Il
fronte interno |
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La guerra avrebbe comportato necessariamente un enorme sacrificio
economico, ma si credeva sarebbe stata di breve durata. Ancora prima
dell'ingresso ufficiale dell'Italia, lo stato di guerra in atto in
centroeuropea aveva portato alcune spiacevoli conseguenze agli italiani. I
prezzi al dettaglio avevano subito una lievitazione, alcune merci
iniziavano a scarseggiare e l'inflazione aveva subito un'impennata.
L'Italia si mise ai ripari nell'Agosto 1914 introducendo una legislazione
di guerra: chiusura delle borse e divieto di esportazione delle merci
strettamente collegate con l'alimentare e il settore strategico
dell'esercito. Ma, come era già stato in passato, i
rifornimenti alimentari di alcune merci dipendevano sommamente dall'importazione e
sui mari ora era anche difficile spostare le merci: l'Italia oltretutto
non disponeva di marina mercantile autosufficiente.
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I dazi sulle importazioni dovettero essere abbandonati, per non far
aumentare troppo i costi dei prodotti, provocando di conseguenza anche
un danno all'Erario per mancato introito. Il silenzio di Cadorna, che
sembrava relegare la guerra ad una questione privata fra il Re e
l'Esercito da una parte e gli Austriaci dall'altra senza toccare il
livello di vita, ebbe breve durata.
I Prefetti nei loro
rapporti mettevano in evidenza l'ostilità diffusa alla guerra nella
popolazione sia urbana che rurale. Ricordiamo che solo il 23% degli
Italiani aveva diritto al voto. Come abbiamo già visto, occorsero diversi
mesi all'industria italiana per riconvertirsi e per rifornire di un minimo
di armi i soldati al fronte, in modo analogo era per altri generi come il
vestiario. Gravi conflitti stavano covando nel paese. I consumi di guerra
provocavano facili guadagni a ristrette cerchie di industriali, definiti
dal popolo "pescecani".
I ricchi erano diventati ancor più ricchi, perché,
pur di avere le quantità richieste, il Ministro degli approvvigionamenti
assegnava le commesse al prezzo del fornitore più piccolo e meno
economico. C'era poi la contrapposizione fra gli operai e i contadini.
Infatti le grandi fabbriche, con produzioni di meccanica di precisione e
con operai specializzati, non potevano permettersi di perdere personale,
cosicché erano esentati dal servizio militare, anche se militarizzati ed
obbligati al rispetto del codice militare di guerra. I contadini,
prevalentemente meridionali, venivano spediti in prima linea sull'Isonzo
per la conquista di terre irredente di cui non conoscevano neanche
l'esistenza. Questa suddivisione coinvolgeva anche moltissimi ufficiali
che, in una maniera o in un'altra, avevano ottenuto la qualifica di
tecnici di produzione. Il salario reale nell'industria scese del 15%
mentre il costo della vita aumentò del 34%. Se gli operai percepivano 7
lire al giorno un soldato al fronte riusciva a strappare solo 90
centesimi.
L'inverno successivo il malcontento, espresso da manifestazioni di piazza,
si diffuse ulteriormente. Nonostante la tassa sui profitti, il governo
continuava in massima parte a finanziarsi con prestiti. Nel corso del 1917
la guerra sottomarina germanica provocò l'affondamento di 312.000
tonnellate di naviglio.
Scese la quantità di carbone importato e, in giugno, vari paesi della
Calabria restarono senza pane per una settimana.
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Si contarono 3 scioperi al giorno, da
dicembre del 1916 ad aprile del 17, e costante comune era la presenza
delle donne. Dal Corriere della Sera:" Sono le donne che si fanno
avanti, tirano sassi,….. si sono svaligiati negozi…. ma in realtà
tutte queste donne domandano che tornino a casa i loro uomini". I
contadini, che scesero di alcuni milioni di unità in parte sostituiti
dalle donne e dai bambini, subirono anche requisizioni di bestiame.
