Le
statistiche Italiane dal
primo censimento del 1861 |
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el censimento del
1861, la
popolazione maschile supera di mezzo milione quella femminile (la mortalità per
parto falcidiava il genere, nati vivi 950.000 -37,6 °% morti 762.000
30,4°%) per un totale stimato di ca 26,3 milioni di Italiani. I giovani sotto i
14 anni sono il 32% del totale e gli anziani sopra i 60 solo l'8% (questo anche per la bassa durata media della vita vedi in
fondo). I giovani sono
quindi 4
volte gli anziani. La popolazione rurale è il 68,5% del totale e 10 anni dopo
sarà calata solo di 1 punto (resto 20% in industria e 13 nei servizi). Per popolazione
totale al 1861 si intende anche quella che entrerà a far parte
successivamente dello stato italiano (Veneto, Lazio, Trentino, Trieste) o per dirla
breve quella che è oggi entro i confini (fatte salve piccolissime differenze dovute a scorpori e incorpori ripetuti).
Questo per poter nel tempo confrontare dati omogenei o quasi, ma prima
facciamo un passo indietro per avere un quadro generale della situazione
europea.
Fra il '700 e l'800 assistiamo ad una
crescita costante, sostenuta e irreversibile della popolazione europea
che a fine 18° secolo ('700) conta solo187 milioni di individui (140 nel
1750, 270 100 anni dopo cioè il doppio !!!) contro i 118 di inizio '700
quasi triplicata quando prima per raddoppiarsi ci volevano 400 anni.
- La popolazione inglese che alla metà del '700 non raggiungeva i 6
milioni al momento delle Guerre Napoleoniche era già ca. 9 !!
milioni di abitanti che raddoppiavano entro il 1850 con la rivoluzione
industriale.
- la Francia da 19 a 27 !!!!! (per questo Napoleone si sentiva in terra
più forte coi suoi che erano tre volte tanto)
- l'Italia (quella intera della penisola (odierna)) da 11 a 17
- la Russia europea da 18 a 27. Praticamente spopolata: questa anche la
debolezza avuta per secoli fino alla guerra di Crimea.
STATI
UNITI D'AMERICA |
1860 |
1880 |
Apro anche una finestra sulla nascente
potenza industriale oltr'Atlantico che all'epoca dell'Unità d'Italia
non è poi tanto più grande di noi. Già dal 1860 è metà di emigrazione
italiana che si accentuerà dopo il 1880 -
A mostrare con quale rapida
progressione si sviluppò negli Stati Uniti la produzione dei principali
prodotti che in quella regione danno largo contingente alla
esportazione, riferiamo dall'American Papier il seguente prospetto
(A SX) facendolo precedere come termine di comparazione dalle cifre
dell'aumento della popolazione
Immigranti per gli Stati Uniti. - Il 27 luglio passato, scrive il
Journal da Débats, giunsero a Nuoya York cinque piroscafi che vi
sbarcarono 2278 immigranti. L'Abyssinia, proveniente da Liverpool, ne
portò 268; il Canada, proveniente dall'Havre, 451 ; lo State of Indians,
151 ; íl Wisconsin, 947 ed il Circassio 461. Fra i passeggeri del
Wisconsin vi erano un centinaio di reclute del mormonismo, che si
accingevano a partire per la città del Lago Salato. I neofiti mormoni
erano svedesi e norvegesi, ma vi erano pure alcuni inglesi e scozzesi.
Le donne ed i bambini erano in maggioranza |
Popolazione |
31,443,321 |
48,500,000 |
Grano prodotto (staia) |
173,104,924 |
440,000,000 |
> esportato (id.) |
4,135,153 |
176,000,000 |
Granone prodot. (id.) |
838,702,740 |
450,000,000 |
» esportato (id ) |
3,314,305 |
100,000,000 |
Lana prodotta (libbre) |
60,264,913 |
232,500,000 |
Cotone (balle) |
4,823,770 |
5,675,000 |
Petrolio (barili) |
500,000 |
19,741,661 |
Burro esport, (lib.) |
7,640,914 |
38,248,015 |
Formag. esport. (lib.) |
15,515,799 |
141,651,474 |
All'ultimo censimento del
2001 la popolazione totale italiana è praticamente di 57 milioni di individui (alla
fine del 2009 in conseguenza della forte immigrazione e della relativa
nuova neonatalità la popolazione totale supererà i 60 milioni: se ne saprà
di più col censimento del 2011). Nel
1871 le città con più di 200.000 abitanti sono: Napoli (489), Milano (199),
Palermo (219), Roma
(242), Torino (212). Nel 1891,
dopo 30 anni di unità d'Italia, la città più grande sarà ancora
Napoli con 547.000, Milano
-490-,
Palermo -305-, Roma -424-, Torino -330-,
Firenze (new entry) -200-. Vent'anni dopo, 1911, rileviamo:
Napoli con 563.000, Milano
-invariata-,
Palermo -invariata-, Roma -464-, Torino -invariata-,
Firenze invariata- Genova 235.000- Bologna 152.000 - Venezia 152.000 -
Messina 150.000 - Catania 149.000. Dal confronto di questi ultimi dati
si rileva che le città industriali hanno saturato la ricettività
lavorativa e qualche spazio si è creato nelle città minori probabilmente
legato ad attività tipiche locali, di commercio o agricolo. La differenza
non è rimasta in campagna: da un testo scolastico di prima ginnasio si
evince che la sola emigrazione "definitiva" non stagionale europea ha già
raggiunto la cifra di 4 milioni!!! (vedi grafico a fondo pagina della
concentrazione del dato fra il 1891 e il 1911). Lo si capisce anche dai
mancati o insussistenti incrementi di Napoli e Palermo. La mortalità ha un picco
statistico nel decennio 1911/1920 (comprensibilmente per la guerra) così come la natalità lo ha
nel decennio successivo anche nell'ambito del progetto famiglia numerosa voluta
da Mussolini. La natalità aveva già avuto picchi alla fine dell'ottocento
e primo decennio del '900 in virtù delle scoperte, scientifiche, mediche e igieniche con
un andamento sempre calante della mortalità infantile e delle puerpere e
conseguente allungamento medio della
vita. Ciò fu anche concausa delle grandi ondate migratorie che si ebbero a fine 800.
