LA MORTE PORTOGHESE
di Michele Riccardi
Quando Andrea si riprese dallo stupore iniziale, ebbe la sgradevole sensazione di essere arrivato da lontano, senza memoria né coscienza di dove si trovava in quel momento, come se fosse stato via per qualche tempo, ed ora gli sfuggissero alcuni aspetti della realtà. Eppure l’oggetto che aveva causato in lui tanto stupore appariva reale e solido, ed era ancora là. Un semplice libro. Poche decine di centimetri ed una vetrina lo separavano dal volumetto dalla copertina apparentemente semirigida, dai colori spenti, su cui campeggiava la foto di una donna ammantata di nero, una di quelle antichissime contadine che ancora si potevano incontrare nelle campagne portoghesi; era intitolato "A morte portuguesa. Romance". Ma non era questo che aveva sorpreso Andrea, che ancora non riusciva a collocare nel suo mondo la presenza di quel libro; era il fatto che l’ autrice, come recava scritto il frontespizio, era Angélica Marani. Sua zia Angélica; la quale non aveva mai scritto un libro con quel titolo. Non era possibile, si ripeteva, zia Angélica era morta quattro anni prima, in un incidente stradale, e il suo ultimo lavoro era uscito sei anni prima della sua morte; quel libro non era mai esistito.
Andrea ne era sicuro, nessuno dei cinque romanzi di zia Angélica era mai stato pubblicato con quel titolo, né in lingua originale né in portoghese, lo sapeva per certo dal momento che l’edizione in quella lingua veniva curata dalla Francisco Alves Editora di Rio, che aveva tutti i diritti per i paesi lusofoni, e nessun romanzo o raccolta di racconti aveva mai avuto quel titolo. Come se non bastasse, quando sua cugina Julia aveva raccolto e fatto pubblicare il materiale postumo, Andrea stesso si era recato a Rosario con sua madre, che insieme a Julia condivideva i diritti d’autore sulle opere, per le autorizzazioni alla pubblicazione.
Julia non poteva avere fatto pubblicare altro materiale a loro insaputa, non aveva senso, si disse Andrea. I loro rapporti erano sempre stati ottimi, non era possibile che avesse fatto una cosa simile senza che essi in Italia lo fossero venuti a sapere.
Andrea sentì crescere dentro di sé una sgradevole sensazione, per alcuni secondi, immediatamente dopo la visione del libro, restando realmente a bocca aperta per la sorpresa. L’impressione di estraniamento che aveva sperimentato un momento prima lo colse nuovamente, e iniziò a sentirsi lontano, sospeso in un tempo che cominciava a scorrere lentamente, come se i minuti ed i secondi stessero perdendo la fluidità conosciuta per acquistare una densità speciale. Non era la prima volta che questo gli accadeva, in Portogallo, altre volte gli era accaduto di accorgersi come fossero passati pochissimi minuti laddove egli era convinto fosse trascorsa già una mezzora od anche un’ora, ed aveva quasi sempre accolto malvolentieri questa sensazione che lo faceva sentire a disagio con se stesso, temendo quasi che il tempo in quel paese sfuggisse alle leggi universali, fino a trasformarsi in una realtà spessa e traslucida che rendeva lenti e difficili persino i movimenti del corpo. Certi giorni, in Portogallo il tempo era quasi immobile.
Imponendosi di reagire a quell’istante di stupore ansioso, Andrea staccò i piedi dal suolo e si diresse oltre l’angolo della libreria, verso l’entrata. Si sentì enormemente sciocco quando si accorse che la porta non cedeva alla sua spinta perché, come recitava l’onnipresente faccina di cartone appesa a quasi tutti gli esercizi commerciali in Portogallo, a quell’ora era "chiuso". Solo in quel momento si ricordò che era quasi l’una del pomeriggio, e che poco prima che il suo sguardo cadesse sul libro esposto in vetrina, era diretto a Bairro Alto, per pranzare ancora una volta al ristorante Alfaia, prima di tornare in Italia il giorno seguente. A quell’ora tutti i negozi erano chiusi, naturalmente. Ritornò alla vetrina laterale e osservò ancora a lungo il volumetto, chiedendosi se quello che vedeva non potesse essere che un titolo tradotto con eccessiva libertà da qualche casa editrice, ma non lo credeva possibile, tutti i cinque romanzi di Angélica Marani erano già stati pubblicati nei paesi lusofoni con i titoli che lui conosceva bene, non poteva sbagliarsi al riguardo.
Quale titolo avrebbe del resto potuto essere tradotto con "A morte portuguesa" ? Che Andrea ricordasse, in nessun momento della sua vita Angélica aveva mai espresso interessi per il Portogallo, né per la sua cultura, aldilà della lettura di Pessoa e Saramago.
Dunque?