Nonostante questo, la città rimaneva il centro della turbolenza. La
disoccupazione era calata portando in fabbrica anche le donne, ma era
aumentato l'inurbamento con tutti i problemi legati agli alloggi,
all'assistenza sanitaria. Torino, prima città industriale, deteneva il
primato di tutte queste disfunzioni. La bomba scoppiò il 13 agosto1917,
quando a Torino giunse una delegazione dei Soviet (non era ancora
scoppiata la rivoluzione d'ottobre) in cerca d'aiuto per lo sforzo
bellico. Il 22 la città era in fiamme e solo dopo
4 giorni ritornò la
calma al prezzo di pesanti perdite (50 morti). Dopo Caporetto, fra i
primi impegni di Diaz, c'era il miglioramento del rapporto
soldato-comando. Venne assicurata un'adeguata turnazione prima
linea-retrovia, furono concesse licenze (agricole), aperte case del
soldato, migliorato il vitto, stipulato una assicurazione sui combattenti
e dato vita agli enti "Opera Nazionale Combattenti" e "Famiglie caduti e
dispersi".
Fra la
truppa comparve anche l'ufficiale " P " addetto alla
propaganda, ma anche al morale dei soldati. Diaz, a fine novembre, era
comunque costretto a rimarcare che, nelle campagne alle spalle del
Piave, non si vedeva l'ora che tornassero gli Asburgo. All'indomani di Caporetto
a Milano, Firenze ma anche a Napoli e in Puglia e non solo fra la vecchia
aristocrazia antisabauda, si brindò inneggiando a Vienna.
Ai proclami pacifisti del Papa Benedetto XV, si contrapposero i preti e
il Re che chiamarono a raccolta il Popolo italiano. Sorsero un po' ovunque
associazioni che provvedevano a confezionare pacchi per gli uomini al
fronte con vari generi di conforto, ma anche oggetti utili nella vita
quotidiana. |
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LA LEVA
Il 3 maggio 1916 parte una circolare del Comando Corpo d’Armata di
Bologna avente per oggetto la regolamentazione delle classi anziane
chiamate di leva: “Nella assegnazione dei militari delle terze categorie
delle classi anziane questo comando ha cercato di tenere presente, il
più benevolmente possibile, le esigenze della vita sociale, tenuto conto
trattasi di uomini cui per la loro età fanno capo interessi famigliari
(coltivatori) e sociali talvolta assai gravi. Particolarmente, in base a
tali criteri, si dispose: Per la classe 1881 che, dopo la formazione
delle centurie, i militari rimanenti venissero assegnati ai battaglioni
M.T. (Milizia Territoriale) stanziati nel territorio del Distretto di
reclutamento. Per la classe 1880 che si seguisse in massima l’identico
sistema. Solo che, per esigenze dell’ordine pubblico, si provvide a che
tali assegnazioni di persone del luogo non superassero nel loro
complesso del 25% la forza dei battaglioni. Per la classe 1879 di
prossima presentazione, non sarà possibile seguire lo stesso criterio,
in quanto i battaglioni hanno già raggiunto la massima percentuale del
25% sopraindicata, che si ritiene non opportuno superare per motivi
disciplinari e in vista di eventuali impieghi della truppa in servizi
che la pongano a contatto con le popolazioni civili. La assegnazione
avrà luogo, quindi, con criteri meramente militari, secondo il bisogno
dei vari reparti. Sarà però possibile prendere in esame solo casi
veramente importanti”
http://certosa.cineca.it/chiostro/Blob.php?ID=8968
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Gazzetta Ufficiale del Regno
d'Italia N. 298 del 20 Dicembre 1916 - MINISTERO DELLA GUERRA
MANIFESTO per la chiamata alle armi delle reclute provenienti dai già
riformati nati negli anni 1876 (parliamo di gente di
40 anni) , 1877, 1878, 1879, 1880 e 1881
arruolati dai Consigli di leva in seguito a nuova visita. |
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1. Sono chiamate alle armi le reclute provenienti
dagl'inscritti di leva nati negli anni 1876, 1877, 1878, 1879, 1880 e
1881 e dai militari nati negli anni medesimi riformati a tutto il 31
agosto 1915, i quali in seguito a nuova visita presso i Consigli di leva
sono risultati idonei alle armi ed arruolati. Esse dovranno presentarsi
al Comando del distretto nelle ore antimeridiane dei giorni indicati.