Da un annuario del 1890 rileviamo anche
che gli italiani sono ca 31 milioni e gli aventi diritto al voto meno
del 10% ma va a votare il 4,7% degli aventi diritto. I deficit dello
stato italiano, salvo una breve parentesi (1875-1885) sono costantemente
negativi. Contribuisce ancora in maniera rilevante al monte delle tasse
(917 milioni) il Napoletano (con 217 milioni) Lombardia (132) Piemonte
Liguria (147) Lazio (80) Toscana (79)... L'emigrazione è ancora un
fenomeno ridotto e solo dal 1887 ha assunto rilevanza fuori dall'Europa
e dal bacino mediterraneo passando da 82 mila unità verso le americhe a
204 mila annue. |
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Il quoziente di mortalità infantile ( bambini morti nel primo anno di vita)
passa
da 232 a 227 %° (per mille). Hanno diritto di
voto i maschi sopra i 25 anni per censo e istruzione (elevata). Il numero degli elettori
è pari a circa il 2% della popolazione (ca. 500.000 votanti). Vanno però a votare nel 1870 solo 241.000
persone (la metà) (Nel 1861 gli aventi diritto erano 420.000 e i votanti con voto valido 170.000
!!!). Dal 70 al 75% della popolazione è analfabeta con punte maggiori fra le
donne (e gli uomini rurali) e nel Sud oltre l'80% (vedi schema sotto). Il reddito pro capite annuo postunitario è di 316 lire* (equiparabili a
1880 lire del 1938). Nel 1931 il reddito medio salirà a 2.884 lire/anno.
La canzone che diceva "se potessi avere 1.000 lire al mese"
rappresentava infatti un sogno, un traguardo non indifferente (oggi diremmo che neanche un
operaio specializzato o un impiegato di ultimo livello ci arriva).
Un altro dato che ci relegava agli ultimi posti
dell'economia mondiale, quando allora i colossi erano Europei, era
il prodotto interno lordo (Pil). Fatto 100 il Pil italiano per abitante,
quello degli inglesi era 230 !!!, svizzeri a 200, olandesi e
belgi a 180, francesi a 170. Per trovare numeri più vicini a noi
bisogna andare, sembrerà strano, in Germania non ancora baciata dal boom
scientifico, industriale (o militare).
*Nello
Rosselli - Mazzini e Bakunin
.... Di qui la necessità di estendere il nostro esame ai prezzi dei
generi di consumo, o almeno (poiché difettano, al solito, per questo
periodo, statistiche precise, che rilevino la media dei prezzi sul
mercato italiano) del principale genere di consumo…. Nel 1862 il prezzo
medio del frumento era di L. 28,52 al quintale. A un operaio che
guadagnasse L. 1,30 al giorno (e, per citare un esempio concreto, un
operaio tessile) eran necessarie circa 22 giornate di lavoro per
acquistare un quintale di frumento. Il consumo medio di frumento per
abitante è stato calcolato, grosso modo, in kg 128 annuali (ndr poco).
