativi.
Avanzavo sul marciapiede con la molotov dietro la schiena e l’accendino che annegava nel sudore dell’altra mano. Vetrine sfondate. Le insegne di un fast food scaraventate su un’auto parcheggiata. Vidi una fila di poliziotti che caricava: lanciai la molotov. Ancora non riesco a capire quale istinto mi abbia indotto a quel gesto. Forse la paura. Mi ero promesso di non farlo, di romperla per terra giusto per creare un po’ di confusione. E invece eccola che piroetta in aria, squarcia il fumo grigio con la sua fiamma poetica e si schianta sull’elmetto blu di un poveraccio. Proprio lì doveva finire. Chissà il dolore, le schegge, le ustioni. Nulla, quello scappa nelle retrovie come niente fosse, coi pantaloni in fiamme (subito spente). Quando avrei sentito la conta dei feriti al tg il giorno dopo, avrebbe probabilmente fatto parte del numero. Ci sono sempre più poliziotti che manifestanti fra i ricoverati, lo notavo fin da bambino.
Mi rifugiai in un bar passando per la vetrina sfondata e trovai consolazione nel cappuccino offertomi dalla cameriera. Sosteneva il corteo la poverina, e ne avrebbe voluto far parte, non fosse stato per il suo lavoro che le era necessario. O almeno, così diceva, e forse la necessarietà si trovava negli abitini firmati che sfoggiava fieramente. Non avevo alcuna intenzione di polemizzare, e le permisi di sedersi al tavolino per osservare un po’ assieme il trambusto dall’altra parte della vetrina. "Dava fastidio tutto quel vetro tra il bar e la strada" fece lei senza che nessuno la interpellasse "adesso sì che siamo al centro della vita metropolitana." La squadrai "E’ per questo che adoro i tavolini all’aperto". Giocherellavo con la tazzina e quella scivolò sul pavimento. Giurerei d’averla vista svolazzare per qualche istante prima d’infrangersi. "Non importa" fece lei sorridendo "tanto peggio di così il locale non potrebbe esser ridotto." La osservai in silenzio. Gli occhi le brillavano particolarmente. C’era qualcosa di strano nei suoi lineamenti, era bella, senza dubbio. Forse l’avevo già vista da qualche parte.
"Sai, prima ho lanciato una molotov addosso a un poliziotto." Mi diede un’occhiata interrogativa. "Ma non l’ho fatto apposta, mi è scivolata" Lagnai nel peggior modo possibile. Chiese se era ancora vivo. Per forza, ancora un po’ neanche si accorgeva di esser stato colpito. "Che razza di molotov era?" domandò sarcastica, e allo stesso tempo fissava il suo sguardo nel mio. Che visione meravigliosa! L’avrei baciata all’istante. Invece mi alzai con l’usuale ed inspiegabile propensione dei miei muscoli a fare il contrario di ciò che il cervello suggerisce. Dissi che avevo una questione da sbrigare e che sarei tornato in una decina di minuti. Lo pensavo sul serio, in quel momento. Di avere una questione da sbrigare, intendo, non che sarei tornato.
La capitale sperimenta nuove tecnologie. Ancora quelle insegne. Ma chi le mette? In un certo senso non le sopporto. Eppure possiedono un qualche fascino; quel connubio di epoche storiche, fuse in una visione omogenea. Cose dette e ridette, lo so, ma che c’entra.
Qualcuno la ruppe con la mazza da baseball. Si era arrampicato sul palo per poi massacrare furiosamente lo schermo. Scintille e fiamme ora dilagavano sull’aiuola. A prima vista il vandalo sembrava L., almeno, lo riconoscevo dalla mazza da baseball, di sicuro non dal volto insanguinato e coperto per metà da un fazzoletto. Utile per il gas, probabilmente, o forse per non farsi identificare, preso atto che di gas non ce n’era più (perché avevano finito le munizioni di quei loro fucilotti scenici e rumorosi). Poi giunse un poliziotto che iniziò a menarlo col manganello, e il sangue schizzava tutto intorno, bagnava l’erba nell’aiuola, il marciapiede e la maschera antigas dell’agente. "Quell’insegna non si tocca!" urlò, o almeno credo di averlo sentito urlare, perché una frase simile non aveva alcun che di reale, né lo aveva il mio comportamento menefreghista, che restavo paralizzato ad osservarli, senza muovere un dito per aiutare il povero L. o per ripararmi dai getti d’acqua che il blindato sparava sui manifestanti senza mai, miracolosamente, colpirmi.
Intanto il sole calava, la piazza assumeva colorazioni strane, il cielo arancione, no, rosso, proprio rosso come il sangue. Capita, a volte, dipende dalle condizioni atmosferiche. E nessuno ci faceva caso. Continuavano la guerriglia urbana quasi fosse necessario scuotere la metropoli dall’interno. Decine di feriti sanguinanti a terra, che si dimenavano sull’asfalto e invocavano aiuto indicando gli aggressori. Non era mica vero tutto quello. Esageravano, per via delle televisioni. E quel sangue, da dove veniva? Manifestanti che annegavano in pozze scarlatte, sguazzavano come piccioni che si lavano nelle fontane, si tuffavano a bomba da marciapiedi trampolini, per un attimo mi parve di vederli. Chissà, forse qualcuno si era fatto male sul serio, e forse quel qualcuno era proprio L. Erano impressi nella memoria il suo rannicchiarsi in una posa anormale, il modo in cui si teneva il capo. Aveva corso come una gazzella ferita poco dopo lo scontro. No, non potevo fingere di non aver visto nulla, almeno avrei dovuto assicurarmi della sua salute, dimostrarmi interessato dopo essermene stato con le mani in mano a vederlo soffrire, dopo aver lanciato una molotov in testa a un innocente poliziotto. No, non intendevo tenermi la salute di un amico sulla coscienza. Si era nascosto da qualche parte nel corso, di sicuro; forse proprio in quel bar dove stupidamente non mi ero gustato il cappuccino. No, era chiuso. Impossibile, fino a dieci minuti prima la vetrina era in frantumi mentre ora si opponeva con noncuranza alla mia volontà di ritrovare L. seduto a un tavolino che si curava la fronte sanguinante, e magari, anche di rivedere la dolce cameriera.