Andrea verificò l’orario di apertura pomeridiana del negozio, che riapriva alle 15, dopodichè si impose di riprendere il suo cammino iniziale verso il ristorante, per non lasciarsi sopraffare, come spesso gli accadeva, dall’ansia che terminava per sconvolgergli sempre la digestione, quando non tutti i programmi di una giornata. Andrea non era mai riuscito a modificare questo suo modo di essere, aveva lavorato tanto sulla propria personalità emotiva, cercando di essere un ragazzo più pragmatico e robusto, tanto nel corpo come nella mente, e vi era anche riuscito in qualche misura, ma per quel che riguardava l’ansia, non era mai arrivato ad ottenere grandi risultati; sapeva che l’ansia era solo il meccanismo che gli impediva di commettere quegli errori che, altrimenti, gli avrebbero causato i suoi noti sensi di colpa, che temeva ben più dell’ansia stessa.
Ora sapeva che avrebbe mangiato di fretta, che non avrebbe saputo aspettare con tranquillità la riapertura della libreria, e strada facendo verso Bairro Alto, si soffermava dinanzi ad altre piccole libreria, curioso di vedere se anch’esse esponevano qualche copia di quel romanzo assurdo. Ma le librerie che si susseguivano lungo il cammino erano per lo più rivendite di volumi usati o fuori catalogo, il che non era possibile per nessuna opera di Angélica Marani.
Riconoscendo di essere sopraffatto dall’incontenibile bisogno di avere una spiegazione, ritornò sui suoi passi, verso l’albergo in cui aveva dormito nelle tre notti precedenti, da quando, terminato il suo corso di studi a Braga, aveva deciso di trascorrere i suoi ultimi giorni portoghesi a Lisbona; pensava, da lì, di telefonare a Julia.
Aveva bisogno di una spiegazione urgente, sapeva che non avrebbe avuto pace senza di essa: perché una spiegazione doveva esserci, e gli era certamente dovuta.
Tralasciando il senso di disagio psicologico che la spesa di una telefonata intercontinentale gli avrebbe comportato, si fece mettere in contatto con il numero di Julia, a Rosario, e mentre il telefono squillava dall’altra parte, pensò a come affrontare l’argomento. Prima di riuscire a formulare qualsiasi domanda, qualcuno sollevò l’apparecchio dall’altra parte, e Andrea, ancor prima di recare qualsiasi saluto, chiese di Julia.
Era lei, fortunatamente, e Andrea, senza badare agli affettuosi saluti che provenivano dall’altra parte del mondo, chiese direttamente spiegazioni sul libro; il tono di Julia cambiò improvvisamente, probabilmente la ragazza si rendeva conto che quello era l’unico motivo della telefonata, e, parlottando tra sé e sé per alcuni istanti, rispose che non sapeva nulla, ed il tono apparve sincero ad Andrea, il quale percepì il tono disorientato della cugina. Se questo lo confortò, avendo verificato la buona fede di Julia, d’altra parte la meraviglia ed il disappunto che sentiva ora essere condivisi dalla cugina lo inquietarono, perché questo significava che avrebbe dovuto cercare spiegazioni altrove. L’idea che qualche casa editrice avesse pubblicato senza autorizzazioni un libro di zia Angelica o avesse commesso addirittura un plagio o un centone, lo irritava profondamente, e non meno Julia, che lo incitava a cercare una soluzione e di avvisarla quanto prima.
Dopo averla salutata più affettuosamente che potè, per scusarsi ( più per un bisogno proprio che di Julia) del tono inquisitorio con cui aveva aperto la chiamata, Andrea tentò di chiamare i suoi, senza successo. Non si spiegava dove potessero trovarsi in quel momento, visto che soprattutto sua madre non usciva mai di casa, durante la settimana.
Dopo aver pagato la telefonata ( che in verità gli parve ingiustamente salata) alla reception dell’albergo, Andrea controllò l’orario sul suo orologio, e vide che mancava poco più di un’ora all’apertura della Livraria Portuguesa. Sapendo che non avrebbe potuto pranzare con calma, preferì andare alla Pastelaria Suiça, dove avrebbe optato per qualcosa di più leggero e veloce. In realtà non riuscì a rilassarsi come sperava, perché come al solito il servizio ai tavolini esterni era alquanto aleatorio, come aveva sperimentato in quasi tutti i caffè del Portogallo, dove, al contrario che in Italia, sembrava che i camerieri non si curassero granchè di offrire un servizio veloce, neanche (di questo bisognava dar loro atto) quando si trattava di incassare il conto e mandar via il cliente. Andrea preferì recarsi al bancone che aspettare l’attenzione del cameriere, e pagò, incamminandosi verso la libreria poco distante.
Quando arrivò al negozio notò con disappunto di essere arrivato in ritardo di quasi quindici minuti sull’orario di apertura, e alla vista della vetrina il suo cuore perse alcuni battiti: il libro non era più esposto.
Precipitatosi all’interno, cercò di mascherare la propria impazienza nel tentativo di sembrare meno maleducato possibile, ed attirò l’attenzione di quella che doveva essere una delle commesse più anziane, chiedendosi che ne fosse stato del libro.
