LE RIVENDICAZIONI ITALIANE

I Martiri di Belfiore

Soffocati i moti e vinta la prima guerra italiana ('48-'49), l'Austria era ben decisa a scoraggiare qualsiasi nuovo tentativo d'autonomia. Il cancelliere dell'Impero, Felice di Schwartanberg succeduto a Metternich, era convinto che per tenere sotto controllo il Lombardo-Veneto c'era bisogno di qualche "salutare impiccagione". In un anno infatti vennero eseguite 961 condanne a morte e inflitte numerose pene corporali. Don Enrico TazzoliLe autorità imponevano inoltre pesantissimi tributi per evitare le sottoscrizioni a favore di organizzazioni clandestine. Di fronte ad una reazione così dura, era inevitabile che si sviluppasse un movimento di rivolta. Dalla tiepida Mantova* alla fine vennero i movimenti più pericolosi per la nascente coscienza civica. In questa città "militarizzata" viveva ed agiva don Enrico Tazzoli che aderì al movimento di Mazzini ed organizzò una congiura, che sarebbe stata chiamata poi "di Belfiore", dal nome della località dove i martiri furono giustiziati. Le basi dell'organizzazione vennero poste in una riunione tenutasi nel novembre del 1850, in una casa di via Chiassi. Diciotto mantovani parteciparono a questa storica seduta, tra cui Giovanni Acerbi, Carlo Poma, Achille Sacchi, lo stesso Tazzoli ed altri. Quest'ultimo divenne, ben presto, il vero organizzatore e coordinatore del moto che coinvolgeva anche Venezia. In una delle riunioni si presentò il patriota veneziano Angelo Scarsellini con la fantasiosa proposta di catturare (sequestrare) l'imperatore e di scambiarlo per più autonomia e libertà: una follia allo stato puro. La proposta venne naturalmente respinta. Fu affidata invece a don Tazzoli l'emissione di un prestito per la raccolta di denaro di piccolo taglio per non dare nell’occhio. L'audacia dei mantovani era tale che le cartelle venivano offerte pubblicamente nei ritrovi pubblici. La congiura sarebbe rimasta segreta, nonostante tutto, se per una circostanza fortuita non venisse perquisita la casa di Luigi Pesci esattore comunale di Castiglione delle Stiviere, sospetto falsario. In casa di Pesci non furono trovate banconote false bensì una cartella del prestito mazziniano. Pesci interrogato, svelò che un professore del Seminario di Mantova, don Ferdinando Bosio, gli aveva venduto la cartella. Questi, dopo aver resistito a 24 giorni di interrogatori, confessò che il coordinatore del movimento mazziniano era un suo collega: don Tazzoli. Il sacerdote fu arrestato il 27 gennaio del 1852 e gli fu sequestrato il quaderno su cui annotava secondo un codice segreto i nomi degli affiliati e le somme raccolte per non essere accusato di disonestà nella amministrazione dei fondi segreti. Qui erano anche segnate le uscite a favore del comitato mantovano. Non fu difficile a Vienna scoprire la chiave del cifrario che era il Pater Noster. L’Ispettore delle carceri politiche Francesco  Casati, una volta informato del cifrario, si presentò sulla soglia della porta della cella in cui era racchiuso don Tazzoli ed iniziò a recitare il padre nostro. Il sacerdote capì che nulla avrebbe potuto più fermare l’ opera spietata della polizia. Nacque così il processo di Mantova che si tenne dall'estate del 1852 fino ai primi mesi del 1853.

*A Mantova il '48 non era andato come in altre città della penisola. La rabbia montante qui non s’era concretizzata: paure ataviche del nuovo ?, della rivoluzione socialista? Tazzoli "….S’erano perfino sbarrate le porte: “proprio dal comitato era venuto l’ordine di sbarrare la strada alle schiere di contadini che volevano entrare in città per dar man forte agli insorti” quando i bianchi austriaci di Gorzkowski s'erano ritirati nelle cittadelle intorno alla città d'acqua.

