Le statistiche Italiane dal primo censimento del 1861

 

el censimento del 1861, la popolazione maschile supera di mezzo milione quella femminile (la mortalità per parto falcidiava il genere, nati vivi 950.000 -37,6 °% morti 762.000 30,4°%) per un totale stimato di ca 26,3 milioni di Italiani. I giovani sotto i 14 anni sono il 32% del totale e gli anziani sopra i 60 solo l'8% (questo anche per la bassa durata media della vita vedi in fondo). I giovani sono quindi 4 volte gli anziani. La popolazione rurale è il 68,5% del totale e 10 anni dopo sarà calata solo di 1 punto (resto 20% in industria e 13 nei servizi). Per popolazione totale al 1861 si intende anche quella che entrerà a far parte successivamente dello stato italiano (Veneto, Lazio, Trentino, Trieste) o per dirla breve quella che è oggi entro i confini (fatte salve piccolissime differenze dovute a scorpori e incorpori ripetuti). Questo per poter nel tempo confrontare dati omogenei o quasi, ma prima facciamo un passo indietro per avere un quadro generale della situazione europea. 

Fra il '700 e l'800 assistiamo ad una crescita costante, sostenuta e irreversibile della popolazione europea che a fine 18° secolo ('700) conta  solo187 milioni di individui (140 nel 1750, 270 100 anni dopo cioè il doppio !!!) contro i 118 di inizio '700 quasi triplicata quando prima per raddoppiarsi ci volevano 400 anni.
- La popolazione inglese che alla metà del '700 non raggiungeva i 6 milioni al momento delle Guerre Napoleoniche era già ca. 9 !! milioni di abitanti che raddoppiavano entro il 1850 con la rivoluzione industriale.
- la Francia da 19 a 27 !!!!! (per questo Napoleone si sentiva in terra più forte coi suoi che erano tre volte tanto)
- l'Italia (quella intera della penisola (odierna)) da 11 a 17
- la Russia europea da 18 a 27. Praticamente spopolata: questa anche la debolezza avuta per secoli fino alla guerra di Crimea.

STATI UNITI D'AMERICA 1860    1880

Apro anche una finestra sulla nascente potenza industriale oltr'Atlantico che all'epoca dell'Unità d'Italia non è poi tanto più grande di noi. Già dal 1860 è metà di emigrazione italiana che si accentuerà dopo il 1880 - A mostrare con quale rapida progressione si sviluppò negli Stati Uniti la produzione dei principali prodotti che in quella regione danno largo contingente alla esportazione, riferiamo dall'American Papier il seguente prospetto (A SX) facendolo precedere come termine di comparazione dalle cifre dell'aumento della popolazione

Immigranti per gli Stati Uniti. - Il 27 luglio passato, scrive il Journal da Débats, giunsero a Nuoya York cinque piroscafi che vi sbarcarono 2278 immigranti. L'Abyssinia, proveniente da Liverpool, ne portò 268; il Canada, proveniente dall'Havre, 451 ; lo State of Indians, 151 ; íl Wisconsin, 947 ed il Circassio 461. Fra i passeggeri del Wisconsin vi erano un centinaio di reclute del mormonismo, che si accingevano a partire per la città del Lago Salato. I neofiti mormoni erano svedesi e norvegesi, ma vi erano pure alcuni inglesi e scozzesi. Le donne ed i bambini erano in maggioranza

Popolazione

31,443,321

48,500,000
Grano prodotto (staia) 173,104,924 440,000,000
> esportato (id.) 4,135,153 176,000,000
Granone prodot. (id.) 838,702,740  450,000,000
» esportato (id ) 3,314,305 100,000,000
Lana prodotta (libbre) 60,264,913 232,500,000
Cotone (balle) 4,823,770 5,675,000
Petrolio (barili)  500,000 19,741,661
Burro esport, (lib.)  7,640,914  38,248,015
Formag. esport. (lib.) 15,515,799 141,651,474