Venduto, gli rispose la donna, con una inespressività facciale che Andrea aveva imparato a conoscere bene nei commessi portoghesi, i quali forse ne facevano un punto d’onore professionale, ma che lo irritava alquanto, essendo abituato ad ottenere, insieme alla risposta principale, per lo meno un corollario di informazioni aggiuntive, o delle esclamazioni di simpatia o di scuse che, anche se non dovute, facevano sempre piacere ad un cliente.
Dovette chiedere ancora, per sapere che avevano esaurito tutte le copie, e che non avevano la minima idea di quando ne sarebbero arrivate ancora, e alla richiesta di poter avere l’indirizzo della casa editrice, Andrea avvertì il muto e malcelato senso di fastidio della donna, che, con efficienza secca e irreprensibile, estrasse da un cassetto alcuni stampati e gli indicò da dove ricopiare l’indirizzo richiesto. Andrea patì quasi i sudori freddi quando dovette chiedere carta e penna, che gli vennero offerti con un gesto asettico e meccanico, come se avesse chiesto un bisturi durante un’appendicectomia.
Editora Clepsidra, recitava la scritta sullo stampato, rua Visconde de Santarém 34. Non osando chiedere ulteriori informazioni alla commessa su dove si trovasse quella via, Andrea fece ritorno in albergo, da dove tentò di telefonare dapprima a casa, dopodiché al numero della casa editrice, e ambedue le volte senza successo. Presa una cartina di Lisbona, verificò la posizione della via, e vide che si poteva raggiungere comodamente con la metropolitana fino a Praça Saldanha, da cui distava sì e no un centinaio di metri.
Il tragitto non durò molto, e quando Andrea si ritrovò nella zona indicata, si diresse verso la sua meta. L’effetto che gli faceva Lisbona era qualche cosa che non sapeva definire, specialmente quando aveva attraversato certi quartieri, come quello in cui si trovava in quel momento. Mentre la Baixa e Bairro Alto e tutte le zone più vecchie di Lisbona davano l’impressione di una città europea, con i suoi negozi internazionali e coppie di turisti di ogni paese, certe zone come quella di Saldanha, pur restando in centro, evocavano in lui una sensazione inspiegabile di solitudine ed isolamento. Non erano affatto zone degradate, per quanto le costruzioni denunciassero anche più di un secolo di vita, ma sembravano le vie di una città isolata dal mondo, in cui Andrea si era domandato più volte come trascorressero il tempo i suoi abitanti, che talvolta sembravano più le comparse di uno scenario che non uomini e donne dotati di una vita propria e di un pensiero intimo. Queste persone esistevano anche fuori dell’orario di lavoro? Che cosa faceva la gente di Lisbona, in casa, tra le mura, quella gente taciturna e dai modi asciutti, in quella città che sembrava dare di spalle all’Europa, sospesa in un’atmosfera irreale, senza tempo, isolata? Di che parlavano la sera, davanti alla cena? Andrea avrebbe dato chissà che per penetrare un interno portoghese, anzi, lisbonese; al nord la gente gli era parsa più aperta, spigliata. Lisbona gli appariva nelle architetture e negli odori della zona meno antica come un preannuncio di America Latina, e non più Europa, senza essere tuttavia nessuna delle due, sospesa in un liquido amniotico che attutiva i rumori del mondo esterno.
Senza essersene reso conto, era già arrivato al numero 34 di rua Visconde de Santarem: a quel numero corrispondeva un edificio della fine del secolo precedente, non eccezionalmente conservato, con alcune finestre chiuse. Andrea non trovò traccia del portinaio e si incamminò fino al primo piano, dove secondo l’indirizzo avuto alla libreria, si doveva trovare la sede della casa editrice.
La sola porta che corrispondeva all’ingresso degli uffici era chiusa, nonostante fosse orario di lavoro, e Andrea, dopo aver bussato per alcuni minuti, sudando freddo per l’imbarazzo di apparire troppo insistente a chi avesse aperto, decise di andarsene. All’uscita del palazzo incontrò quello che doveva essere il portinaio. Era un ometto basso, scuro di carnagione, secco nella corporatura come nei modi; si limitò a dire ad Andrea che la casa editrice non era più lì.
Andrea constatò in sé una sensazione di grande amarezza, che provava tutte le volte in cui, avendo desiderato molto una cosa, questa poi per qualche ragione non si avverava, cosa che gli era accaduta tanto spesso da indurlo a non desiderare mai nulla con troppo ardore, anzi, aveva imparato in qualche modo a mascherare con se stesso il desiderio, quasi a dimenticare di volere la cosa in questione, come se questo potesse rendere più facile per una specie di sortilegio ottenerla. Un poco come nel mito di Orfeo, che lui non aveva mai capito perché si fosse voltato; Andrea era sempre stato sicuro che lui non si sarebbe mai voltato lungo il cammino, lo sapeva che qualsiasi trucco sarebbe stato messo in atto per attaccarlo nelle sue debolezze, ma se desiderava una cosa intensamente, doveva celare il suo entusiasmo. Ora invece, complice la facilità con cui immaginava ci si potesse mettere in contatto una piccola casa editrice, non aveva considerato questa ipotesi.
Il portinaio del palazzo gli diede un numero telefonico, dicendo che si trattava del cellulare di una delle dirigenti, che gli era stato dato per ogni evenienza, fino all’apertura dei nuovi uffici.