Il processo

Vennero arrestati: Carlo Poma, Tito Speri, Carlo Montanari e altri iscritti di Mantova, di Verona, di Brescia, di Venezia. A quel tempo Mantova era dotata di varie strutture carcerarie : il carcere della Mainolda, luogo dalle condizioni igienico sanitarie veramente disumane, il Convento di S. Domenico e il Castello di San Giorgio ove vennero ospitati i cospiratori. I "Martiri di Belfiore" furono trasferiti al Confortatorio di Santa Teresa, ove trascorsero le ultime ore prima dell’ esecuzione. La regia del processo fu affidata ad un giovane ufficiale boemo, l’ auditore Kraus, che usò negli interrogatori l’intimidazione, lo scherno, la fame, i ferri e, se necessario, anche il bastone. Don Tazzoli cercò di minimizzare la responsabilità degli altri e di non rivelare i nomi di quelli che si celavano sotto pseudonimi. Uno alla volta gli altri, vinti dalle torture fisiche e morali, stremati dai maltrattamenti, finirono per confessare e la confessione, per la Legge Austriaca significava morte. Dei principali imputati, Giuseppe Finzi* e Luigi Pastro, che, conoscendo questa legge non confessarono, ebbero salva la vita, ma furono condannati assieme ad  altri 150 cospiratori a lunghe pene detentive poi amnistiate nel '56. Infatti l'articolo 443 del codice penale austriaco prevede in questo caso la prigionia per 20 anni e non il patibolo, riservato solo a chi confessa le colpe di alto tradimento. Don Enrico Tazzoli fu giustiziato assieme a Carlo Poma e ai tre Veneziani: Zambelli, Scarsellini, Canal, il 7 dicembre del 1852 nella valletta di Belfiore (luogo deputato alle esecuzioni) con l'imputazione d'alto tradimento. Il processo contro i rivoluzionari venne riaperto e il 3 marzo del 1853 vennero giustiziati, sempre a Belfiore, altri tre congiurati: Carlo Montanari, Tito Speri e don Bartolomeo Grazioli, arciprete di Revere, accusati di aver attentato alla vita di Filippo Rossi, Ispettore di polizia di Mantova. Il 19 marzo del 1853, compleanno dell'imperatore, Radetzky elargì l'amnistia a tutti gli inquisiti in attesa di sentenza ma l’ ordine non fu fatto pervenire in tempo utile perchè Pietro Frattini ne potesse beneficiare. donne di Belfiore http://www.url.it/donnestoria/testi/trame/belfioredonne.htm

 

Una tragedia che poteva essere evitata

 

Grande fu l'ingenuità di questi patrioti nel non prevedere la possibilità di essere arrestati e di conseguenza nel non conoscere le possibilità per scolparsi. La dura repressione austriaca riceveva la sua approvazione dal Papa Pio IX il quale volle che tutti i preti coinvolti nella congiura fossero sconsacrati. Il Vescovo di Mantova, monsignor Corti tentò inutilmente di intervenire affinché si evitasse per don Enrico Tazzoli la sconsacrazione. Fu costretto a procedere alla mortificante cerimonia: la lettura della formula di condanna, il ritiro dei paramenti sacri tolti di dosso e la raschiatura con un coltello della pelle delle dita che sorreggono l'ostia durante la comunione. Dalla fine del 1848 al 1854 il territorio mantovano fu anche agitato da proteste contadine, qualche volta da vere rivolte. La reazione austriaca fu spietata: una prima commissione nominata da Gorzkowski mandò a morte 16 contadini nel periodo tra il 1848- 1850. Una seconda commissione nella città di Este fece condannare, tra il 30 ottobre del 1851 al 1854, 245 giovani, accusati di atti di terrorismo, di renitenza e di costituzione di banda armata. Nel Milanese intanto, il 6 febbraio 1853 (Domenica di Carnevale), i mazziniani del Comitato dell'Olona attaccano la guarnigione austriaca uccidendo alcuni soldati. Radetzky, sopraffatti facilmente i rivoltosi, risponde con l'arresto di centinaia di persone, per lo più popolani, e il conseguente processo sommario di 15 presunti cospiratori. Procede inoltre con la condanna a morte e con l’ordine di sequestro e confisca di tutte le proprietà mobili ed immobili di 72 emigrati dal Lombardo Veneto ed esuli negli Stati Sardi. Sono anche espulsi dalla Lombardia gli inquieti Ticinesi, per rappresaglia contro l'espulsione dal Canton Ticino di otto cappuccini.