All'ultimo censimento del 2001 la popolazione totale italiana è praticamente di 57 milioni di individui (alla fine del 2009 in conseguenza della forte immigrazione e della relativa nuova neonatalità la popolazione totale supererà i 60 milioni: se ne saprà di più col censimento del 2011). Nel 1871 le città con più di 200.000 abitanti sono: Napoli (489), Milano (199), Palermo (219), Roma (242), Torino (212). Nel 1891, dopo 30 anni di unità d'Italia, la città più grande sarà ancora Napoli con 547.000, Milano -490-, Palermo -305-, Roma -424-, Torino -330-, Firenze (new entry) -200-. Vent'anni dopo, 1911, rileviamo: Napoli con 563.000, Milano -invariata-, Palermo -invariata-, Roma -464-, Torino -invariata-, Firenze invariata- Genova 235.000- Bologna 152.000 - Venezia 152.000 - Messina 150.000 - Catania 149.000. Dal confronto di questi ultimi dati si rileva che le città industriali hanno saturato la ricettività lavorativa e qualche spazio si è creato nelle città minori probabilmente legato ad attività tipiche locali, di commercio o agricolo. La differenza non è rimasta in campagna: da un testo scolastico di prima ginnasio si evince che la sola emigrazione "definitiva" non stagionale europea ha già raggiunto la cifra di 4 milioni!!! (vedi grafico a fondo pagina della concentrazione del dato fra il 1891 e il 1911). Lo si capisce anche dai mancati o insussistenti incrementi di Napoli e Palermo. La mortalità ha un picco statistico nel decennio 1911/1920 (comprensibilmente per la guerra) così come la natalità lo ha nel decennio successivo anche nell'ambito del progetto famiglia numerosa voluta da Mussolini. La natalità aveva già avuto picchi alla fine dell'ottocento e primo decennio del '900 in virtù delle scoperte, scientifiche, mediche e igieniche con un andamento sempre calante della mortalità infantile e delle puerpere e conseguente allungamento medio della vita. Ciò fu anche concausa delle grandi ondate migratorie che si ebbero a fine 800.

Da un annuario del 1890 rileviamo anche che gli italiani sono ca 31 milioni e gli aventi diritto al voto meno del 10% ma va a votare il 4,7% degli aventi diritto. I deficit dello stato italiano, salvo una breve parentesi (1875-1885) sono costantemente negativi. Contribuisce ancora in maniera rilevante al monte delle tasse (917 milioni) il Napoletano (con 217 milioni) Lombardia (132) Piemonte Liguria (147) Lazio (80) Toscana (79)... L'emigrazione è ancora un fenomeno ridotto e solo dal 1887 ha assunto rilevanza fuori dall'Europa e dal bacino mediterraneo passando da 82 mila unità verso le americhe a 204 mila annue.

Il quoziente di mortalità infantile ( bambini morti nel primo anno di vita) passa da 232 a 227 %° (per mille). Hanno diritto di voto i maschi sopra i 25 anni per censo e istruzione (elevata). Il numero degli elettori è pari a circa il 2% della popolazione (ca. 500.000 votanti). Vanno però a votare nel 1870 solo 241.000 persone (la metà) (Nel 1861 gli aventi diritto erano 420.000 e i votanti con voto valido 170.000 !!!). Dal 70 al 75% della popolazione è analfabeta con punte maggiori fra le donne (e gli uomini rurali) e nel Sud oltre l'80% (vedi schema sotto). Il reddito pro capite annuo postunitario è di 316 lire* (equiparabili a 1880 lire del 1938). Nel 1931 il reddito medio salirà a 2.884 lire/anno. La canzone che diceva "se potessi avere 1.000 lire al mese" rappresentava infatti un sogno, un traguardo non indifferente (oggi diremmo che neanche un operaio specializzato o un impiegato di ultimo livello ci arriva). Un altro dato che ci relegava agli ultimi posti dell'economia mondiale, quando allora i colossi erano Europei, era il prodotto interno lordo (Pil). Fatto 100 il Pil italiano per abitante, quello degli inglesi era 230 !!!, svizzeri a 200, olandesi e belgi a 180, francesi a 170. Per trovare  numeri più vicini a noi bisogna andare, sembrerà strano, in Germania non ancora baciata dal boom scientifico, industriale (o militare).  