L’uomo nel consegnare ad Andrea il numero telefonico alzò le spalle e dichiarò più volte, sebbene nessuno glielo avesse chiesto, che non si assumeva responsabilità per la riuscita di quel contatto. Quello era il numero che gli avevano dato e quello lui dava alla gente, disse un paio di volte.
Forse l’uomo sospettava che la casa editrice avesse dei debiti con qualcuno, per i quali aveva chiuso, e che Andrea fosse un creditore o qualcosa di simile. In un certo senso lo era, pensò, qualcuno gli doveva rendere conto di quell’edizione spuria, o illegale in ogni caso, che ledeva i diritti d’autore della sua famiglia.
Dopo essere ritornato all’albergo, Andrea telefonò al numero del cellulare datogli dal portinaio, e dopo alcuni squilli rispose una voce femminile, professionale e fredda.
Andrea non si presentò come nipote di Angélica Marani, ma insistette per ottenere un appuntamento urgente riguardo all’edizione del libro, insistendo che il suo aereo, come era vero, partiva il giorno seguente nel primo pomeriggio. La donna pareva seccata, ma non lo diceva esplicitamente, mantenendosi fredda, secondo un’attitudine che ad Andrea sembrava tipica dei portoghesi.
La donna, una signora che si presentava come Ana Saraiva, diede appuntamento ad Andrea il mattino seguente alle dieci negli uffici della nuova sede, ad Amoreiras, vicino alle nuove torri.
Quella sera ad Andrea non restava che tornare al proprio albergo per riposarsi, sapendo in anticipo che non ci sarebbe riuscito. Decise di infilarsi in un cinema, per riuscire ad spendere un po’ di tempo in qualche modo, ed anche se il film non gli piacque molto, all’uscita fu contento di aver occupato la mente per un paio di ore.
Al suo ritorno in albergo lo avvisarono che avevano telefonato dall’Argentina, ma quando tentò di richiamare Julia, il telefono continuò a squillare senza che nessuno lo sollevasse. Andrea si sentiva inquieto all’idea che Julia avesse saputo qualcosa di importante, e, nonostante si imponesse di pensare che probabilmente aveva richiamato solo per sapere novità, l’idea che fosse venuta allo scoperto qualche informazione utile continuava a tormentarlo. Andrea si chiuse in camera e si sedette sul letto, fissando la propria immagine riflessa nella specchiera dell’armadio, e maledisse per un istante il volto che lo guardava dall’altra parte, per la sua stupida ansia, per la sua incapacità di controllare delle emozioni tanto violente come quella che in quel momento gli si agitava nel petto, tanto più che era causata da fatti che, lui lo sapeva, non avrebbero avuto ragione di scuoterlo così. Eppure la curiosità mossa da quel libro era troppo forte, e poi immaginava che una volta tornato a casa i suoi gli avrebbero chiesto spiegazioni in merito a quel fatto, e sapeva che lo avrebbero rimproverato duramente se fosse tornato a casa senza informazioni più precise riguardo a quel volume. Temeva che i suoi ancora una volta gli dimostrassero la poca fiducia che riponevano in lui; del resto Andrea sapeva che non avrebbe mai nemmeno avuto il coraggio né la capacità di tacere una cosa simile a sua madre ed a suo padre. Per quanto i suoi fossero separati da anni, per ciò che riguardava la tutela degli interessi familiari e la sua educazione, i suoi genitori erano ancora uniti, e nessuno dei due avrebbe preso le sue difese se non si fosse dimostrato in grado di affrontare quella situazione.
Dopo aver tentato di chiamare ancora sua madre, invano, Andrea si spogliò e fece una doccia calda e lunghissima, nel tentativo di rilassare i nervi ancora tesi. Non fu una buona notte, quella che seguì.
Tra i diversi sogni che fece vi fu uno in cui ebbe la sensazione di essere sveglio, per quanto non lucido, dove Angelica era seduta sul suo letto, in quell’albergo, sorridente, muta; lui fece per alzarsi seduto, mentre lei, senza abbandonare quel suo sorriso sereno e conciliante che lui aveva conosciuto bene quando era viva, slacciò i bottoni del proprio tailleur ed aprì i lembi della giacca, rivelando così una ferita orrenda, semicircolare, attraverso la camicetta lacera e piena di sangue. "Sono morta, sai?" aveva detto, dolcemente, e Andrea si era risvegliato sul punto di urlare. Aveva avuto una sensazione nitida di realtà al vedere sua zia che ostentava le ferite dell’incidente d’auto in cui era morta quattro anni prima; si ricordava che una volta, mentre era a casa di sua cugina a Rosario per il funerale della zia, si era svegliato nel cuore della notte ed aveva udito Julia parlare con qualcuno in salotto; stava raccontando del momento del riconoscimento legale, e della ferita tremenda che il volante aveva lasciato sul torace della matrigna.
Andrea non aveva avuto il coraggio di smettere di ascoltare, ed era rimasto sconvolto per giorni, pensando che quel grembo che tante volte lo aveva tenuto in braccio era nello stato descritto da sua cugina.