 

Ferruccio Ferretti è nato a Mantova il 1 settembre 1868 e vi è morto, a soli 47 anni, il 28 ottobre 1915. Ferretti è il poeta in cui, forse più che in ogni altro, Mantova si è riconosciuta, perché ha saputo veramente interpretarne l’anima, le specificità autentiche, la qualità rustica e cordiale dei più genuini sentimenti della terra mantovana. E stato correttamente ricordato che “al rosgnol, pr’ al mantvan, l’è Feretin”. Figlio di un tipografo dalla semplice vena poetica, dopo aver frequentato le scuole tecniche, s’impiegò per qualche tempo presso l’amministrazione della locale Gazzetta, quindi passò come contabile alla Banca Agricola Mantovana, dove rimase per un quarto di secolo, fino alla prematura scomparsa. Scrisse versi non solo in dialetto, ma anche in italiano, rivelando dimestichezza con la terzina e con i metri barbari di sapore carducciano. Fu profondo conoscitore della Divina commedia e socio benemerito del Comitato mantovano della Dante. Ma la sua musa, ovviamente, fu dialettale. Delle numerosissime composizioni, nemmeno una silloge uscì in volume durante la sua vita. Solo dieci anni dopo la scomparsa, l’amico senatore Ugo Scalori mise insieme una raccolta di versi dialettali tra i più riusciti e significativi, senza dimenticare qualche composizione in lingua. Naturalmente molte composizioni rimasero escluse sia perché eccessivamente datate, sia perchè troppo ‘sopra le righe’. Il volumetto uscì col didascalico titolo di Poesie in dialetto mantovano.
Quando Ferretti era ancora in vita, molti avrebbero voluto vedere pubblicata la sua opera e i mantovani extra-muros, subito dopo la morte del poeta, si erano offerti
per concorrere alle spese di stampa dei suoi versi. Scrisse, tra l’altro, la Provincia di Mantova, giornale dell’alleanza radicale socialista, del  30 ottobre 1915: “Ma  soprattutto il  il vernacolo fu lo strumento da lui manovrato da signore della parlata mantovana, con una sincerità popolaresca mirabile, con un umorismo felicissimo, con intenti satirici degni del suo nobile spirito. I suoi versi in mantovano scorrono limpidi e facili per quanto tormentosamente elaborati dall’incontentabile poeta, e l’anima del nostro popolano, rude, schietta, generosa, balza viva dai suoi accenti poetici.
Ferretti è sepolto nel cimitero monumentale di Mantova e sull’urna che ne conserva le ceneri, col nome e le date, si leggono queste parole: “Poeta vernacolo schietto ed arguto vibrò strali contro le umane ingiustizie diede fiori alla patria e alla libertà.


MANTOVA 7 DICEMBRE 1852

I.
Ancora ades a n’am so dar rason
e l’è ormai sinquant’ani ch’l’è passada;
chè quand am torna in ment cla balossada,
am senti ancora vegnar su ‘1 magon.

J’era brut temp alora!... par la strada
n’at trovavi che sbir, spie in orcion,
polizai e croat, ussar, dragon;
‘na rantumaia perfida e sfaciada.

A la sera (col s’ciop e la giberna)
i girava ‘d partut; si t’incontrava,
i ta sbateva in ghigna ‘na lanterna:

pò i volea saver chi ‘t séri ti
e to padar, to nono, cos’ai fava,
i do’ t’andavi e parchè ‘t séri lì.

 
II
S’at gh’evi apena apena ‘na magagna
it menava davanti al comissari
e lì, con on decret straordinari,
it mandava in preson... a far campagna.

Gneva al process, par giudizi statari,
(on pressapoc dl’ inqusizion de Spagna)
e ancora ancora l’era ‘na cucagna
ciapàr trenta legnade... e ringraziari.
 

Se po‘t seri da quei, al me putel,
ch’a ta spussavi da cospirator,
at podevi ben dir: adio batel!
It dava par tri gior’n on confessor
E santamente it mandav al macel
Com’ià fat con i Martir a Belfior

III
Al set dicembar dal sinquantadù
(dismendgarò mai più ‘l gioran fatal)
pien da speranze ancora, am son tolt su
par spetar al corteo in s’al stradal

Ghera Zambelli avanti daparlù,
go gneva Scarsellini e De Canal,
Poma e Tazzoli i’era i’ultum du,
in tre brute carosse ‘d vetural.

A’n so ‘l parchè la gent l’era persuasa
Chi sarìa sta grazià; e i’ era cors
Par portari in sle gròpe fin a casa

E mi, che con cl’idea agh son andà,
am senti ancora in dl’anima ‘l rimors
d’aver vist coi me occ cl’infamità.
IV
Descrivar chi moment n’an ghè parola.
(Intant ca s’eram lì tra ‘1 sì e ‘1 no)
am ricordi, ch’a gh’eva un gnoc in gola
ch’a n’al voleva andar ne su ne zo.