*Nello Rosselli - Mazzini e Bakunin
.... Di qui la necessità di estendere il nostro esame ai prezzi dei generi di consumo, o almeno (poiché difettano, al solito, per questo periodo, statistiche precise, che rilevino la media dei prezzi sul mercato italiano) del principale genere di consumo…. Nel 1862 il prezzo medio del frumento era di L. 28,52 al quintale. A un operaio che guadagnasse L. 1,30 al giorno (e, per citare un esempio concreto, un operaio tessile) eran necessarie circa 22 giornate di lavoro per acquistare un quintale di frumento. Il consumo medio di frumento per abitante è stato calcolato, grosso modo, in kg 128 annuali (ndr poco). Ed è evidente che questo dato sarà superiore al vero per le classi agiate, inferiore – se pur di poco – per le classi lavoratrici, il cui alimento fondamentale e, in qualche caso (in quegli anni) quasi esclusivo è costituito appunto dal pane. Con tre persone a carico, quell’operaio doveva dunque lavorare circa 111 giorni per guadagnare le 145 lire necessarie al solo frumento per la famiglia! Se dunque dal salario annuo dell'operaio (per 300 giorni lavorativi, a L. 1,30 al giorno, L. 390) si detraggono L. 145 per il solo frumento, vien fatto di domandarsi in qual modo l'operaio avrà potuto provvedere alla casa, al companatico, al vestiario, alla luce (non elettrica), alle tante altre spese indispensabili. …1903-Bersaglieri alle carceri di Sanremo (Forte) Non bisogna poi dimenticare l'elevatissimo numero di donne impiegate nell'industria. Pietro Ellena accertava nel 1875 che nelle industrie seriche, su 200 393 operai, si contava il 60,10% di donne; nelle industrie laniere su 24 930 il 31,15%; nelle industrie del cotone su 54 041, il 50,53%; nelle industrie della carta su 17 318, il 41,27%27. Nel '62 troviamo donne che lavorano 10, 11, 12 ore con salari di 50, 60, 70 centesimi al giorno; massimo, in pochissimi casi raggiunto, L. 1,20, 1,25. Grandi masse di fanciulli d'ambo i sessi erano impiegati nelle fabbriche, nelle miniere, ovunque, senza alcun controllo, senza alcuna protezione legislativa. Sulla attività di qualche nucleo operaio (cappellai, tipografi, sarti, ecc.) che verranno anch'esse citate nel corso di questo lavoro seguo per questa ricerca il già citato Geisser. Un tentativo analogo, ma per gli anni seguenti al 1871, era già stato fatto in «Annali Stat. it.», Roma 1904, p. 360. Dalle cifre che ho sott'occhio ricavo appunto questo approssimativo salario medio per i tessili dell'alta Italia. Questo calcolo ha un valore soltanto approssimativo. Com'è noto, in molti luoghi d'Italia il granoturco sostituiva allora e sostituisce oggi in parte il frumento. Il granoturco nel 1862 costava L. 19,91 al quintale. Per quanto mi sappia, l'unico tentativo, grossolano fin che si vuole, ma pur sempre interessante, di ricostruire il bilancio operaio intorno al 1861 è quello che in vari numeri de «L'Unità italiana», Milano, dicembre 1861, fece Gaetano Perelli. Nei suoi articoli intitolati Alimenti degli operai, il Perelli prese a base un guadagno indice di 20 e ne calcolò così l'impiego: 8 per il vitto, 3 per la pigione, 3 per l'educazione dei figli, 3 per vestiti e spese di casa, 1 per spese straordinarie, 1 per risparmio, 1 per passatempi. Fissò a due lire il salario medio giornaliero degli operai, avvertendo che, in base alle sue ricerche, gli pareva di «avere esagerato in piu'». Dunque L. 600 all'anno; delle quali L. 240 ossia L. 0,65 al giorno venivano assorbite in spese per alimenti.  Le restanti 360 si suddividevano così: L. 90 per la pigione e per il vestiario; altrettante per l'educazione dei figli; 30 per spese straordinarie, 30 per risparmi e 30 per passatempi. Il calcolo del Perelli, interessante senz'altro perché compiuto da un contemporaneo, presenta evidenti difetti; arbitraria e inverosimile è la suddivisione delle spese nel bilancio, troppo elevato il salario assunto come medio; nonpertanto ci dà un'idea della realtà, che se mai pecca, a parer mio, di soverchio ottimismo.  Op. cit.; GEISSER e MAGRINI, op. cit., pp. 806-9. (ndr da considerare in funzione percentuale partendo dall'assunto di uno stipendio mensile che stava fra le 300 e le 400 lire)

Il saldo dei flussi migratori della tabella sottostante si invertirà solo in anni recenti (censimento 1981). Il periodo fascista non aveva come segno distintivo l'emigrazione, in parte assorbita da nostre colonie, da bonifiche e contrastata dal rifiuto degli Usa a ricevere nuovi immigrati (specialmente dopo il 1929). Si risviluppava parimenti la stagione dei lavori temporanei all'estero, con relativo ritorno stagionale, verso la Francia che era la meta più comune (per la falcidia di morti nella grande guerra) e verso l'alleata Germania che dopo aver assorbito 7 milioni di disoccupati (ante ascesa al potere di Hitler) ora era in deficit, in special modo alla vigilia del secondo conflitto (vedi scheda specifica http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/schede/volkswagen.htm . La statistica sottostante fotografa un andamento decrescente degli addetti alla agricoltura che va di pari passo con quello della popolazione attiva, che indica chiaramente un invecchiamento medio della popolazione. Oggi (fra parentesi il dato vecchio) i giovani sotto i 14 anni sono quasi il 14 % (contro il 32) del totale e gli anziani sopra i 65 quasi il 20% (contro l'8).

La cantieristica passa da 56 unità produttive al momento dell'Unità per 92 dopo la presa di Roma per ridursi a 39 nel 1889 con 11 mila tonn. di stazza totali quando si era arrivati anche a 96 nel 1869. E' una debacle che durerà nel tempo quando i nostri diretti competitori ne costruivano- Inglesi 804 mila, Usa 23, Francia 32.