Quello notte, come quattro anni prima, Andrea stentò a riprendere sonno, e si svegliò più tardi del solito, stanco e disorientato. Alle nove e tre quarti già aspettava dinanzi al portone del numero civico indicato nell’appuntamento il giorno prima, in attesa della signora Saraiva. Alle dieci e dieci ancora non si era visto nessuno, e Andrea faticava a trattenere il suo respiro normale, le mani strette l’una nell’altra per non vederle tremare per l’ansia.
Era stato preso in giro, immaginava. Proprio mentre iniziava a perdere la speranza, un’ombra gli passò accanto, e quando sollevò gli occhi, Andrea vide una donna bruna, sulla trentina, vestita con un completo nero a metà tra l’elegante e lo sportivo, quasi troppo di tendenza per sembrare portoghese, troppo ricercato, pensò. Andrea rimase colpito dai suoi sandali, anzi, dai suoi piedi; trovò che fossero immensamente crudeli. Non riusciva a spiegarsi nemmeno lui che cosa significasse quel pensiero, ma provò una sensazione di fastidio alla loro vista.
-"Il signor Cortese?"- domandò con tono sicuro la donna, come se non avesse bisogno di una risposta. Alla sua risposta affermativa, la signora Saraiva, come si era presentata, lo introdusse nell’edificio dove diceva che sarebbe stata aperta la nuova sede della casa editrice, ma nessuna targa né altro segno indicava la futura destinazione delle stanze a cui stavano accedendo.
-"Stiamo ancora aspettando di trasferire tutto il materiale, per adesso abbiamo solo qualche mobile"- aveva spiegato la donna anticipando il pensiero di Andrea, che si chiedeva come mai la nuova sede fosse così spoglia. Solo due scrivanie e qualche poltroncina, più diversi cartoni impilati qua e là. Andrea rispose ai convenevoli di rito della donna, che sembrava voler apparire il più possibile accattivante e spigliata, cosa che raramente gli era accaduto di vedere nelle portoghesi, che gli parevano essere sempre abbastanza essenziali e dirette nei modi.
Andrea quasi la interruppe per spiegargli il motivo per cui si trovava là; mentre gli esponeva le sue perplessità, osservava le reazioni della donna, che ostentava un autocontrollo ed una serenità che a lui sembravano fuori posto, in un caso simile.
-"Vede, oltre a tutto questo, per quel che noi sappiamo, questo romanzo non è mai esistito, non è mai stato scritto, non sappiamo nemmeno di che cosa parli."- concluse Andrea.
La donna, dopo aver ascoltato Andrea senza interromperlo una sola volta, si appoggiò allo schienale della poltroncina su cui sedeva in quel momento e iniziò a spiegare:
-" Questo che noi abbiamo pubblicato è un inedito. La storia, come saprà, ripercorre e indaga gli ultimissimi giorni di vita di un giovane, che muore in circostanze poco chiare…"-
-"Ma allora non è un inedito, vede?!- la interruppe con veemenza Andrea-" Quello di cui lei sta parlando ora è l’ultimo romanzo di Angelica Marani, "L’oro smarrito", in cui lei trattava della morte del cognato giovanissimo, e l’unica casa editrice che possiede i diritti per la lingua portoghese è la Alves di Rio…"-
-"Non è lo stesso romanzo, vede"- lo interruppe la donna, aprendo un sorriso sicuro ed irritante per Andrea,-"questo si svolge in Portogallo, qui a Lisbona precisamente. Non si tratta di "L’oro smarrito", questo lo sappiamo anche noi."-
Andrea non sapeva come replicare a quell’affermazione, non riusciva a capire come la donna potesse parlargli con tanta sicurezza, o sfacciataggine, di un libro spurio, o inesistente. Percepì per un momento la stessa sensazione di smarrimento che aveva provato dinanzi al libro la mattina precedente, e ristette per un secondo, mentre la donna enumerava una serie di notizie riguardo alla prima stampa e ad altri problemi editoriali, quando, cercando di apparire deciso anche a se stesso, Andrea sbottò:
-"Ho intenzione di farvi causa per i diritti."-
Si accorse che quando lo aveva detto gli era tremata la voce, ma probabilmente alla signora Saraiva questo era sembrato un indizio di collera repressa anziché di paura; infatti la donna si interruppe e tacque, mutando la sua espressione accondiscendente in palese disappunto. Contento della reazione che nemmeno lui aveva sperato di riuscire ad ottenere, Andrea si fece coraggio e aggiunse-"Pretendo di vedere una copia del romanzo, se non chiedo troppo"-
La signora Saraiva teneva un contegno che suggeriva un estremo disprezzo nei suoi confronti, che traspariva dal suo volto ora gelido ed inespressivo.
Congiunse le mani in una pausa di riflessione e, dopo aver sospirato, si alzò, scusandosi con Andrea e si diresse ad una porta dell’ufficio, oltre la quale doveva trovarsi un telefono, dal momento che la sentì comporre un numero e parlare in fretta con qualcuno dall’altro capo della linea, senza che lui riuscisse ad afferrare che cosa si stessero dicendo.