Tutte quelle che saranno arruolate posteriormente alla presente chiamata
dovranno presentarsi isolatamente al distretto appena avvenuto il loro
arruolamento avanti il Consiglio di leva.
2. Si avverte, per opportuna norma, che le reclute arruolate presso i
Consolati, sia dei paesi di Europa e del bacino mediterraneo, che dei
paesi transoceanici, dovranno presentarsi alle Armi non oltre il 30
aprile 1917. Per quelle però residenti in paesi pei quali è
temporaneamente sospesa la presentazione alle armi di militari in
congedo rimane sospesa fino a nuovo ordine la presentazione stessa.
3. Le reclute, che si trovano nel Comune in cui ha sede il Comando del
distretto militare, dovranno presentarsi direttamente a tale Comando col
foglio provvisorio di congedo illimitato di cui furono provviste, nelle
ore antimeridiane del giorno indicato. Quelle non residenti nel detto
Comando si presenteranno in tempo opportuno al sindaco del Comune di
residenza per essere riunite in drappelli ed avviate al Comando del
distretto cui dovranno presentarsi munite del loro foglio provvisorio di
congedo illimitato. Le reclute chiamate alle armi, che avessero smarrito
il foglio provvisorio di congedo illimitato, devono sempre presentarsi
al sindaco del Comune di residenza, il quale, accertatosi della loro
identità, le munirà di analogo foglio di riconoscimento che tenga luogo
di quello |
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IMPIEGO DI MANO D'OPERA STRANIERA
dal sito
http://falcee.blogs.it/2008/02/26/sulla-storia-operaia-tempo-di-guerra-qua-3784272
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ORO ALLA PATRIA
Gli
scaldaranci erano cilindretti di carta avvolta e pressata, grossi come
un rullino di pellicola fotografica. Avvolta più volte e legata stretta
la carta veniva quindi immersa nella paraffina per diverse ore fino ad
impregnarsi. Concorrevano a questi lavori donne e bambini dei comitati
di assistenza. Altri costruivano con filo il fornelletto come l'immagine
sottostante
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...Nel maggio 1917 duecento capi famiglia di Zuara,
località libica vicina al confine tunisino, tentano di passare la
frontiera verso l'allora colonia francese, alla ricerca di lavoro.
Ameglio, governatore della Tripolitania, alla ricerca di soluzioni per una
popolazione allo stremo e per la situazione di "anarchia" che regna in
colonia, tenta, ma invano, una mediazione con la Francia per ottenere
l'assunzione degli zuarini in Tunisia. In questo quadro inizia il «primo
esperimento d'impiego della manodopera libica in Italia». Scartata
l'ipotesi di assumere eritrei, limitati nel numero e per la distanza di
quel territorio dall'Italia, a fine maggio del 1917, il governo della
Tripolitania e il ministero delle Colonie d'accordo con i ministeri
tecnici competenti, decidono di organizzare il reclutamento di quote
consistenti di libici da impiegarsi nelle fabbriche italiane. Dei 5480
arabi reclutati, ebrei e musulmani, rimarranno in Italia i morti: 9 quello
accertati, deceduti per malattie all'apparato respiratorio e dissenteria,
uno di loro in seguito ad infortunio sul lavoro. Il reclutamento è
organizzato prontamente e con grande impiego di mezzi. Ameglio vede
nell'esperimento una strada per limitare le forze dei guerriglieri: «tanti
uomini si manderanno in Italia tanti fucili in meno si avranno contro»
scrive il governatore nel settembre 1917. La militarizzazione prevista,
tuttavia, provoca qualche ostacolo. C'è chi teme che dietro la promessa
del lavoro in fabbrica si celi invece l'arruolamento per la guerra
europea. Ad ogni modo, sono la fame e la miseria a prevalere ed a
convincere gli arabi a partire per la "madrepatria". Il reclutamento
procede abbastanza celermente: fra luglio ed ottobre del 1917 giungono in
Italia ben 3425 arabi. Le condizioni offerte per l'ingaggio sono
allettanti, come lo può essere, d'altronde, qualsiasi offerta di lavoro
rispetto ad una situazione di estrema miseria: una paga da 3 a 3,50 lire
al giorno, l'assicurazione contro gli infortuni, il viaggio gratuito e
l'assistenza sanitaria. Giunti in Italia, gli operai arabi sono destinati
prevalentemente nelle fabbriche situate nel triangolo industriale, dove
arriva l'87 per cento della manodopera ingaggiata in Libia. L'Ansaldo, la
Fiat e le fabbriche presso Sesto S. Giovanni, fra cui la Breda e la
Pirelli, sono le ditte che impiegano il maggior numero di libici.