La forza armata post unitaria e post riforma 1875 portò il totale dei mobilitabili a ca 3 milioni (si contano classi di cittadini dal 20esimo anno al 39 esimo) così divisi al 1890: sotto le armi nell'esercito 263 mila uomini, riserva 580 - Milizia mobile in congedo della Sardegna 372, Milizia territoriale in congedo o fuori servizio 1.631.
 

Composizione demografica 2006 stimata
0-14 anni: 13,8% (maschi 4.147.149/femmine 3.899.980)
15-64 anni: 66,5% (maschi 19.530.512/femmine 19.105.841)
da 65 in su: 19,7% (maschi 4.771.858/femmine 6.678.169 !!!)

Aspettative di vita a fine secolo XIX (800)
Durata media della vita in Svezia e Norvegia 50 anni,
Inghilterra 45, Italia 39, Romania 35, Spagna 32 !!!

Prima che le statistiche ufficiali del regno registrassero i censimenti decennali e le loro variazioni s'era avuto al nord, ma in parte anche al centro e al sud, un incremento demografico non rispondente alla teoria maltusiana (Thomas R. Malthus 1766/1834  http://it.wikipedia.org/wiki/Rapporto_sui_limiti_dello_sviluppo ) che sosteneva la crescita demografica non essere una ricchezza per lo stato*, (come credeva la maggior parte degli studiosi http://www.csiro.au/files/files/plje.pdf  IL CLUB DI ROMA) bensì l'inverso per il fatto che tra le altre cose Malthus sosteneva basilarmente:
Mentre la crescita della popolazione è geometrica, quella dei mezzi di sussistenza è solo aritmetica
Le classi lavoratrici tendono a reagire a un miglioramento del tenore di vita e quindi in un aumento della procreazione.
•Il rendimento dei terreni tende a decrescere con la messa a coltura di terre non adatte alla coltivazione.

Tutto ciò può portare, secondo Malthus, a un progressivo impoverimento della popolazione. Quando si arrivava infatti al limite delle risorse alimentari, si scatenava la mortalità per fame e guerre, nonché per malattie e il ciclo ricominciava. Un fattore non secondario dell'aumento che di fatto divideva le epoche storiche in quelle lente e in quelle a sviluppo demografico veloce (quella passata ormai per l'Europa e quindi noi siamo nella terza fase) era la diminuzione della mortalità infantile e quella per epidemie, la più grave delle quali era la peste, poi colera etc.. Per contrastare la miseria sono efficaci solo i "freni preventivi" (come il posticipo dell'età matrimoniale e la castità prematrimoniale) e i "freni repressivi" (come le guerre e le carestie) ampiamente sperimentati nel '700 ma non solo. M. Livi Bacci disse che  crescita demografica e crescita economica, anziché essere antagoniste si sostenevano a vicenda.

Naturalmente la teoria elaborata da Malthus a inizio '800 è "datata" e invecchierà quando interverrà la grande industrializzazione, la chimica moderna, l'agricoltura "spinta", la rivoluzione delle fonti energetiche (carbone (in parte perché lo si conosceva da secoli) petrolio, gas, nucleare) ed altre cose che per converso porteranno in 100 anni all'inquinamento, ai cambiamenti climatici, alle grandi migrazioni, all'esaurimento delle fonti energetiche, al saccheggio della fauna marina, all'impoverimento delle terre ed altre cose che la generazione attuale continua ad ignorare o non vuol sentirsi dire per non assumersi la responsabilità verso le generazioni future !!!. Si potrebbe dire "ride bene chi ride ultimo"

"Dove troveremo tutto il pane" di Giorgio Nebbia http://www.greencrossitalia.it/ita/news/politiche/news_028_p.htm