Andrea dovette reprimere l’impulso di alzarsi e dirigersi nella stanza, perché pensava che fosse suo diritto udire quella conversazione, ma si trattenne per il timore, che riconobbe essere un tantino esagerato, che la donna si irritasse oltremodo con lui. La signora Saraiva ritornò scusandosi e dicendo che tutte le copie in quel momento erano esaurite, e che nel magazzino non restava nulla, come le avevano confermato in quel momento. Sul volto Andrea credette di leggerle una specie di espressione di meschino trionfo, e si alzò di scatto: per un istante avrebbe voluto insultarla, non poteva permetterle di credere che lui fosse tanto idiota.
-"Voglio vedere il vostro magazzino."-esclamò Andrea.
-"E’ inutile, il libro che lei cerca non c’è in questo momento, sarà in ristampa l’anno prossimo, forse"- La donna aveva ripreso il suo tono mellifluo e sicuro, rispondendo con quell’evidente menzogna.
Andrea non sapeva come replicare, e, sul punto di esplodere si rese conto che avrebbe dato una cattiva impressione di sé, se non avesse saputo trattenere la propria collera, indice evidente di debolezza. Quella donna lo metteva a disagio. Era una donna falsa, dai piedi crudeli, pensò, poi si rimproverò per aver avuto ancora quel pensiero. Ed ora, per giunta, la donna gli sorrideva nuovamente.
Andrea si congedò seccamente, promettendole notizie dai loro legali in Italia.
Dopo essere uscito dall’edificio, col cuore in tumulto per l’umiliazione di non essere riuscito a sapere nulla né ad intimorire quella donna a sufficienza, percorse alcune decine di metri, poi si arrestò. Si chiedeva che cosa avrebbe potuto fare ora, e mentre si voltava a guardare in direzione dell’edificio della casa editrice ( se era poi quella la sede, se ce n’era una, rifletté),vide la signora Saraiva uscirne con un pacco sottobraccio, una pila di libri sicuramente, si sarebbe detto dalle dimensioni, che non aveva quando si era presentato a lui. Andrea ebbe il sospetto che si trattasse delle ultime copie di "A morte portuguesa", e che la donna le volesse nascondere. Improvvisamente si accorse che un po’ per la sorpresa, un po’ per la sensazione di essere stato giocato, gli tremavano le ginocchia; si diresse verso la signora Saraiva per fermarla, ma non appena vide che la donna non si era accorta che lui le si stava avvicinando, Andrea pensò, meravigliandosi di sé stesso, di continuare a seguirla senza farsi vedere. Era un’idea decisamente assurda, si diceva, quello non era uno squallido romanzetto di spionaggio, ma la scossa emotiva, quasi di piacere, che aveva provato al pensiero di poter controllare i movimenti di quella donna, e di sorprenderla con i libri in mano, lo aveva persuaso a tentare quella mossa. Almeno avrebbe potuto mettere a disagio la donna, cogliendola alla sprovvista, avendo un punto in più su di essa. Eccitato da questa idea, che gli sembrava in realtà un poco voyeuristica, prese a seguirla. Solo due giorni prima si sarebbe sentito stupido all’idea di pedinare una donna, ed un poco lo pensava ancora adesso, ma la reticenza di lei, ed il sospetto che quel pacco contenesse le ultime copie del libro, lo aveva fatto ricredere sul concetto di stupidità. A dire il vero sentirsi stupido non era una novità per Andrea, ma per una volta tanto non gli dispiaceva. Forse in quel momento gli conveniva esserlo, in fondo, pensava, non aveva nulla da perdere, ed in una città straniera, dove nessuno lo conosceva, poteva permettersi il lusso di essere un po’ stupido, soprattutto se c’era una giustificazione come quella.
Vide la donna svoltare ad una angolo della via, dove lui corse immediatamente per non perderla di vista, mantenendo al tempo stesso la distanza di sicurezza; si rendeva conto che non avrebbe saputo controllare molto bene l’imbarazzo, se fosse stato scoperto, e preferiva non esporsi troppo. Doveva essere lui a coglierla di sorpresa, non lei. A quanto pareva la donna si stava dirigendo verso la Praça Marques Pombal, per scendere nella metropolitana. Andrea trasse un sospiro di sollievo, pensando che se la donna invece avesse avuto un’automobile non avrebbe potuto certo seguirla.
Non era da escludersi che ne avesse una all’uscita della fermata, ma era deciso a seguirla comunque, magari avrebbe preso il numero di targa dell’auto per ogni evenienza. Sentirsi un po’ cretino e un po’ investigatore privato, scoprì come le due cose lo eccitavano al tempo stesso.
La signora Saraiva scese lungo la grande scalinata curva della fermata e Andrea la osservò dirigersi alla biglietteria. Lui si compiacque di essere stato previdente, quel giorno, poiché, nonostante dovesse partire nel pomeriggio, aveva comperato i due abbonamenti giornalieri della Carris e delle linee metropolitane. La donna proseguì per la banchina dei treni in direzione Campo Grande, e Andrea rimase in disparte, quasi dietro la scala d’accesso, in attesa del treno, per non farsi vedere.