A settembre 1917 giunge uno scaglione anche in Sicilia, a Godrano, in
provincia di Palermo, dove i libici lavorano presso il vicino bosco
Ficuzza addetti al taglio e al trasporto della legna. A dicembre 1917 e ad
agosto 1918 altri due scaglioni arrivano rispettivamente a Montecelio, in
provincia di Roma, per lavorare alla costruzione del campo d'aviazione e a
Rosarno Calabro. Nel giro di un anno, gli operai libici giungono in 24
località sparse su tutto il territorio nazionale. Gli arabi sono
alloggiati in baraccamenti «da impiantarsi in luoghi appartati così da
permettere agli indigeni l'isolamento e la libertà necessaria alle loro
consuetudini di vita». Si vuole in realtà garantire il completo isolamento
dei libici, affinché sia precluso qualsiasi contatto con la popolazione
italiana ed inizialmente si dispone un vero e proprio stato di reclusione,
limitando i movimenti degli arabi alle aree attorno alle fabbriche a loro
destinate anche nelle ore di riposo. Alla militarizzazione stabilita per
tutti gli operai della mobilitazione, per i lavoratori libici si
aggiungono ulteriori restrizioni, soprattutto attraverso il rigido
controllo esercitato da parte del personale militare. Ad appena un mese
dal loro arrivo, gli operai del primo scaglione, in servizio presso
l'Ansaldo di Sampierdarena, sono in stato d'agitazione. Il ministero Armi
e Munizioni è costretto ad ammettere che la causa del malcontento vada
ricercata nella «assoluta limitazione di libertà agli indigeni anche nelle
ore di riposo». Intanto si decide di sostituire l'imam dello scaglione, ma
a metà dicembre le autorità concedono anche a tutti gli operai arabi
presenti in Italia la libera uscita il lunedì. La situazione, tuttavia,
continua ad essere tesa.
A fine ottobre lo stesso scaglione, dietro
incitamento del suo capogruppo, si rifiuta di ricevere la paga e chiede
con forza di essere rimpatriato. Le autorità reagiscono con durezza: il
capogruppo e altri tre operai, considerati i principali responsabili della
rivolta, sono tratti in arresto e condotti al forte San Giuliano. La
rivolta del primo scaglione sarà soltanto la prima di una lunga serie.