Doveva essere proprio arrabbiato Malthus nel 1803 quando, nella seconda edizione del suo “saggio”, scrisse: «Un uomo che nasce in un mondo già posseduto da altri, se non può avere i mezzi di sussistenza dai suoi genitori a cui ha diritto di chiederli, e se la società non ha bisogno del suo lavoro, non ha nessun diritto di chiedere neanche una piccola porzione di cibo e, infatti, non ha neanche motivo di esserci in un tale mondo. Al pur abbondante banchetto della natura non c’è un posto vuoto per lui. La natura gli dice di andarsene, e eseguirà presto i suoi ordini, se egli non può contare sulla compassione di qualcuno dei commensali. E se qualcuno dei commensali si alza e gli lascia il suo posto, altri esclusi si faranno avanti subito per chiedere lo stesso favore e di conseguenza ben presto la sala del banchetto sarà piena di postulanti. L’ordine e l’armonia del banchetto saranno disturbati, l’abbondanza che prima era presente si trasforma in scarsità e la felicità degli ospiti è distrutta dallo spettacolo della miseria e dalla fame presenti in tutti gli angoli della sala e dal rumoroso disturbo di coloro che sono giustamente arrabbiati perché non trovano il cibo che gli era stato detto di aspettarsi. Gli ospiti si accorgono troppo tardi del loro errore di non aver fatto rispettare il preciso ordine di escludere tutti i nuovi richiedenti, impartito dalla grande regina del banchetto, la quale, volendo assicurare l’abbondanza per tutti i suoi ospiti e sapendo che non ne può sfamare un numero illimitato, umanamente si rifiuta di ammettere nuovi arrivati quando il banchetto è già pieno».
Curiosamente, la dura frase dell’esclusione dei poveri dal “nature’s mighty feast” è quella che tutti gli avversari di Malthus citano, dimenticando che deve essere sembrata una sortita troppo grossa allo stesso Malthus che la tolse in tutte le edizioni successive. Poche opere hanno suscitato polemiche come il “saggio” di Malthus e ancora oggi sono attivi e litigiosi i due grandi partiti, quello dei cornucopiani, sostenitori del progresso in un mondo con una popolazione numerosa, felice e ricca di beni, alla Condorcet, e quello dei malthusiani o neomalthusiani i quali sostengono che le risorse della Terra sono grandi, ma non illimitate, e che il continuo aumento della popolazione terrestre comporta un impoverimento delle risorse disponibili per le generazioni future. Le principali motivazioni dei militanti dei due partiti sono bene riassunti in un libro dell’americano J.E. Cohen, How many people can the Earth support?, New York, Norton, 1995 (in Italia “Quante persone possono vivere sulla Terra?”, il Mulino, Bologna, 1998).