Ma dop che l’auditor l’a let la bola...
fina i soldà todesch, dur come i ciò,
parea chi j’èss lavà con la sigola
tant le putine di ‘occ l’igh gneva so.

Le done ja tacà: oh! Poarin
acsì giovan, vardè, gesùmaria!
moerar compagn di lad’r e di’ assassin!
Lor, invece, tranquii, seren e fort,
in cal moment teribil d’agonia,
i s’è dat on basin.. e po i’è mort!

V
Ma le vìtime sante da Belfior,
al boja ià portà maledision!
la potensa e la boria di’opressor
l’è quasi adrè cla va in liquidasion.

In dla stirpa dal vecc imperator
sa gh’è fat al taròl, e in dla nasion
a cova da un bel pèss on malumor
da quei ca sa on toclin ‘d rivolusion.

Tra i latin, i panslavi, i pantodesch,
i’ antisemiti, i czechi, i protestant,
i pret, l’iredentismo e tut al rest,

l’osel con i du bec al pol star fresch
can’ag la daghi longa miga tant.
Al temp, cl’è galantom... ai farà al rest.

Questa poesia dialettale, dedicata ai Martiri di Belfiore, è stata lungamente cercata e rinvenuta da Valentino Amadei mantovano or di Busto che me l'ha passata dopo averla trovata in '' PAGINE DI RISORGIMENTO MANTOVANO'' Roberto Tognoli Sometti Editore-Mantova. In tempi successivi e stata rinvenuta la quinta strofa ad opera di persona vicina.

 

GIUSEPPE FINZI: Un ebreo a Mantova

 

Giuseppe Finzi: Italian patriot and parliamentarian; born at Rivarolo Fuori, province of Mantua, 1815; died Dec. 17, 1886. He studied at Padua from 1831 to 1835; in 1834 he joined the secret organization Giovane Italia. In 1844 he met Mazzini in London, who entrusted him with the nationalist propaganda in Switzerland and Lombardy. In 1848 Finzi fought behind the barricades at Milan during the "cinque giornate." After serving for a time in the army of Charles Albert, he organized a Bersaglieri regiment, consisting of Mantuans; he first fought at Novara and afterward at Rome against the papal troops. As an intimate friend of Mazzini, he was brought before an Austrian court martial at Mantua. He was sentenced to eighteen years' imprisonment; but after a short term of imprisonment at Theresienstadt and Josephstadt, the amnesty of 1856 set him at liberty. When Lombardy was freed from Austrian domination, Finzi was appointed royal commissary for the province of Mantua. He became the confidant of Garibaldi, and was entrusted with the funds for the expedition to Sicily. The voluntary contributions not being sufficient, Finzi appealed to Cavour, who, on condition of strictest secrecy, supplied him with state funds. He sometimes mediated between Garibaldi and Cavour when their relations became strained. For about twenty-five years—from 1860 onward—Finzi was a member of the Lower House, and highly esteemed by all parties. He was a man of unflagging energy, but he was not an orator. June 7, 1886, he was made a senator; he was destined, however, never to enter the Senate chamber.
Piccola traduzione: Giuseppe Finzi, Ebreo, nacque a Rivarolo di Mantova. Aderì già da studente alla Giovane Italia di Mazzini e nel 1848, allo scoppio della guerra in marzo dopo le 5 giornate di Milano, entrò nelle fila dell’esercito piemontese coi volontari bersaglieri mantovani detti di Carlo Alberto. Dopo l’esito negativo della battaglia di Novara si accodò a Garibaldi, di cui divenne amico anche di massoneria, nella spedizione della Repubblica Romana. Crollato anche il sogno di Roma ritornò a Mantova dove le sue attività segrete vennero indagate dalla polizia. Fu coinvolto nei fatti della cospirazione del 52, ma non confessò mai ed ebbe una condanna a 18 anni, condonati nel 1856. Fu di nuovo con Garibaldi di cui sostenne la spedizione in Sicilia con raccolte di fondi e con fondi segreti prestati da Cavour (era il suo ministro del tesoro). Venne eletto in parlamento, dove sedette per diverse legislature, poi al Senato. Non riuscì a ricoprire quest'ultimo incarico per la improvvisa morte sopraggiunta il 7 giugno 1886. Carlo I (il beato) l'ultimo degli Asburgo
Eugenio Saraceni, nella sua ‘Breve Storia degli Ebrei e dell’Antisemitismo’ scrive: ‘Notevole (specie se si tiene conto del loro numero esiguo) fu infatti il contributo degli ebrei italiani al Risorgimento. Daniele Manin, Giuseppe Revere, poeta, il medico triestino Giacomo Venezian e il giovanissimo Ciro Finzi, caduti entrambi nella difesa della Repubblica romana; Isacco Artom, collaboratore di Cavour. Solo per citarne alcuni. L’essere ebreo e massonico non era una contraddizione.