Ed è evidente che questo dato sarà superiore al vero per le classi
agiate, inferiore – se pur di poco – per le classi lavoratrici, il cui
alimento fondamentale e, in qualche caso (in quegli anni) quasi
esclusivo è costituito appunto dal pane. Con tre persone a carico,
quell’operaio doveva dunque lavorare circa 111 giorni per guadagnare le
145 lire necessarie al solo frumento per la famiglia! Se dunque dal
salario annuo dell'operaio (per 300 giorni lavorativi, a L. 1,30 al
giorno, L. 390) si detraggono L. 145 per il solo frumento, vien fatto di
domandarsi in qual modo l'operaio avrà potuto provvedere alla casa, al
companatico, al vestiario, alla luce (non elettrica), alle tante altre
spese indispensabili. … Non bisogna poi dimenticare l'elevatissimo
numero di donne impiegate nell'industria. Pietro Ellena accertava nel
1875 che nelle industrie seriche, su 200 393 operai, si contava il
60,10% di donne; nelle industrie laniere su 24 930 il 31,15%; nelle
industrie del cotone su 54 041, il 50,53%; nelle industrie della carta
su 17 318, il 41,27%27. Nel '62 troviamo donne che lavorano 10, 11, 12
ore con salari di 50, 60, 70 centesimi al giorno; massimo, in pochissimi
casi raggiunto, L. 1,20, 1,25. Grandi masse di fanciulli d'ambo i sessi
erano impiegati nelle fabbriche, nelle miniere, ovunque, senza alcun
controllo, senza alcuna protezione legislativa. Sulla attività di
qualche nucleo operaio (cappellai, tipografi, sarti, ecc.) che verranno
anch'esse citate nel corso di questo lavoro seguo per questa ricerca il
già citato Geisser. Un tentativo analogo, ma per gli anni seguenti al
1871, era già stato fatto in «Annali Stat. it.», Roma 1904, p. 360.
Dalle cifre che ho sott'occhio ricavo appunto questo approssimativo
salario medio per i tessili dell'alta Italia. Questo calcolo ha un
valore soltanto approssimativo. Com'è noto, in molti luoghi d'Italia il
granoturco sostituiva allora e sostituisce oggi in parte il frumento. Il
granoturco nel 1862 costava L. 19,91 al quintale. Per quanto mi sappia,
l'unico tentativo, grossolano fin che si vuole, ma pur sempre
interessante, di ricostruire il bilancio operaio intorno al 1861 è
quello che in vari numeri de «L'Unità italiana», Milano, dicembre 1861,
fece Gaetano Perelli. Nei suoi articoli intitolati Alimenti degli
operai, il Perelli prese a base un guadagno indice di 20 e ne calcolò
così l'impiego: 8 per il vitto, 3 per la pigione, 3 per l'educazione dei
figli, 3 per vestiti e spese di casa, 1 per spese straordinarie, 1 per
risparmio, 1 per passatempi. Fissò a due lire il salario medio
giornaliero degli operai, avvertendo che, in base alle sue ricerche, gli
pareva di «avere esagerato in piu'». Dunque L. 600 all'anno; delle quali
L. 240 ossia L. 0,65 al giorno venivano assorbite in spese per alimenti.
Le restanti 360 si suddividevano così: L. 90 per la pigione e per il
vestiario; altrettante per l'educazione dei figli; 30 per spese
straordinarie, 30 per risparmi e 30 per passatempi. Il calcolo del
Perelli, interessante senz'altro perché compiuto da un contemporaneo,
presenta evidenti difetti; arbitraria e inverosimile è la suddivisione
delle spese nel bilancio, troppo elevato il salario assunto come medio;
nonpertanto ci dà un'idea della realtà, che se mai pecca, a parer mio,
di soverchio ottimismo. Op. cit.; GEISSER e MAGRINI, op. cit.,
pp. 806-9. (ndr da considerare in funzione percentuale partendo
dall'assunto di uno stipendio mensile che stava fra le 300 e le 400
lire)
Il saldo dei flussi migratori della tabella
sottostante si
invertirà solo in anni recenti (censimento 1981). Il periodo fascista
non aveva come segno distintivo l'emigrazione, in parte assorbita da nostre
colonie, da bonifiche e contrastata dal rifiuto degli Usa a ricevere nuovi immigrati
(specialmente dopo il 1929). Si
risviluppava parimenti la stagione dei lavori temporanei all'estero, con
relativo ritorno stagionale, verso la Francia che era la meta più comune
(per la falcidia
di morti nella grande guerra) e verso l'alleata Germania che dopo aver
assorbito 7 milioni di disoccupati (ante ascesa al potere di Hitler) ora
era in deficit, in special modo
alla vigilia del secondo conflitto (vedi scheda specifica
http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/schede/volkswagen.htm
. La statistica sottostante fotografa un
andamento decrescente degli addetti alla agricoltura che va di pari passo
con quello della popolazione attiva, che indica chiaramente un
invecchiamento medio della popolazione. Oggi (fra parentesi il dato
vecchio) i giovani sotto i 14 anni
sono quasi il 14 % (contro il 32) del totale e gli anziani sopra i 65
quasi il 20% (contro
l'8).
La cantieristica passa da 56 unità produttive al momento
dell'Unità per 92 dopo la presa di Roma per ridursi a 39 nel 1889 con 11
mila tonn. di stazza totali quando si era arrivati anche a 96 nel 1869.
E' una debacle che durerà nel tempo quando i nostri diretti competitori
ne costruivano- Inglesi 804 mila, Usa 23, Francia 32.
