Il viaggio come metafora attraverso la prosa

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Ad Alekasander con amore
di Giorgio Leaci

Aprì gli occhi. Nessun rumore. L'aria asfissiante nel buio. Aleksander era troppo nervoso per dormire. Accese la luce. Un poster di un concerto rock di fronte e biancheria sporca intorno. Aveva venduto la mobilia per pagarsi da bere e per bucarsi. Prima fu la volta dell'armadio, poi di un paio di sedie, poi del letto. Era rimasto solo un comodino sforacchiato e consumato. Dormiva in un sacco a pelo, su un materasso tarlato da dove uscivano batuffoli di lana.
Un'angoscia lo affliggeva dentro. L'Alcol e la marijuana non erano riuscite ad ammansirla. Non si spiegava come fosse finito così. Ciò che lo circondava gli trasmetteva un senso di stupidità.
Viveva solo. Niente amici, hobbies, lavoro, donne, amore, odio. Nulla di nulla. Il sussidio mensile era il solo contatto esterno. Preferiva così. La bestialità degli uomini e l'assurdità della vita gli incutevano terrore. Affrontava la strada solo da sbronzo. L'ultima difesa rimasta. Passava il tempo guardando la gente in strada, dalla finestra della sua stanza da 2000 Kr., al primo piano. Spettatore della vita, parassita all' ultimo stadio. La foto sul muro scalcinato portava una firma sotto una frase a stampatello:
Ad Aleksander con amore.
Brigitte.
Come suonava lontana quella parola. Rimbombava dentro, facendolo tremare. Il terremoto della vita. In passato aveva significato tanto. Giornate di sole, notte terse, stellate, preservativi umidi in un angolo del comodino. Ora più nulla. Quel poco di vita che aveva, moriva come una candela.
La sua donna era morta da appena otto mesi. Non era riuscito a farsene una ragione. Non l'avrebbe più dimenticata. Si erano incontrati ad una festa reggae. Gli colpirono i capelli rasta di lei. Cadevano pesanti, dandole l' aspetto di una scopa da spazzino bagnata. I solchi profondi sotto gli occhi celavano la tristezza interiore. Fumava un joint e parlava funerea con due gay di colore. Prese una sedia, le sedette di fronte, fissandola. Lei faceva finta di niente. All'ultimo giro spense lo spinello con forza nel portacenere, gli incollò gli occhi. Solitudine e sventura a confronto. Lui le sorrise, si alzò e avvicinò la sedia. Non parlavano. Non c'era molto da dirsi. Bastava un'occhiata reciproca per capire l'odio e la mostruosità. Il suo bicchiere di birra finì e ne ordinò un paio per entrambi. La sua mano le stringeva il ginocchio, mentre lei lo fissava, accennando un sorriso. La coppia gay si alzò e si allontanò scocciata, facendo cadere le sedie indietro. Le pinte arrivarono, brindarono e attaccarono a baciarsi.
Parlare non serviva a nulla. Avevano bisogno di sentire un corpo caldo accanto, con una buona dose di birra in circolo per sedare la solitudine. Erano stanchi, infiacchiti. Il dolore aveva consumato le loro emozioni, li aveva svuotati dentro. Vivevano aspettando la fine. Un'attesa stupida e lunga. Non avevano il coraggio di chiudere con una rasoiata ai polsi. Il pensiero di una morte lenta atterriva.
Forse un giorno le cose sarebbero state diverse. Sapevano che non era vero. L'illusione, inganno per la mente, li aiutava ad andare avanti. Ora quel bacio umido tra le labbra screpolate, la lingua crespa bruciata dal vino di pessima marca, l'alito pesante di nicotina. Le mani stringevano i seni, con la disperazione di uno che cerca qualcosa a cui aggrapparsi per non sprofondare. Lei muoveva la testa avanti e indietro, andava a fondo con la lingua, stringendogli i fianchi. Lui rispose al bacio della solitudine, riflettendo su come i pochi momenti d'intimità avessero perso l'entusiasmo e il coinvolgimento di un tempo. Era solo un'azione meccanica che non avrebbe portato a nulla. Non riusciva ad incolpare nessuno. Era già cadavere prima ancora di morire. Non gliene fotteva. Quella notte sarebbero finiti a letto senza provare il minimo desiderio sessuale. Bastava avere vicino qualcuno per poche ore per stare meglio.
Brigitte aveva qualcosa di speciale che le altre non avevano. Forse era il suo modo di guardarlo negli occhi, con la testa leggermente piegata da un lato, il sorriso aspro e sforzato. Era unica nel suo genere. Gli dava un senso di sicurezza. Con lei dimenticava di essere un diseredato. Camminare al suo fianco, per le strade innevate di Aarhus, gli dava un senso di protagonismo. Il cielo si colorava dell'azzurro spento dei suoi occhi, i palazzi del rosa cinereo delle carni, l'aria impregnata dell'odore acido della fica.
Queste impressioni appartenevano oramai al passato. Una mattina il suo corpo nudo, freddo lo aveva svegliato. Credeva che fosse malata. Accese la lampadina tascabile poggiata sul comodino, la puntò sul suo viso. Gli occhi grandi, le palpebre spalancate, l'iride incolore, la bocca dischiusa, il corpo abbandonato. Un nodo gli serrò la gola, le lacrime scesero copiose, le labbra tremarono. Morta per overdose. Non era mai riuscito a cancellare quell'immagine davanti agli occhi. Cercava di dimenticarsene, ubriacandosi ogni volta che ritornava in mente. I ricordi non svaniscono facilmente. Rimangono nascosti in un angolo della mente e quando si è deboli ricompaiono, battendo e percuotendo le pareti del cervello, fino a condurti alla pazzia. Era quello lo stato in cui si trovava.
Il corpo fu percorso da brividi freddi, che gli impedirono di riprendere fiato per alcuni secondi. Le piaghe sul torace sanguinavano lentamente, depositando il sangue sulle lenzuola.
Quando aveva la forza pregava Dio che gli togliesse la vita. Non aveva senso vivere in quel modo, tra i rimorsi, i ricordi, le paure. Girò la testa lentamente, in direzione della finestra, come per trovare conforto in qualche possibile raggio di luce. Lo scintillio della carta stagnola che avvolgeva 100 gr. di eroina suscitò la sua attenzione. Allungò un braccio a fatica. Prese una siringa sporca dal comodino, un cucchiaio. Preparò una dose. Cercò il laccio emostatico. Non lo trovò. Sepolto nella polvere, nella biancheria. Si arrangiò con una stringa da scarpe. Le vene si gonfiarono nel braccio ossuto, la punta penetrò la pelle giallastra, tirò un po' di liquido scuro e spinse con il pollice lo stantuffo fino in fondo. Quei cinquantacinque chili di ossa, tartaro e disperazione si agitarono. Le orbite vuote e bianche, le vene tese come corde di chitarre, gonfie come se stessero per scoppiare. Si accasciò sul letto, con la siringa infilata nel braccio.
Rimase rigido. Una stupida contrazione delle labbra. Una smorfia in segno di protesta. Un braccio violaceo stretto da un laccio da scarpe.
Morì così.


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