Poteva sempre dire che era un caso, del resto la fermata di Praça Marques Pombal era uno snodo molto frequentato; ma preferì non essere visto.
Quando arrivò il convoglio Andrea scelse di salire sulla carrozza posteriore a quella della donna, per poterla osservare meglio all’uscita. La signora Saraiva scese a Praça Saldanha, e Andrea la seguì immediatamente, si aspettava che scendesse a quella fermata, era quella più vicina alla vecchia sede della casa editrice. Con sua sorpresa invece vide che la donna non si accingeva a salire al livello suolo, ma stava dirigendosi alla connessione con la linea Oriente, dove si fermò, aspettando il treno sulla banchina dei treni in direzione nord.
Andrea approfittò dell’arrivo di un gruppo di chiassosi turisti italiani per avvicinarsi un po’ di più alla donna. Il convoglio non tardò ad arrivare ed anche questa volta Andrea salì sulla carrozza più arretrata. Col cuore che batteva al massimo ad ogni fermata per il timore di perderla, Andrea giunse fino all’ultima fermata, dove la signora Saraiva scese dal convoglio per dirigersi al livello suolo. Andrea cominciava a sentirsi più teso, si rendeva conto che forse quello che poco prima gli era parso un gioco eccitante e lo aveva quasi caricato di euforia, non era stata un’idea molto intelligente. Adesso che si avvicinava probabilmente alla fine dell’inseguimento, che cosa avrebbe fatto di concreto? Combattuto se tornare o meno in albergo, decise infine di seguire comunque la signora Saraiva per vedere almeno dove si sarebbe fermata. Aveva paura di perdersi, o di essere portato troppo lontano, dove magari non avrebbe voluto arrivare.
Arrivarono a Parque das Nações, tra gli edifici avveniristici dell’Expo, e là dovette seguirla tra i viali semideserti e le fontane assurde del quartiere. Non capiva dove stesse andando, ma immaginava che potesse dirigersi ad un magazzino o qualcosa del genere. All’altezza di uno dei due McDonald’s aperti nel quartiere, la donna svoltò verso uno dei capannoni svuotati dopo la chiusura dell’Expo. Mentre si avvicinava tenendola d’occhio Andrea vide che stava aprendo un portone metallico. La signora Saraiva si introdusse nel capannone, portando con se il pacco che, per un attimo soltanto, aveva lasciato a terra, mentre armeggiava con le chiavi. Andrea non resistette all’impulso di correre verso la porta che era rimasta socchiusa, per intrufolarsi in quello che immaginava essere il magazzino della Editora Clepsidra, senza pensare al rischio di essere scoperto; forse era proprio quello il momento di sorprendere la signora Saraiva. All’interno dell’edificio, che sembrava proprio essere il magazzino che Andrea si aspettava, vi erano solo pochi pezzi di arredo di quello che doveva essere un ufficio, totalmente spoglio, quasi simbolico, come una simulazione di ambiente di lavoro, che trovava la sua collocazione tra due pareti di vetro e metallo, oltre cui erano ammucchiate diverse casse di cartone grigio, anonime, senza diciture né scritte. I libri, se erano libri, erano contenuti dentro quelle casse, ma Andrea non riusciva a spiegarsi come potessero immagazzinare una tale quantità di libri o materiale senza contrassegnarlo.
Cercò con lo sguardo la signora Saraiva, affannosamente, adesso era lui che aveva bisogno di farsi vedere, aveva bisogno di un chiarimento. Sentiva che se non avesse ottenuto spiegazioni sul libro, ed ora anche su quel posto, che appariva irrazionale, pretestuoso, non avrebbe avuto pace. Pieno di vuoto, ecco l’immagine che gli evocava quel posto dai soffitti alti le cui pareti restavano nascoste dalle casse. Non riusciva a capire come una casa editrice così piccola potesse avere tanto materiale in magazzino. Ci doveva essere una spiegazione diversa, e solo la signora Saraiva gliela avrebbe potuta dare, di questo era convinto. Andrea percorse l’andana formata dalla casse ammucchiate contro le pareti, e cercò nelle nicchie tra un cumulo e l’altro, ma non riusciva a vederla.
Improvvisamente il senso di disagio che covava da quando era entrato si fece insopportabile, e si voltò per uscire, quando vide una figura nera sfuggire oltre l’angolo di una pila di casse.
Senza nemmeno perdere il tempo per chiamarla ad alta voce, Andrea corse in quella direzione e vide quell’ombra femminile svanire oltre la porta. Ma non la seguì oltre, perché per una volta ancora qualcosa aveva catturato il suo sguardo.
Il libro. "La morte portoghese". Era in bella mostra sul ripiano vuoto di una delle scrivanie dell’ufficio, chiaramente lasciato là dalla signora Saraiva. Andrea vi si gettò sopra letteralmente, urtando la scrivania e piegandosi su di essa, come se avesse avuto paura di veder svanire il volumetto nell’aria, o che qualcuno sbucasse dal nulla per sottrarglielo. Non ci avrebbe trovato nulla di strano, dopo tutto.