La forza armata post unitaria e post
riforma 1875 portò il totale dei mobilitabili a ca 3 milioni (si contano
classi di cittadini dal 20esimo anno al 39 esimo) così divisi al 1890:
sotto le armi nell'esercito 263 mila uomini, riserva 580 - Milizia
mobile in congedo della Sardegna 372, Milizia territoriale in congedo o
fuori servizio 1.631.
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Composizione demografica 2006 stimata
0-14 anni: 13,8% (maschi 4.147.149/femmine 3.899.980)
15-64 anni: 66,5% (maschi 19.530.512/femmine 19.105.841)
da
65 in su: 19,7% (maschi 4.771.858/femmine 6.678.169 !!!) |
Aspettative di vita a fine secolo XIX
(800)
Durata media della vita in Svezia e Norvegia 50 anni,
Inghilterra 45, Italia 39, Romania 35, Spagna 32 !!! |
Prima che le
statistiche ufficiali del regno registrassero i censimenti decennali
e le
loro variazioni s'era avuto al nord, ma in parte anche al centro e al sud, un
incremento demografico non rispondente alla teoria maltusiana
(Thomas R. Malthus 1766/1834
http://it.wikipedia.org/wiki/Rapporto_sui_limiti_dello_sviluppo ) che sosteneva la crescita demografica non
essere una ricchezza per
lo stato*, (come credeva la maggior parte degli studiosi
http://www.csiro.au/files/files/plje.pdf IL CLUB DI ROMA) bensì l'inverso
per il fatto che tra le altre cose Malthus sosteneva basilarmente:
•Mentre la crescita della popolazione è geometrica, quella
dei mezzi di sussistenza è solo aritmetica
•Le classi lavoratrici tendono a reagire a un miglioramento del tenore di
vita e quindi in un aumento della procreazione.
•Il rendimento dei terreni tende a decrescere con la messa a coltura di
terre non adatte alla coltivazione.
Tutto ciò può portare, secondo Malthus, a un progressivo impoverimento della popolazione.
Quando si arrivava infatti al limite delle risorse alimentari, si scatenava
la mortalità per fame e guerre, nonché per malattie e il ciclo ricominciava.
Un fattore non secondario dell'aumento che di fatto divideva le epoche
storiche in quelle lente e in quelle a sviluppo demografico veloce (quella
passata ormai per l'Europa e quindi noi siamo nella terza fase) era la
diminuzione della mortalità infantile e quella per epidemie, la più grave
delle quali era la peste, poi colera etc.. Per contrastare
la miseria sono efficaci solo i "freni preventivi" (come il posticipo
dell'età matrimoniale e la castità prematrimoniale) e i "freni repressivi"
(come le guerre e le carestie) ampiamente sperimentati nel '700 ma non solo.
M. Livi Bacci disse che crescita demografica e crescita economica,
anziché essere antagoniste si sostenevano a vicenda.
Naturalmente la teoria elaborata da Malthus a inizio '800 è "datata" e invecchierà
quando interverrà la grande industrializzazione, la chimica moderna, l'agricoltura
"spinta", la rivoluzione delle fonti energetiche (carbone
(in parte perché lo si conosceva da secoli) petrolio,
gas, nucleare) ed altre cose che per
converso porteranno in 100 anni all'inquinamento, ai cambiamenti climatici,
alle grandi migrazioni, all'esaurimento delle fonti energetiche, al
saccheggio della fauna marina, all'impoverimento delle terre ed altre cose
che la generazione attuale continua ad ignorare o non vuol sentirsi dire per
non assumersi la responsabilità verso le generazioni future !!!. Si potrebbe
dire "ride bene chi ride ultimo"
"Dove troveremo tutto il
pane" di Giorgio Nebbia
http://www.greencrossitalia.it/ita/news/politiche/news_028_p.htm
Doveva essere proprio
arrabbiato Malthus nel 1803 quando, nella seconda edizione del suo “saggio”,
scrisse: «Un uomo che nasce in un mondo già posseduto da altri, se non
può avere i mezzi di sussistenza dai suoi genitori a cui ha diritto di
chiederli, e se la società non ha bisogno del suo lavoro, non ha nessun
diritto di chiedere neanche una piccola porzione di cibo e, infatti, non ha
neanche motivo di esserci in un tale mondo. Al pur abbondante banchetto
della natura non c’è un posto vuoto per lui. La natura gli dice di
andarsene, e eseguirà presto i suoi ordini, se egli non può contare sulla
compassione di qualcuno dei commensali. E se qualcuno dei commensali si alza
e gli lascia il suo posto, altri esclusi si faranno avanti subito per
chiedere lo stesso favore e di conseguenza ben presto la sala del banchetto
sarà piena di postulanti. L’ordine e l’armonia del banchetto saranno
disturbati, l’abbondanza che prima era presente si trasforma in scarsità e
la felicità degli ospiti è distrutta dallo spettacolo della miseria e dalla
fame presenti in tutti gli angoli della sala e dal rumoroso disturbo di
coloro che sono giustamente arrabbiati perché non trovano il cibo che gli
era stato detto di aspettarsi. Gli ospiti si accorgono troppo tardi del loro
errore di non aver fatto rispettare il preciso ordine di escludere tutti i
nuovi richiedenti, impartito dalla grande regina del banchetto, la quale,
volendo assicurare l’abbondanza per tutti i suoi ospiti e sapendo che non ne
può sfamare un numero illimitato, umanamente si rifiuta di ammettere nuovi
arrivati quando il banchetto è già pieno».