Alle rigide misure disciplinari, si uniscono condizioni di lavoro
particolarmente gravose. Gli arabi sono impiegati per lavori di
manovalanza, dalla fucinatura dei proiettili, al trasporto dei bossoli e
della legna. A metà novembre 1917, le autorità della mobilitazione
decidono di fissare la paga a 3,50 lire al giorno per otto ore di lavoro,
più eventuali compensi per le ore di straordinario. Ma la cifra
effettivamente riscossa dagli operai è assai più bassa, dovendosi detrarre
1 lira inviata alle famiglie e una quota oscillante da 1 a 1,20 lire per
il vitto. Escluse le detrazioni, in ogni caso, la paga degli arabi è
estremamente conveniente per le ditte italiane, attestandosi su una cifra
inferiore di quasi la metà rispetto a quella percepita dagli operai
italiani: a fine 1917 i manovali italiani del gruppo acciaierie del
Piemonte percepiscono in media 6,16 lire, quelli del gruppo fonderie 8,84
lire. Intanto il sussidio promesso alle famiglie arriva con consistenti
ritardi: più volte il governatore Ameglio deve reclamarne la liquidazione
alle autorità della mobilitazione, sottolineando lo stato di assoluta
indigenza in cui versa la popolazione della colonia. Le proteste
attraversano la gran parte degli scaglioni e si susseguono rapidamente:
dopo il primo, si solleverà anche il settimo, il quarto, il quinto… È
un'Italia pervasa dal razzismo, dall'ignoranza del diverso e dalla paura
della guerra. Quasi fossero animali, di fronte all'esplosione delle
rivolte, le autorità adottano misure di inaudita crudeltà: a maggio del
1918 autorizzano il ricorso a pene corporali «con un massimo di 25
fustigazioni» per gli operai di Linate, di Cagnola e di Sesto. Ma bisogna
anche garantirsi il loro miglior rendimento e così si stabilisce, per gli
stessi operai, l'aumento della paga a 4,32 lire giornaliere. Emblematica,
per l'intensità e le reazioni delle autorità italiane, è la grande rivolta
del settimo scaglione di operai ebrei, inizialmente in servizio a Linate
al Sambro, presso la Società derivati della cellulosa. Cominciata fra
novembre e dicembre 1917, la sollevazione dura diversi mesi. Una paga
misera, condizioni di vita nei baraccamenti al limite della sopportazione
e frequenti maltrattamenti sono all'origine della protesta. Alla denuncia
degli operai si unisce anche quella del prefetto di Milano che, contro
l'opinione espressa dai funzionari della mobilitazione industriale,
dichiara: «Non è quindi da meravigliarsi se tale trattamento, aggiunto
alla scarsezza delle paghe, aggiunto alle misure disciplinari troppo
severe consistenti spesso in punizioni corporali abbia determinato il
malcontento». Ma a monte ci sono anche motivazioni religiose. Il riposo
del sabato, innanzitutto, giorno nel quale, inizialmente gli operai si
rifiutano di lavorare, ma l'immediato intervento dei carabinieri e le
minacce che ne seguono convincono i più a desistere dall'astensione dal
lavoro nel giorno sacro per gli ebrei. A questo punto, però, è
l'intervento del rabbino di Milano a complicare la situazione, richiamando
all'osservanza del sabato tutti gli ebrei dello scaglione. Gli operai si
trovano così stretti fra due fuochi. A fine dicembre la situazione sembra
essere tornata alla normalità.
A marzo si decide di trasferire lo scaglione a Torino. E qui si verifica
un altro episodio di eccezionale gravità agli occhi di una comunità, quale
è quella ebraica libica, particolarmente conservatrice sotto l'aspetto
religioso: il battesimo di un ebreo in cura presso l'ospedale Duchessa
Isabella di Torino nell'estate del 1918. Il fatto è denunciato al
ministero delle Colonie dal tenente Castellazzi, uno dei pochi militari
amato e stimato dagli ebrei. Intanto, le notizie dei maltrattamenti subiti
dagli operai libici raggiungono anche il Parlamento e nel settembre 1918
il deputato socialista Giulio Casalini fa un'interrogazione parlamentare
sulla situazione del quarto scaglione. A poco serve l'inchiesta che ne
segue, se non per allontanare proprio il tenente Castellazzi, considerato
unico colpevole dei fatti denunciati e posto agli arresti di rigore.
