ANTONINO DI GIORGIO

Antonino Di Giorgio nacque a San Fratello (ME), il 22 settembre 1867 da una famiglia di piccola borghesia. Ottenne l’ammissione al collegio militare della Nunziatella poi alla Scuola militare di Modena. Col grado di sottotenente di fanteria nell’estate 1888, fu assegnato al 77° Fanteria a Pescara. Superati in seguito (1895) gli esami, per l’ammissione alla Scuola di guerra si offrì non chiamato per la colonia Eritrea all’indomani del rovescio d’Amba Alagi preludio di Adua. Fu assegnato al campo di radunata presso Adrigràt quale ufficiale addetto al comando del 6° Reggimento d’Africa. Per la brillante condotta in battaglia meritò la sua prima decorazione, una medaglia di bronzo. Subito dopo Adua, il tenente Di Giorgio ritornò in prima linea. Partecipò alla seconda fase della campagna d’Eritrea e meritò la seconda medaglia di bronzo al valor militare (2 maggio 1896). Completati i corsi della Scuola di Guerra (seleziona gli ufficiali di Stato Maggiore) prestò servizio quale capitano di SM dell’VIII cda con sede a Firenze. Nel 1907 Di Giorgio ottiene l’avanzamento al grado di maggiore per meriti eccezionali e ha modo in breve di verificare le sue vere capacità. Dopo aver riorganizzato con poche risorse un minuscolo corpo di truppa, condusse una rapida e brillante campagna vittoriosa contro le tribù somale dell’interno. L’11-12 Luglio 1908: la spedizione guidata dal magg. Di Giorgio libera Mérca, minacciata dai ribelli. Scontro a Merére tra i ribelli e gli uomini di Di Giorgio che sono costretti ad incendiare il villaggio ed in seguito ad occupare Afgòi. Il sultano di Ghelédi con 5000 armati si sottomette all'Italia. Dissidi con il governatore civile della colonia, Tommaso Carletti gli tagliano sviluppi successivi e ottiene di essere rimpatriato (1909). Nel 1911, scoppiata la guerra di Libia, il maggiore Di Giorgio venne mobilitato al comando di un battaglione dell’89° Reggimento Fanteria e per la terza, ed ultima, volta fu mandato in Africa. Anche da questa campagna uscì con l’Ordine Militare di Savoia, la medaglia d’argento e la promozione a tenente colonnello. Nel messinese, Di Giorgio era diventato un personaggio noto, stimato, e gli fu offerto di presentarsi candidato alle elezioni politiche generali del 1913, nel collegio del circondario di Mistretta (Messina). Di Giorgio accettò e si presentò da indipendente in una competizione dalla quale uscì vincitore sul candidato ministeriale. Ricordiamo che il terremoto di Messina aveva azzerato iniziative economiche e fra le sue proposte quella di spostare, o almeno attenuare il centro militare dal Nord (terrestre) al Sud marittimo in relazione alla nuova posizione che l’Italia avrebbe dovuto assumere nel Mediterraneo in seguito all’acquisizione della Libia. Suo anche di alcuni anni addietro (1905) “La rete ferroviaria della Sicilia nei riguardi della difesa”. Quale ufficiale dell’esercito volle rimanere in posizione indipendente anche in Politica ed i suoi modi si confacevano sia in borghese che in uniforme a un nobiluomo conservatore di stampo inglese. Alla Camera svolse significativi interventi nel suo campo specifico, quello militare. Egli, meglio di molti altri, intravide l’avvento della guerra imminente a cui l’Italia prestava scarsa attenzione e preparazione. Il generale Cadorna, che lo conosceva per una fitta corrispondenza di anni addietro, si avvalse della sua opera a livello politico. Nel maggio 1915 quando l’Italia entrò in guerra Cadorna lo volle vicino, quale ufficiale addetto al Comando Supremo, ma il sodalizio fu di breve durata. Chiese ed ottenne l’assegnazione a un comando quale Capo di Stato Maggiore dell’VIII cda (2a Armata); egli resse l’incarico con competenza e nel 1915 fu promosso colonnello. Nella primavera del 1916 ebbe la qualifica di colonnello brigadiere ed assunse il Comando della