Curiosamente, la dura frase dell’esclusione dei poveri dal “nature’s mighty
feast” è quella che tutti gli avversari di Malthus citano, dimenticando che
deve essere sembrata una sortita troppo grossa allo stesso Malthus che la
tolse in tutte le edizioni successive. Poche opere hanno suscitato polemiche
come il “saggio” di Malthus e ancora oggi sono attivi e litigiosi i due
grandi partiti, quello dei cornucopiani, sostenitori del progresso in un
mondo con una popolazione numerosa, felice e ricca di beni, alla Condorcet,
e quello dei malthusiani o neomalthusiani i quali sostengono che le risorse
della Terra sono grandi, ma non illimitate, e che il continuo aumento della
popolazione terrestre comporta un impoverimento delle risorse disponibili
per le generazioni future. Le principali motivazioni dei militanti dei due
partiti sono bene riassunti in un libro dell’americano J.E. Cohen, How many
people can the Earth support?, New York, Norton, 1995 (in Italia “Quante
persone possono vivere sulla Terra?”, il Mulino, Bologna, 1998).
Il cordone
sanitario a protezione delle menzogne non incontra ostacoli ed è
trasversale, dalla politica, all'impresa e alle religioni.
Il dato italiano si discostava allora dalla teoria nella parte in cui questa
prevedeva un incremento demografico pur in mancanza di una industrializzazione
che da noi non era ancora cominciata se non marginalmente nella prima metà
dell’800 ed in poche località. A titolo esemplificativo citiamo un recente studio sull’economia
agricola emiliana di pianura dell’800.
Negli stati parmensi la popolazione extra-urbana fra il 1820 e il 1847 era
salita da 215.790 a 255.600 unità. Nel circondario di Lugo (stati della
Chiesa) la popolazione passa invece dai 46.355 abitanti del 1811 ai 60.282
abitanti del 1853, con un aumento percentuale che arriva al 30 % !!!.
Nell'area Centese l'aumento è ancora più accentuato, pari al 39,5 %. Il
comune di Ravenna conta nel 1853 ben 17.116 abitanti in più rispetto al
1811. In alcuni comuni (Cento) la densità demografica era ormai a 154 ab./kmq
Ma se la terra è sempre quella e le nuove terre sono inadatte come si
sosteneva un aumento demografico che ancora non trovava sfogo
nell’emigrazione. Per quanto riguarda l’area indicata alcune coincidenze
fortunate avevano fatto si che una coltivazione, il riso, si espandesse
oltre l’oggi noto. La coltivazione aveva conosciuto una rapida affermazione
in età napoleonica grazie alla favorevole congiuntura creatasi col blocco
continentale attuato dagli inglesi (successe anche con la barbabietola da
zucchero). In Emilia Romagna erano state destinate al riso vaste zone
paludose e vallive del Parmense, del Reggiano e soprattutto del Bolognese e
della Romagna. La risaia aveva valorizzato in poco tempo, moltiplicandone
smisuratamente la rendita, diverse migliaia di ettari di paludi, per gran
parte possedute dall'aristocrazia terriera o da enti religiosi e morali.
Molti di questi proprietari, sia in proprio, sia per il tramite di
affittuari, avevano attuato gli investimenti necessari per trasformare in
risaie appezzamenti poco produttivi e talvolta spingendosi fino al punto di
distruggere terreni già appoderati e affidati a coloni per il secco.
Grazie
ai buoni prezzi spuntati dal riso, soprattutto all'indomani dell'unità
nessuno voleva seguire il dettame della bonifica attuata si diceva per
problemi sanitari (malaria). Sulla questione delle risaie s'era discusso nei
congressi degli scienziati italiani di Firenze (1841), Padova (1842) e Lucca
(1843) .