Il mio sguardo vagava tra i lampioni e le auto rovesciate del viale, incrociando occhi minacciosi di agenti che non attendevano altro se non un passo falso per venirmi a menare come avevano già fatto col povero L. Che attendessero pure, non era certo dedicata a loro la mia attenzione.
Ecco, questa era decisamente una sensazione strana. Come se il pavimento stesse improvvisamente mutando in qualcosa di liquido e tiepido. Le scarpe ci annegavano dentro, e quello avanzava implacabile. Ovunque, era ovunque, tutta la strada ne stava venendo sommersa, arrivava a ondate dalla piazza, quasi fosse stato pompato da un marchingegno a un ritmo regolare, cadenzato, un battito lento e preciso. Era un fiume che senza fretta, aveva tutto il tempo a disposizione, invadeva le strade. Saliva sui marciapiedi, scivolava negli scarichi, aggirava gli ostacoli e fuoriusciva dai tombini. Inondava le fessure fra le piastrelle, giungeva a fiotti, travolgendo le cicche spente e gli scontrini accartocciati. Qualcuno lo ignorava, altri lo evitavano, ma per poco. Con la sua calma, la sua pacata ira, il suo indifferente defluire ognidove, prima o poi, avrebbe raggiunto chiunque.
Era alle mie caviglie. Ed era sangue.
Quando una marea di sangue invade le strade della città, probabilmente c’è qualcosa che non funziona. Non capita spesso, anzi, che io sappia non è mai capitato. Innanzi tutto ci si chiedeva (o meglio, mi chiedevo) di chi fosse. Un solo donatore non era di sicuro, e neanche due o tre; lì ce n’era talmente tanto, che forse un migliaio di persone neanche bastavano. E adesso siamo tutti d’accordo che i feriti erano molti, e magari anche qualche morto, ma sicuramente non ce n’era più di un migliaio. Inoltre avevano smesso di evitarlo; all’inizio molti tentavano di non bagnarsi, forse per non entrare in casa la sera con le scarpe inzuppate di sangue, cosa di certo non gradevole per lo zerbino e per gli eventuali figli, mogli, madri, fidanzate o chiunque stesse aprendo loro la porta. Si trattasse di poliziotti o manifestanti, tutti erano saltati sui marciapiedi difendendo il colore degli anfibi o delle scarpe da ginnastica malconce (malconce sì, ma lo erano per una scelta precisa, perché i manifestanti non sono più gli stessi se non si vestono da alternativi; e questo non significa che non seguano la moda, semplicemente che ne seguono una diversa da quella pubblicizzata in televisione). Ecco, ora non si curavano nemmeno dei pantaloni, dei jeans azzurri col risvolto rosso, fradicio di sangue. O degli schizzi sulle magliette e addirittura nei capelli, perché le ondate s’infrangevano sugli estintori o sui muri, sparando goccioline nell’aria. Fingevano di non aver visto nulla, di non avere il sangue alle caviglie, di non camminare in un lago di liquido umano. Addirittura continuavano a lanciare sassi, ad assalire i poliziotti, i poliziotti a caricare e a roteare i manganelli. Come niente fosse. Ci avevano messo un attimo ad accorgersi del sangue e un attimo a decidere di ignorarlo completamente.
Senza poter dare una spiegazione razionale a tutto ciò, l’unica cosa che mi restava da fare, e che in quel momento mi parve anche la migliore, era scappare. Dimenticandosi della ragazza nel bar o di L. ferito, della manifestazione con cui ero sempre stato d’accordo, anche se me n’era passata di mente la causa. Scappavo e il sangue mi inseguiva. Non è detto che stesse inseguendo proprio me, forse avanzava nel corso perché non c’erano altri tragitti da fare, forse ero io che correvo lungo la sua traiettoria, forse non era neanche sangue. Chissà, l’acqua delle fogne poteva aver assunto una colorazione particolare, per il caldo estivo, per l’inquinamento, o per la luce del sole. Il sole che tramontava arrossendo dietro le antenne dei palazzi, che si nascondeva tentando di non vederci. No, lo si riconosce bene, quando arriva, il sangue. Non lo si confonde tanto facilmente con la melma dei tombini. E adesso manifestanti e poliziotti rissavano sotto una pioggia d’acqua, che improvvisamente si fece rossa, sparata dal cannone del blindato che vagava senza meta tra le strade in sommossa. Ricopriva tutto, ogni cosa diveniva scarlatta. I muri sanguinavano, i volti, i marciapiedi e le strade, le vetrine e i lampioni.
Era sangue. Era alle mie caviglie. Sangue in città.