Il cordone sanitario a protezione delle menzogne non incontra ostacoli ed è trasversale, dalla politica, all'impresa e alle religioni. Il dato italiano si discostava allora dalla teoria nella parte in cui questa prevedeva un incremento demografico pur in mancanza di una industrializzazione che da noi non era ancora cominciata se non marginalmente nella prima metà dell’800 ed in poche località. A titolo esemplificativo citiamo un recente studio sull’economia agricola emiliana di pianura dell’800.
Negli stati parmensi la popolazione extra-urbana fra il 1820 e il 1847 era salita da 215.790 a 255.600 unità. Nel circondario di Lugo (stati della Chiesa) la popolazione passa invece dai 46.355 abitanti del 1811 ai 60.282 abitanti del 1853, con un aumento percentuale che arriva al 30 % !!!. Nell'area Centese l'aumento è ancora più accentuato, pari al 39,5 %. Il comune di Ravenna conta nel 1853 ben 17.116 abitanti in più rispetto al 1811. In alcuni comuni (Cento) la densità demografica era ormai a 154 ab./kmq
Ma se la terra è sempre quella e le nuove terre sono inadatte come si sosteneva un aumento demografico che ancora non trovava sfogo nell’emigrazione. Per quanto riguarda l’area indicata alcune coincidenze fortunate avevano fatto si che una coltivazione, il riso, si espandesse oltre l’oggi noto. La coltivazione aveva conosciuto una rapida affermazione in età napoleonica grazie alla favorevole congiuntura creatasi col blocco continentale attuato dagli inglesi (successe anche con la barbabietola da zucchero). In Emilia Romagna erano state destinate al riso vaste zone paludose e vallive del Parmense, del Reggiano e soprattutto del Bolognese e della Romagna. La risaia aveva valorizzato in poco tempo, moltiplicandone smisuratamente la rendita, diverse migliaia di ettari di paludi, per gran parte possedute dall'aristocrazia terriera o da enti religiosi e morali. Molti di questi proprietari, sia in proprio, sia per il tramite di affittuari, avevano attuato gli investimenti necessari per trasformare in risaie appezzamenti poco produttivi e talvolta spingendosi fino al punto di distruggere terreni già appoderati e affidati a coloni per il secco. scioperi nelle cittàGrazie ai buoni prezzi spuntati dal riso, soprattutto all'indomani dell'unità nessuno voleva seguire il dettame della bonifica attuata si diceva per problemi sanitari (malaria). Sulla questione delle risaie s'era discusso nei congressi degli scienziati italiani di Firenze (1841), Padova (1842) e Lucca (1843) . Nell’agro ravennate non v'era stato aumento di febbri malariche, bensì crescita dei salari e del benessere; tuttavia si dovevano migliorare le condizioni igieniche personali e abitative dei lavoratori, emanare leggi contro lo sfruttamento dei fanciulli e delle donne, istituire una magistratura di controllo delle condizioni del lavoro. Dalle risaie i padroni ricavavano infatti, sia con la coltivazione del riso, sia con il taglio periodico dello strame di valle , cospicue rendite col minimo investimento di capitale, senza contare che minima era anche l'incidenza dell'imposta fondiaria applicata a quel tipo di terreni. Nel periodo di massima espansione della risaia la fascia territoriale di bassa pianura che si stende a destra del fiume Reno vide investiti a coltivazione umida oltre 18.000 ettari. Nel Parmense, nonostante le rigide disposizioni dell'autorità sanitaria, la risaia era riuscita ad espandersi - triplicando la superficie - tra il 1850 e il 1857 . Nella Bassa modenese la risicoltura occupava nel 1847 ben 4.353 ettari, concentrati nei comuni di Nonantola, Finale e Carpi. Sul piano sociale la coltivazione umida produsse effetti vistosi e talora sconvolgenti. Ogni ettaro a risaia assorbiva mediamente 175 giornate lavorative all'anno, contro le 93 di una normale coltivazione asciutta. Ma ai fini dell'occupazione agricola la risicoltura era tanto più vantaggiosa in quanto concentrava le operazioni colturali in periodi nei quali era ridotta l'attività dedicata alle altre produzioni agricole: oltre alla preparazione dei terreni nei mesi autunno- invernali, il ciclo produttivo del riso impegnava grandi masse di lavoratori nei mesi di maggio-giugno per la roncatura e di settembre ottobre per i raccolti, rispettivamente prima e dopo le operazioni colturali del grano e di altre sarchiate. La risaia veniva dunque a modificare sensibilmente, per vaste aree della pianura, il calendario del lavoro agricolo. Consentiva all'economia, poderale di liberare la "disoccupazione occulta" e di impiegare all'esterno del podere la mano d'opera eccedente. Ma non solo questo. Con la risaia il mercato del lavoro giornaliero veniva dilatato a dismisura in quanto, per la prima volta, anche donne e fanciulli passavano da una condizione di forza-lavoro ausiliaria e "nascosta" nelle pieghe dell'economia familiare ad una condizione di forza-lavoro effettiva, "libera" e per giunta a bassissimo costo. Contraltare di questa organizzazione una mutazione dei costumi sociali e morali e dei poteri all’interno del nucleo familiare, a cui sia aggiunsero le prime lotte sociali per la tutela del lavoratore allo scoppiare della crisi. Perché, come si direbbe oggi, anche qui arrivò la globalizzazione col crollo delle quotazioni dei cereali (Mais, Frumento, Riso, -30%). Dai 2,5 milioni di quintali di grano importati nel 1879/83 si passò a 7 milioni. Se all’epoca dell’unità praticamente non si importava riso già nel 1874 si sale a 20.000 tonnellate, 5 anni dopo a 53.000 !! e dieci anni dopo (1884) 94.000 !!!! tonn. Molinella, Budrio, Medicina, Conselice, Malalbergo e altri comuni della bassa pianura bolognese-ravennate conobbero per primi e mantennero per lungo tempo il primato nelle agitazioni agrarie, negli scioperi per miglioramenti salariali, nelle richieste di lavori pubblici per alleviare la disoccupazione. Poi fu  solo emigrazione, come si evidenzia nelle statistiche sopra, per quasi 50 anni (fino al periodo fascista). Se la teoria di Malthus zoppicava, una variabile indipendente, checche ne dica il Papa oggi che asserisce che le risorse sono infinite, le risorse hanno un padrone e così c’è il padrone del petrolio, del tal metallo prezioso, del grano, del riso etc.. con un altra variabile indipendente che sono le condizioni climatiche. Da tutto questo abbiamo escluso, ma non per questo assente, la conflittualità (guerre, rivoluzioni) che operavano già nel passato ma con minore impatto.

La riduzione dell'area investita a riso fu drastica in tutte le province risicole della padania centro orientale: già nel 1879-83 la coltivazione umida aveva perduto 17.834 ettari rispetto al periodo 1870/74 nelle province dove dominava la risaia stabile e cioè Mantova, Verona, Rovigo, Ferrara, Bologna e Ravenna. Per quanto riguarda le risaie emiliane il declino fu rapido e inarrestabile: dai 24.462 ettari del 1870/74 si era scesi a 18.656 ettari nel 1879/83, ai 15.690 ettari del 1890/94 ai 10.090 del 1901/6. Le grandi bonifiche del Ferrarese avevano avuto il massimo impulso fra il 1872 e il 1878 ma agli inizi del decennio successivo i privati e i consorzi promotori si ritrovavano già in gravi difficoltà finanziarie e invocavano l 'aiuto dello stato. La spesa statale in opere pubbliche, anziché aumentare, stava paurosamente riducendosi proprio mentre più acuto si faceva il disagio sociale provocato dalla crisi. La spesa complessiva del ministero dei lavori pubblici passò dai 356 milioni di lire dell'esercizio finanziario 1887/88 ai 129 milioni del 1894/95 , a 89 milioni nel 1895/96 per attestarsi poi al di sotto degli 80 milioni annui fino all'esercizio 1902/3 .
* la ricchezza per lo stato era la carne da cannone da schierare nelle nuove guerre nazionali.