Nell’agro ravennate non v'era stato aumento di febbri malariche,
bensì crescita dei salari e del benessere; tuttavia si dovevano migliorare
le condizioni igieniche personali e abitative dei lavoratori, emanare leggi
contro lo sfruttamento dei fanciulli e delle donne, istituire una
magistratura di controllo delle condizioni del lavoro. Dalle risaie i
padroni ricavavano infatti, sia con la coltivazione del riso, sia con il
taglio periodico dello strame di valle , cospicue rendite col minimo
investimento di capitale, senza contare che minima era anche l'incidenza
dell'imposta fondiaria applicata a quel tipo di terreni. Nel periodo di
massima espansione della risaia la fascia territoriale di bassa pianura che
si stende a destra del fiume Reno vide investiti a coltivazione umida oltre
18.000 ettari. Nel Parmense, nonostante le rigide disposizioni dell'autorità
sanitaria, la risaia era riuscita ad espandersi - triplicando la superficie
- tra il 1850 e il 1857 . Nella Bassa modenese la risicoltura occupava nel
1847 ben 4.353 ettari, concentrati nei comuni di Nonantola, Finale e Carpi.
Sul piano sociale la coltivazione umida produsse effetti vistosi e talora
sconvolgenti. Ogni ettaro a risaia assorbiva mediamente 175 giornate
lavorative all'anno, contro le 93 di una normale coltivazione asciutta. Ma
ai fini dell'occupazione agricola la risicoltura era tanto più vantaggiosa
in quanto concentrava le operazioni colturali in periodi nei quali era
ridotta l'attività dedicata alle altre produzioni agricole: oltre alla
preparazione dei terreni nei mesi autunno- invernali, il ciclo produttivo
del riso impegnava grandi masse di lavoratori nei mesi di maggio-giugno per
la roncatura e di settembre ottobre per i raccolti, rispettivamente prima e
dopo le operazioni colturali del grano e di altre sarchiate. La risaia
veniva dunque a modificare sensibilmente, per vaste aree della pianura, il
calendario del lavoro agricolo. Consentiva all'economia, poderale di
liberare la "disoccupazione occulta" e di impiegare all'esterno del podere
la mano d'opera eccedente. Ma non solo questo. Con la risaia il mercato del
lavoro giornaliero veniva dilatato a dismisura in quanto, per la prima
volta, anche donne e fanciulli passavano da una condizione di forza-lavoro
ausiliaria e "nascosta" nelle pieghe dell'economia familiare ad una
condizione di forza-lavoro effettiva, "libera" e per giunta a bassissimo
costo. Contraltare di questa organizzazione una mutazione dei costumi
sociali e morali e dei poteri all’interno del nucleo familiare, a cui sia
aggiunsero le prime lotte sociali per la tutela del lavoratore allo scoppiare
della crisi. Perché, come si direbbe oggi, anche qui arrivò la
globalizzazione col crollo delle quotazioni dei cereali (Mais, Frumento,
Riso, -30%). Dai 2,5 milioni di quintali di grano importati nel 1879/83 si
passò a 7 milioni. Se all’epoca dell’unità praticamente non si importava
riso già nel 1874 si sale a 20.000 tonnellate, 5 anni dopo a 53.000 !! e
dieci anni dopo (1884) 94.000 !!!! tonn. Molinella, Budrio, Medicina,
Conselice, Malalbergo e altri comuni della bassa pianura bolognese-ravennate
conobbero per primi e mantennero per lungo tempo il primato nelle agitazioni
agrarie, negli scioperi per miglioramenti salariali, nelle richieste di
lavori pubblici per alleviare la disoccupazione. Poi fu solo emigrazione, come si
evidenzia nelle statistiche sopra, per quasi 50 anni (fino al periodo
fascista). Se la teoria di Malthus zoppicava, una
variabile indipendente, checche ne dica il Papa oggi che asserisce che le
risorse sono infinite, le risorse hanno un padrone e così c’è il padrone del
petrolio, del tal metallo prezioso, del grano, del riso etc.. con un altra
variabile indipendente che sono le condizioni climatiche. Da tutto questo
abbiamo escluso, ma non per questo assente, la conflittualità (guerre,
rivoluzioni) che operavano già nel passato ma con minore impatto.
La riduzione dell'area investita a riso fu drastica in tutte le province
risicole della padania centro orientale: già nel 1879-83 la coltivazione
umida aveva perduto 17.834 ettari rispetto al periodo 1870/74 nelle
province dove dominava la risaia stabile e cioè Mantova, Verona, Rovigo,
Ferrara, Bologna e Ravenna. Per quanto riguarda le risaie emiliane il
declino fu rapido e inarrestabile: dai 24.462 ettari del 1870/74 si era
scesi a 18.656 ettari nel 1879/83, ai 15.690 ettari del 1890/94 ai 10.090
del 1901/6. Le grandi bonifiche del Ferrarese
avevano avuto il massimo impulso fra il 1872 e il 1878 ma agli inizi del
decennio successivo i privati e i consorzi promotori si ritrovavano già in
gravi difficoltà finanziarie e invocavano l 'aiuto dello stato. La spesa
statale in opere pubbliche, anziché aumentare, stava paurosamente
riducendosi proprio mentre più acuto si faceva il disagio sociale provocato
dalla crisi. La spesa complessiva del ministero dei lavori pubblici passò
dai 356 milioni di lire dell'esercizio finanziario 1887/88 ai 129 milioni
del 1894/95 , a 89 milioni nel 1895/96 per attestarsi poi al di sotto degli
80 milioni annui fino all'esercizio 1902/3 .