Gennaio 1919. A Sesto si verifica l'ultima sollevazione degli operai
libici. Dopo più di un anno dal loro arrivo in Italia, la situazione al
campo di Precotto milanese diventa insostenibile: gli operai si rifiutano
di lavorare, chiedono il rimpatrio ed inizia un'altra rivolta, con lanci
di gavette e sassi. Seguono nuovamente le incarcerazioni dei «più
riottosi». A novembre 1918, a partire dal quinto scaglione, cominciano i
rimpatri. Mano a mano, nel giro di due mesi tutti gli arabi presenti in
Italia rientrano in patria. |
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(distintivo che ricevevano quelli dei comitati,
si distingue sia il fornelletto di filo che lo scaldarancio)
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La situazione dei rifornimenti non cambiò nell'inverno,
era necessario importare un milione e mezzo di tonnellate di merci al mese
e la nostra flotta poteva trasportarne solo un quarto. Il razionamento
includeva ormai pane, carne, zucchero, grassi e olio. Tutto il Nord Italia
venne militarizzato. Sui giornali la pubblicità più diffusa era come fare
il vino senza uva, e quali pillole prendere quando si era debilitati.
A
chiudere il cerchio giunse anche la spagnola che piano piano era
serpeggiata prima nell'esercito (7000 morti) e poi fra la popolazione
(oltre 300.000 morti). In pochi mesi dopo Caporetto l'industria
meccanica rimpiazzò tutte le armi andate perse durante la ritirata.
L'occupazione nell'industria aveva avuto un incremento di 500.000 unità.
Ma Vittorio Veneto era ormai in dirittura d'arrivo e finalmente la
guerra finì. La frattura fra le due Italie, quella minoritaria che
aveva imposto la guerra e quella maggioritaria che l'aveva subita, si
era ormai imposta, un solco profondo si era determinato nel paese ed era
destinato ad ampliarsi nel futuro. Nel campo industriale ci ritrovammo
con la Fiat, passata da 4.000 operai a 40.000 (anche assorbendo decine
di aziende) e l'Ansaldo a 56.000. La riconversione civile che sarebbe
stata inevitabile, doveva tenere conto ora del notevole miglioramento
della nostra produzione e mantenere i livelli raggiunti.
Sunto da Alessandro Frigerio
(www.cronologia.it)
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* Testimonianze
orali "Io ricordo ancora la guerra del '12, avevo cinque anni, ma
c'erano due donne che abitavano qui vicino a me, una anziana ed una più
giovane, madre e figlia. La madre aveva il figlio in Africa e ricordo che
tutti i giorni aspettavano il portalettere sperando di ricevere posta
dall'Africa Poi del 1915-18 ricordiamo le privazioni, le tessere: è stata
dura anche quella. Io ricordo che c'era poca roba e cattiva. C'era un olio che non si poteva adoperare, del lardo giallo
quasi immangiabile. Davano la tessera in base alle persone, un tanto a
testa. Noi avevamo campagna, ma compravamo un po' di tutto
perché non è che rendessero molto i nostri campi. A scuola con le
maestre facevamo gli 'scaldaranci' arrotolando i giornali vecchi,che poi si mandavano al
fronte per scaldare il pasto dei soldati.
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Antonio
Gibelli (“La Grande Guerra degli Italiani 1915-1918”)
“…non meno importante, fu la dilatazione dei compiti e dei ruoli delle
donne nelle campagne: secondo calcoli attendibili, su una popolazione di
4,8 milioni di uomini che lavoravano in agricoltura, 2,6 furono
richiamati alle armi, sicché rimasero attivi nei campi (a parte le
scarse licenze) solo 2,2 milioni di uomini sopra i 18 anni (in
realtà già esentati per vari problemi anche fisici o oltre i 37 anni non
ancora richiamati), più altri 1, 2 milioni tra i 10 e i 18 anni, contro
un totale di 6,2 milioni di donne superiori ai 10 anni. Inevitabile fu
l'occupazione femminile di spazi già riservati agli uomini, e
contemporaneamente lo straordinario aggravio di fatica e di
responsabilità. Le donne videro ancora dilatarsi i tempi e i cicli
abituali del lavoro (col coinvolgimento delle più piccole e delle più
vecchie), e dovettero coprire mansioni dalle quali erano state
tradizionalmente esentate”. Scompariva dunque la divisione del lavoro
che voleva affidati agli uomini i compiti più pesanti e impegnativi,
compresa la manovra delle macchine agricole. |
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