Negli esordi dello Stato italiano  c’erano una infinità di "patrioti benemeriti" della «causa», di «vittime» di cessati governi, più o meno autentici, da ricompensare, da sistemare (nella storia le storie si ripetono sempre all'infinito ed ogni volta le persone si stupiscono)

Stralcio da “Memorie di un prefetto”, casa editrice Mediterranea, Roma, 1946.di Amedeo Nasalli Rocca
Mio nonno era stato aiutante di campo di Carlo Alberto; il fratello di mia madre, il conte Carlo, era stato pure aiutante di campo di Vittorio Emanuele II nel 1860. I miei due fratelli, Stanislao (Bersaglieri) e Saverio (Futuro Generale nella Grande Guerra), avevano intrapreso, o stavano per intraprendere la stessa carriera ...La disciplina dell’ammissione agli impieghi era, negli esordi dello Stato italiano, alquanto confusa: c’erano una infinità di patrioti benemeriti della «causa», di «vittime» di cessati governi, più o meno autentici, da ricompensare, da sistemare, da contentare; alcuni veramente degni di rispetto e di considerazione, altri no, ma sostenuti da più o meno confessabili protezioni settarie; alcuni uomini di valore, altri inetti ed ignorantissimi. Tutti i ministeri erano pieni di patrioti; specialmente quello degli interni, negli uffici di polizia, delle carceri e delle prefetture, e quello della Pubblica Istruzione, che aveva fornito cattedre a tutti i preti e frati stonacati.
Il mio professore di economia politica all’università di Parma, altro «patriota », aveva ottenuto la cattedra in un modo alquanto strano. Era violinista di professione; un giorno vide esposto sulla banca di un libraio ambulante un volumetto che attirò la sua attenzione: «Le armonie economiche» del Bastiat. Credendo che trattasse di musica, lo comprò, se lo lesse con cura, ed essendo di vivace ingegno si interessò delle teorie anti comuniste del vecchio maestro, tanto che cominciò a parlarne con gli amici in ogni occasione, in modo che si diffuse l’opinione che egli fosse un profondo conoscitore di materie economiche; ciò bastò per farlo nominare senz’altro professore universitario di Economia Politica. Però gli studenti dicevano che, invece di lezioni di economia, egli facesse economia di lezioni.
Anche il mio primo Prefetto a Piacenza, il comm. Papa, aveva fama d’essere un «martire della causa», perché, mentre aveva servito malamente i Borboni a Napoli - sospettato di liberalismo - ne aveva avuto qualche rabbuffo, che poi - caduto il regno - gli aveva fruttato dal nuovo governo stima e promozioni. Era un inetto e un palese ignorante, ma un brav’uomo e non faceva altro, in ufficio, che raccontare agli impiegati barzellette del tempo di «chillo», e cioè del Borbone.  Lo scrivere non era affar suo, e lo sapeva. Quando le circostanze lo obbligavano a metter fuori la sua letteratura, erano guai: veniva fuori una prosa tale che io, per incarico del buon consigliere delegato Cav. Sarti, dovevo sforzarmi di aggiustare alla meglio con correzioni e raschiature, imitando la grossa scrittura del Papa. Una volta egli preparò di suo pugno una quarantina di proposte per la nomina di sindaci, che allora veniva fatta con decreto reale; e tutte finivano con formule di questo stampo: «Propongo di essere fatto sindaco di X il tale»; oppure: «Parmi che convenisse che fosse fatto...»... Non posso dispensarmi dall’osservare che, mentre io, d’intesa con il Cav. Sarti, lavoravo come un certosino per dare forma umana alla prosa del mio capo, probabilmente in tempi meno antichi altri al nostro posto avrebbero goduto nel mandare a Roma, tal quali, autentici documenti dell’insipienza del prefetto di Piacenza. Ma l’onesto comm. Papa durò poco nella sua carica. Quando nel 1876 salì al potere la «sinistra» parlamentare, il Papa, che della «destra» era stato sempre fedele quanto poco avveduto strumento, non capì che i tempi erano mutati. Essendogli state richieste dal nuovo Ministero notizie sulle prossime elezioni generali, rispose che Piacenza non avrebbe mai mandato al parlamento uomini di «sinistra »! E fu collocato a riposo.

Così va il mondo e così andava e andrà.