* la ricchezza per lo stato era la carne da cannone da
schierare nelle nuove guerre nazionali.
Negli esordi dello Stato
italiano c’erano una infinità di "patrioti benemeriti" della «causa», di
«vittime» di cessati governi, più o meno autentici, da ricompensare, da
sistemare
(nella storia le storie
si ripetono sempre all'infinito ed ogni volta le persone si stupiscono)
Stralcio da “Memorie di
un prefetto”, casa editrice Mediterranea, Roma, 1946.di Amedeo Nasalli Rocca
Mio nonno era stato aiutante di campo di Carlo Alberto; il fratello di mia
madre, il conte Carlo, era stato pure aiutante di campo di Vittorio Emanuele
II nel 1860. I miei due fratelli, Stanislao (Bersaglieri) e Saverio (Futuro
Generale nella Grande Guerra), avevano intrapreso, o stavano per intraprendere la stessa
carriera ...La disciplina dell’ammissione agli impieghi era, negli esordi
dello Stato italiano, alquanto confusa: c’erano una infinità di patrioti
benemeriti della «causa», di «vittime» di cessati governi, più o meno
autentici, da ricompensare, da sistemare, da contentare; alcuni veramente
degni di rispetto e di considerazione, altri no, ma sostenuti da più o meno
confessabili protezioni settarie; alcuni uomini di valore, altri inetti ed
ignorantissimi. Tutti i ministeri erano pieni di patrioti; specialmente
quello degli interni, negli uffici di polizia, delle carceri e delle
prefetture, e quello della Pubblica Istruzione, che aveva fornito cattedre a
tutti i preti e frati stonacati.
Il mio professore di economia politica all’università di Parma, altro
«patriota », aveva ottenuto la cattedra in un modo alquanto strano. Era
violinista di professione; un giorno vide esposto sulla banca di un libraio
ambulante un volumetto che attirò la sua attenzione: «Le armonie economiche»
del Bastiat. Credendo che trattasse di musica, lo comprò, se lo lesse con
cura, ed essendo di vivace ingegno si interessò delle teorie anti comuniste
del vecchio maestro, tanto che cominciò a parlarne con gli amici in ogni
occasione, in modo che si diffuse l’opinione che egli fosse un profondo
conoscitore di materie economiche; ciò bastò per farlo nominare senz’altro
professore universitario di Economia Politica. Però gli studenti dicevano
che, invece di lezioni di economia, egli facesse economia di lezioni.
Anche il mio primo Prefetto a Piacenza, il comm. Papa, aveva fama d’essere
un «martire della causa», perché, mentre aveva servito malamente i Borboni a
Napoli - sospettato di liberalismo - ne aveva avuto qualche rabbuffo, che
poi - caduto il regno - gli aveva fruttato dal nuovo governo stima e
promozioni. Era un inetto e un palese ignorante, ma un brav’uomo e non
faceva altro, in ufficio, che raccontare agli impiegati barzellette del
tempo di «chillo», e cioè del Borbone. Lo scrivere non era affar suo,
e lo sapeva. Quando le circostanze lo obbligavano a metter fuori la sua
letteratura, erano guai: veniva fuori una prosa tale che io, per incarico
del buon consigliere delegato Cav. Sarti, dovevo sforzarmi di aggiustare
alla meglio con correzioni e raschiature, imitando la grossa scrittura del
Papa. Una volta egli preparò di suo pugno una quarantina di proposte per la
nomina di sindaci, che allora veniva fatta con decreto reale; e tutte
finivano con formule di questo stampo: «Propongo di essere fatto sindaco di
X il tale»; oppure: «Parmi che convenisse che fosse fatto...»... Non posso
dispensarmi dall’osservare che, mentre io, d’intesa con il Cav. Sarti,
lavoravo come un certosino per dare forma umana alla prosa del mio capo,
probabilmente in tempi meno antichi altri al nostro posto avrebbero goduto
nel mandare a Roma, tal quali, autentici documenti dell’insipienza del
prefetto di Piacenza. Ma l’onesto comm. Papa durò poco nella sua carica.
Quando nel 1876 salì al potere la «sinistra» parlamentare, il Papa, che
della «destra» era stato sempre fedele quanto poco avveduto strumento, non
capì che i tempi erano mutati. Essendogli state richieste dal nuovo
Ministero notizie sulle prossime elezioni generali, rispose che Piacenza non
avrebbe mai mandato al parlamento uomini di «sinistra »! E fu collocato a
riposo.
Così va il mondo e così andava
e andrà.
Ma i
problemi dell'emigrazione non erano solo nostri: anche altri Italiani a noi
vicini, sotto l'Impero Austriaco si dibattevano da anni in questo flusso migratorio che solo qualche
volta vedeva il ritorno. Oggi difende la
nazionalità "Italiana" di questi la onlus
http://www.trentininelmondo.it/ Da
"IL TRENTINO" Monografia di Cesare Battisti De Agostini 1915 ….