Brigata Bisagno (fanteria 209° e 210°), unità di nuova formazione costituita con reclute della classe 1896, assegnata al X cda della 1a Armata in Trentino. Di Giorgio si distinse ad arginare l’esercito austriaco nell’estate del 1916. Subito dopo passò a comandare il IV Raggruppamento Alpini (gruppi 8° e 9°). L’unità di Di Giorgio dipendeva dalla 52^ Divisione Alpini del XX cda della neo costituita 6a Armata già denominata Comando Truppe Altipiani creata per evitare ulteriori sorprese sugli Altipiani e per scardinare le difese dell’Ortigara porta del Trentino. Promosso maggior generale, assunse il comando della 51a Divisione in Valsugana, nel XVIII cda della 1a Armata. Era un comando tranquillo, dislocato in una zona di guerra piuttosto calma. Lì, fu tenuto estraneo persino dall'azione di Carzano che egli avrebbe guidato assai volentieri, tanto più che ricadeva territorialmente sul suo stesso settore del fronte; dopo si disse che se il colpo di mano fosse stato affidato ad uno come Di Giorgio l'operazione, probabilmente, avrebbe preso un'altra piega. Di li a un mese Caporetto e Di Giorgio chiamato a salvare il salvabile Questo giudizio fu avanzato dall'ideatore dell'impresa di Carzano C. Pettorelli Lalatta, dal generale E. Faldella e L. Bissolati, Diario di guerra, Einaudi, 1935 p. 104. L’azione di Carzano era in nuce la Caporetto degli Austriaci, in una zona non presidiata e sguarnita e questo un mese prima che sferrassero la loro dopo averla imbottita di armate. Lo sfondamento nemico a Caporetto colse il Di Giorgio mentre era a Roma, ove si era recato per partecipare alla seduta di riapertura della Camera; nella capitale, però, si ignorava ancora l’entità della rotta che l’esercito stava subendo. Neppure il generale Giardino, ministro della guerra, fu in grado, la sera del 25 ottobre, di fornirgli informazioni; queste giunsero solo l’indomani. Di Giorgio partì in treno quella sera stessa alla volta di Udine, richiamato d’urgenza al Comando Supremo dal capo di Stato Maggiore. In quell’ora critica, Cadorna aveva pensato di rivolgersi al Di Giorgio. Infatti, il Cadorna dispose tempestivamente, sin dal 26 ottobre, la creazione di una nuova grande unità d’emergenza, un corpo d’armata di formazione, per arginare l’avanzata nemica e coprire la ritirata delle truppe dall’Isonzo con un Corpo d’Armata Speciale. I reparti del Di Giorgio furono gli ultimi ad attraversare il Piave, la mattina del 9 novembre 1917. L’indomani il Corpo d’Armata Speciale (C.A.S.), assolto il suo compito, venne sciolto ed il Di Giorgio passò a comandare i resti del XXVII Corpo d’Armata (già di Badoglio) che erano riusciti a salvarsi nella ritirata da Caporetto. Dal 10 novembre egli divenne tenente generale. Il C.A.S. aveva dato il meglio di sé e neppure una più robusta unità avrebbe potuto fare di più. Nei frangenti della ritirata, lo stesso fatto che le sue colonne in armi marciassero contro il nemico, in direzione opposta dei reparti in ripiegamento, risalendo, su strade ingombre ed in mezzo a gravi disagi sia materiali che logistici, le fiumane di sbandati, di profughi e di disertori, costituì un titolo di merito particolare che si deve ascrivere a quanti fecero parte di quel Corpo. Sebbene né il Di Giorgio, né il C.A.S. abbiano poi ottenuto alcun specifico riconoscimento ufficiale di citazione al valore per la loro azione, essi furono sempre considerati quali esempio di fermezza e di ardimento dinanzi alla sconfitta, segno della volontà popolare di riscossa. Di Giorgio, che aveva emanato in quei giorni ordini di eccezionale severità nei confronti degli sbandati e dei disertori (disponendo di passare immediatamente per le armi quanti ostacolassero la resistenza), riconobbe costantemente durante l'azione il valore dei suoi soldati e, nel congedarsi da loro, li additò alla propria ed altrui ammirazione.