Cesare Finzi la cui madre era figlia di Giuseppe Finzi, come capo del Servizio Informazioni della Ia armata sarà il protagonista nel settembre 1917 della cosiddetta "Sorpresa di Carzano", evento che, secondo una tesi ben fondata, se riuscito, avrebbe anche potuto cambiare le sorti della guerra alla vigilia di Caporetto. Cesare Finzi fu decorato di medaglia d'argento; ricevette poi l'Ordine Militare di Savoia e la notizia venne data dal Vessillo Israelitico. Cesare Finzi, combattè sotto questo nome e solo nel 1922 assunse il nome del padre Pettorelli Lalatta. Il contributo degli ebrei quindi continuerà anche con la grande guerra.

 

GLI EBREI A MANTOVA

Il ghetto qui era sorto nel 1612 quasi 100 dopo quello di Venezia e all'origine c'erano le disgrazie dei Gonzaga (di cui erano banchieri). Il benessere della comunità ebraica mantovana (oltre 3.000 persone) era coinciso con le fortune dei Gonzaga, padroni anche del Monferrato a seguito di matrimonio con i Paleologi (1536). Le disgrazie, culminate nella peste del 1630 per la quale gli ebrei furono accusati come sempre di esserne causa, di fatto cancellarono le loro attività nei banchi di pegno. Molti lasciarono la città: alcuni (circa 600 persone) furono accolti dal vicino principe di Bozzolo; altri (un migliaio) si imbarcarono sul Po su zattere, ma morirono travolti dalla corrente. Dopo questi eventi la comunità risultò dimezzata, iniziando un lento ma inarrestabile declino. Nel 1708 Mantova passò sotto il dominio degli Asburgo d’Austria i quali, nel 1791, emanarono le Patenti, che concedevano le prime libertà agli ebrei. da il Mosaico della Comunità ebraica di Milano. Quando nel 1820 Francesco I d'Austria fece il censimento degli Ebrei dell'Impero la comunità di Mantova, ca 2.000 persone, risultava essere la più numerosa della Lombardia senza il contado. I divieti alla mobilità (chiusura del ghetto, e alla sera chiusura fisica) imposti nel secolo precedente avevano fatto emigrare la classe ebrea più ricca. Dall'Editto di tolleranza del 1782, che metteva fine ai contrasti tra cattolici, protestanti, ebrei e ortodossi e non solo, anche a loro venne concessa la proprietà immobiliare e l'accesso alle scuole. Nel ghetto, per oltre 100 anni, era quindi rimasta gente mediamente più povera di quella cristiana circostante !!!. La rilevazione delle condizioni dell'impero, all'indomani della chiusura del capitolo Rivoluzione Francese (qualcosa quindi aveva insegnato) probabilmente estesa anche agli altri cittadini aveva messo in evidenza una povertà diffusa e principalmente una mancanza di programmazione degli interventi e degli strumenti sulla sicurezza sociale. Ricordiamo che le guerre si facevano stipendiando soldati e che le casse di Vienna risultavano probabilmente vuote. E di questi anni la creazione delle casse di Risparmio (con che soldi?) e delle case di Ricovero per indigenti (grandi e piccoli, vagabondi e orfani) dette d'Industria perchè accettavano piccole lavorazioni nell'ambito di scuole d'arti e mestieri. Anche gli ebrei ebbero la propria con 40 persone alloggiate. Diverse famiglie ebree (Vita Finzi, Norsa, Loria, Sforni, Carpi, Masserani etc.) del Mantovano erano quindi giunte a possedere o gestire terre e i conseguenti investimenti nelle migliorie (Bonifiche o conversioni a Risaia) dopo l'accesso alla proprietà terriera. I Finzi avevano ad esempio piantato 24.000 Gelsi da Baco da seta. Fra gli scrittori che si occupano dell'economia del territorio anche Ippolito Nievo la cui casa paterna (suo padre era magistrato) era proprio a Mantova. E' qui nel '48 che partecipa marginalmente ai moti insurrezionali. 

 

 


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