Ma i problemi dell'emigrazione non erano solo nostri: anche altri Italiani a noi vicini, sotto l'Impero Austriaco si dibattevano da anni in questo flusso migratorio che solo qualche volta vedeva il ritorno. Oggi difende la nazionalità "Italiana" di questi la onlus http://www.trentininelmondo.it/  Da "IL TRENTINO" Monografia di Cesare Battisti De Agostini 1915 …. EMIGRAZIONE-

La popolazione del Trentino ebbe nel primo sessantennio del secolo scorso (1800/1860) un graduale aumento, corrispondente all' incremento naturale annuo della popolazione. L'emigrazione era praticata solo dalle popolazioni alpestri e in misura assai limitata. Era un'emigrazione specializzata, di pochi e non numerosi gruppi professionali, degli arrotini (moleti) di Rendena, degli spazzacamini di Val di Non o del Banale, dei calderai (parolòti) di Val di Sole, dei segatori (segantini) giudicariesi, dei carbonai di Val Vestino, ecc .. Il paese era insomma in grado di mantenere tutti i suoi figli. Ma sopravvenuto il distacco dall'Àustria della Lombardia e della Venezia, il Trentino, che era una fiorente regione industriale, subì una enorme crisi economica, poiché i suoi prodotti (e i suoi servizi) trovavano sfogo solo o in gran parte verso il mezzogiorno. Le nove barriere doganali e l'impossibilità di trovare nell'interno della monarchia, per ragioni geografiche e politiche, campi adatti di smercio, segnarono il crollo dell' industria trentina. Ne subì di contraccolpo una scossa anche l'agricoltura, in buona parte unita all'industria. Si aggiunsero, fra il 1870 e 1890, terribili calamità: le malattie del gelso e della vite, le inondazioni, e, come non bastassero le calamità di natura, lo sgoverno provinciale e la trascuranza assoluta dello Stato, sempre disposto a sacrificare le nazionalità meno numerose alle maggiori.
L'emigrazione si impose come una triste necessità, le Americhe ospitarono stabilmente decine e decine di migliaia di trentini. Il paese non solo perdette l'incremento naturale annuo della popolazione, rispondente a circa, il 9 per mille, ma costrinse all'esilio un numero maggiore dei suoi figli. Dal 1880 al 1890 la popolazione complessiva del Trentino diminuì da 351689 a 349203. Nel 1900 era (ri)salita a 360179 e nel 1910 a 386437. Indizio questo di un piccolo miglioramento economico sopravvenuto. Con l'aumento dell'ultimo decennio il paese non è per anco arrivato a mantenere tutto l'aumento naturale della popolazione. Il fenomeno migratorio persiste quindi, in proporzioni ancora altissime (circa il 6 % della popolazione), per quanto possa ritenersi ridotto della metà in confronto di quanto era quindici o venti anni addietro. L'emigrazione è ora in prevalenza continentale, verso regioni tedesche (o altre europee); di emigrazione permanente non vi è più traccia. Anche quelli che si dirigono nelle Americhe tornano dopo pochi anni. I distretti dove l'emigrazione fu maggiore in passato, e lo è tutt'ora, sono quelli alpestri. Una statistica del 1911 ci offre i seguenti dati (probabilmente solo di quell'anno). Metà degli emigrati oltreoceano (3.150 prevalentemente nel Sud America)) è dato da due distretti o capitanati Cles e Tione, mentre l'emigrazione europea (19.300) sempre Cles e Tione con l'aggiunta di Cavalese e Borgo che costituiscono i 2/3 del tutto.
IMMIGRAZIONE.(fenomeno inverso) Nel Trentino immigrano annualmente, dalla primavera all'autunno, circa 2000 operaie bellunesi, che si dedicano alla lavorazione della terra. Vengono dal Regno (Italia) inoltre quasi tutti gli operai (circa 1000) addetti alle fabbriche di cemento, calce e laterizi. Certe professioni (barbieri, sarti e in minor numero fabbri) sono esercitate quasi esclusivamente da regnicoli (Si tratta in questo caso di specializzazioni o come si direbbe oggi di manodopera d'eccellenza che per varie ragioni storiche ed etniche non aveva mai trovato implemento o iniziativa d'impresa nel Tirolo austriaco la cui edilizia era quasi esclusivamente basata sul legno. Oggi anche per la professione descritta (sarti) potremmo parlare di uno stile italiano antelitteram).

Ndr: come dice sopra Battisti dello "sgoverno" provinciale e nazionale, Vienna tendeva ad ignorare il fenomeno per non apparire o far apparire l'impero come uno stato povero (come in effetti era vivendo sullo sfruttamento delle nazionalità diverse). Il governo di Vienna chiamato a firmare convenzioni per l'istituzione di consolati, per facilitare pratiche e corrispondenza con i parenti rimasti al paese rispose sempre no. La popolazione del Trentino nelle statistiche governative del 1910 è nella sua quasi totalità italiana. Su 377039 cittadini di diritto (cioè cittadini austriaci), 360938 sono italiani, 13477 tedeschi, 2624 d'altra lingua.

 

                              

   


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