EMIGRAZIONE-
La popolazione del Trentino ebbe nel primo sessantennio del
secolo scorso (1800/1860) un graduale aumento, corrispondente all'
incremento naturale annuo della popolazione. L'emigrazione era praticata
solo dalle popolazioni alpestri e in misura assai limitata. Era
un'emigrazione specializzata, di pochi e non numerosi gruppi professionali,
degli arrotini (moleti) di Rendena, degli spazzacamini di Val di Non o del
Banale, dei calderai (parolòti) di Val di Sole, dei segatori (segantini)
giudicariesi, dei carbonai di Val Vestino, ecc .. Il paese era insomma in
grado di mantenere tutti i suoi figli. Ma sopravvenuto il distacco dall'Àustria
della Lombardia e della Venezia, il Trentino, che era una fiorente regione
industriale, subì una enorme crisi economica, poiché i suoi prodotti (e i
suoi servizi) trovavano sfogo solo o in gran parte verso il mezzogiorno. Le
nove barriere doganali e l'impossibilità di trovare nell'interno della
monarchia, per ragioni geografiche e politiche, campi adatti di smercio,
segnarono il crollo dell' industria trentina. Ne subì di contraccolpo una
scossa anche l'agricoltura, in buona parte unita all'industria. Si
aggiunsero, fra il 1870 e 1890, terribili calamità: le malattie del gelso e
della vite, le inondazioni, e, come non bastassero le calamità di natura, lo
sgoverno provinciale e la trascuranza assoluta dello Stato, sempre disposto
a sacrificare le nazionalità meno numerose alle maggiori.
L'emigrazione si impose come una triste necessità, le Americhe ospitarono
stabilmente decine e decine di migliaia di trentini. Il paese non solo
perdette l'incremento naturale annuo della popolazione, rispondente a circa,
il 9 per mille, ma costrinse all'esilio un numero maggiore dei suoi figli.
Dal 1880 al 1890 la popolazione complessiva del Trentino diminuì da 351689 a
349203. Nel 1900 era (ri)salita a 360179 e nel 1910 a 386437. Indizio questo
di un piccolo miglioramento economico sopravvenuto. Con l'aumento
dell'ultimo decennio il paese non è per anco arrivato a mantenere tutto
l'aumento naturale della popolazione. Il fenomeno migratorio persiste
quindi, in proporzioni ancora altissime (circa il 6 % della popolazione),
per quanto possa ritenersi ridotto della metà in confronto di quanto era
quindici o venti anni addietro. L'emigrazione è ora in prevalenza
continentale, verso regioni tedesche (o altre europee); di emigrazione
permanente non vi è più traccia. Anche quelli che si dirigono nelle Americhe
tornano dopo pochi anni. I distretti dove l'emigrazione fu maggiore in
passato, e lo è tutt'ora, sono quelli alpestri. Una statistica del 1911 ci
offre i seguenti dati (probabilmente solo di quell'anno). Metà degli
emigrati oltreoceano (3.150 prevalentemente nel Sud America)) è dato da due
distretti o capitanati Cles e Tione, mentre l'emigrazione europea (19.300)
sempre Cles e Tione con l'aggiunta di Cavalese e Borgo che costituiscono i
2/3 del tutto.
IMMIGRAZIONE.(fenomeno inverso) Nel Trentino immigrano annualmente,
dalla primavera all'autunno, circa 2000 operaie bellunesi, che si dedicano
alla lavorazione della terra. Vengono dal Regno (Italia) inoltre quasi tutti gli
operai (circa 1000) addetti alle fabbriche di cemento, calce e laterizi.
Certe professioni (barbieri, sarti e in minor numero fabbri) sono esercitate
quasi esclusivamente da regnicoli (Si tratta in questo caso di
specializzazioni o come si direbbe oggi di manodopera d'eccellenza che per
varie ragioni storiche ed etniche non aveva mai trovato implemento o
iniziativa d'impresa nel Tirolo austriaco la cui edilizia era quasi
esclusivamente basata sul legno. Oggi anche per la professione descritta (sarti)
potremmo parlare di uno stile italiano antelitteram).
Ndr:
come dice sopra Battisti dello "sgoverno" provinciale e nazionale, Vienna
tendeva ad ignorare il fenomeno per non apparire o far apparire l'impero
come uno stato povero (come in effetti era vivendo sullo sfruttamento delle
nazionalità diverse). Il governo di Vienna chiamato a firmare convenzioni
per l'istituzione di consolati, per facilitare pratiche e corrispondenza con
i parenti rimasti al paese rispose sempre no. La popolazione del Trentino
nelle statistiche governative del 1910 è nella sua quasi totalità italiana.
Su 377039 cittadini di diritto (cioè cittadini austriaci), 360938 sono
italiani, 13477 tedeschi, 2624 d'altra lingua.
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