Lo aveva, ora. Lo stringeva con forza nelle mani, come per verificare che non stava sognando, e lo tastava; lo aprì per vedere che le pagine non fossero bianche, che non fosse uno scherzo.
Lesse la quarta di copertina, che recava come sempre la brevissima bio-bibliografia dell’autore.
Volle controllarne l’esattezza. Diceva tutto quanto egli sapeva, recava i titoli delle altre opere, "L’oro smarrito", "La casa d’estate", "La notte infinita e altri racconti", come doveva essere. Ma non diceva nulla dell’origine di quel volume. Andò sul secondo risvolto del volume in cerca della trama e lesse quanto stava scritto; accennava all’indagine metafisica sulla morte di un giovane italiano, avvenuta in una Lisbona di un futuro molto prossimo, e della quale il narratore non dava spiegazioni. La cosa lo inquietava, sembrava uno scherzo. Sfogliò la prima di copertina, che curiosamente recava la scritta "Colectânea Os textos impossìveis" , collana "I testi impossibili". Che ironia sublime, pensò Andrea, si saranno anche divertiti, scrivendo questo.
Alla prima pagina si sentì percorrere da un liquido ghiacciato, denso, il suo sangue era diventato bianco.
"Quando Andrea se recobrou da estupefacção inicial, teve a desagradàvel sensação de ter chegado desde muito longe, sem memória nem consciência de onde se encontrava naquele momento, como si tivesse estado longe por algum tempo, e agora desapercebesse alguns aspectos da realidade. Contudo o objeto que causara nele tanta estupefacção aparecia sólido e real, e ainda estava là. Um simples livro. Poucas dezenas de centímetros e uma vidraça separavam-no do volume com a tapa aparentemente meio rigida, de cores apagadas, onde sobressaia a fotografia duma mulher encoberta de preto…"
Andrea boccheggiava per lo stupore, non riusciva a capire come potessero aver scritto quelle cose. Il libro parlava di lui, e le righe seguenti lo confermavano. Come potevano aver architettato uno scherzo simile? Come ci potevano essere riusciti in così poco tempo, e poi, perché?
Ancora con il cuore che batteva in disordine ed il volto attonito, sicuro di avere un’espressione idiota sulla faccia, Andrea si precipitò fuori della porta principale, per cercare di fermare la signora Saraiva. La luce impietosa del mezzogiorno accecò per un istante i suoi occhi che arrivavano dalla penombra, e quando si abituò alla luce fece appena in tempo a vedere che sull’automobile che arrivava a tutta velocità verso di lui c’era la signora Saraiva. Non riuscì neanche ad emettere un suono per manifestare il proprio sconcerto che l’auto gli fu addosso. Andrea fu sollevato dal colpo infertogli dal paraurti, e si abbattè col volto contro il parabrezza, udendo nello stesso istante lo scricchiare del vetro che si incrinava ed il rumore secco delle proprie ossa spaccarsi, poi, in una giravolta che non capì nemmeno lui fu prima sopra e poi oltre l’automobile, che sfrecciò via.
Sull’asfalto nuovo e lussuoso di Parque das Nações, Andrea Cortese capì che stava per morire.
Ma, diversamente da quello che aveva sempre creduto, non era un momento terribile ed assoluto, la fine del tutto: era sì dolorosissimo, mentre sentiva il sangue caldo e salato che gli invadeva ogni spazio libero nella testa, per poi riversarsi sul terreno. La testa gli pulsava orribilmente, ma mentre moriva non pensò ai suoi genitori, né alle cose che non aveva ancora fatto, alle occasioni perdute, né pregò Dio. Stringeva ancora in un mano il libro per cui presumibilmente era accaduto tutto quanto, e allora, mentre vedeva alcune figure indistinte avvicinarsi chiuse gli occhi, e provò un’amara allegria al constatare che non era vero che tutto diventava nero, quando si moriva, al contrario, vide tutto farsi bianco, di un bianco nitido e nuovo come la pagina di un libro. O meglio, come il fondo dell’ultima pagina di un libro, dove comprendeva di essere solo in quel momento; gli venne quasi da ridere, con la bocca piena di denti rotti e sangue, a scoprire che non aveva mai vissuto davvero, ma che era un personaggio letterario, e che quindi avrebbe vissuto la meschina gloria di quella morte a fondo pagina tutte le volte che qualcuno avesse letto quel racconto- povero idiota, pensare di essere vero e costituire con questa sua sciocca convinzione il motivo del racconto, cui era limitata la sua esistenza. Ma moriva dolorosamente, il suo dolore non era di carta, o di inchiostro, o un’idea, questo non lo capiva, e non fu un sollievo scoprire che sarebbe rivissuto sempre ad ogni lettura. Così a Lisbona, mentre si chiudeva il racconto, il suo cuore si fermò definitivamente, e Andrea morì, portando a termine, ancora una volta, la sua morte portoghese.