Di lui scrisse Rommel, all'epoca giovane tenente sul fronte italiano: 'Ebbi a che fare tra Piave e Tagliamento col famoso esiguo corpo del generale Di Giorgio, il quale ricopriva la ritirata italiana. Fu lottando contro questa unità meravigliosa che compresi come l'esercito di Conrad non sarebbe mai giunto a Milano'.

La parte avuta dal Di Giorgio nella difesa del Monte Grappa, durante la prima battaglia, alla guida del XXVII Corpo d’Armata (nella IV Armata) e dopo, nella seconda battaglia del Piave (con l’VIII Armata), dal novembre 1917 al giugno 1918, misero in luce la sua grande competenza tecnica al comando di grandi unità. Finita la guerra, Di Giorgio tornò in politica, ma la pace fu per lui, come per molti altri, assai diversa da come era stata immaginata nel maggio del 1915 e nei seguenti anni di lotta. Nei trattati di pace era per una soluzione di compromesso che fosse accettabile per tutti, che non scontentasse l’Italia e non ne ledesse il prestigio, ma altresì auspicava un’intesa con gli slavi. Fu per Fiume italiana ma avversò l’avventurismo dannunziano e degli arditi. Il suo giudizio negativo anche sul fascismo delle origine si modificò quando queste cominciarono a sembrare meno facinorose. Sembrò al Di Giorgio che fosse tornata la calma e che Mussolini offrisse qualche credibilità. In questo si disse lo trascinasse l’amico on. Luigi Federzoni, il maggior esponente politico del movimento nazionalista. Di Giorgio non era politicamente un democratico ma credeva nella democrazia come sistema di governo. Nel 1919 Di Giorgio aveva ripresentato la sua candidatura ed era stato confermato: questa volta era stato eletto nella circoscrizione di Messina. Questa città, dopo la guerra, gli aveva conferito la cittadinanza onoraria in riconoscimento dei suoi meriti sin dall’epoca del terremoto nel quale egli aveva perso suo padre. Nelle elezioni del 1921 preferì non rinnovare la candidatura e si ritirò dalla politica, amareggiato dal nuovo corso delle vicende italiane che sperò provvisorie.

La pausa gli servì anche, alla veneranda età di 54 anni, a prendere moglie. Il 6 febbraio 1922 sposò a Palermo la signorina Norina Whitaker (37 anni nata nel 1884), esponente di una famiglia di origine inglese (tutt'ora di cittadinanza inglese) trapiantata in Sicilia sin dai primi dell’ottocento, signorile, altolocata e di stile aristocratico. Di Giorgio col matrimonio era entrato a far parte della famiglia Whitaker* e della miriade di affari che da sempre gestivano. Anche sua l’idea di introdurre in Italia una pianta messicana “l'Agave sisalana” che dava fibre da tessere vegetali, di cui l’Italia era carente. In una nota relativa alla coltura di tale pianta, che si conserva nell'Archivio Whitaker, ne mette in rilievo l'importanza economica anche per la Sicilia e il continente italiano. Col matrimonio anche la ripresa della carriera politica e l’inserimento nel Listone.

Mussolini nell'aprile del 1924, lo chiamò al Ministero della Guerra a succedere ad Armando Diaz, duca della Vittoria che presentava precarie condizioni di salute. Fu infatti l’on. Federzoni a far incontrare, nell’ottobre del 1923, il generale siciliano con Mussolini che non lo conosceva di persona e ne rimase favorevolmente impressionato. Di Giorgio era quel fiore all’occhiello che mancava al fascismo siciliano che era sorto tardivamente nell’Isola. L’esercito versava ancora nella crisi di smobilitazione del dopo guerra. Era necessario rimediare alle condizioni sfavorevoli delle forze armate; bisognava porre fine in qualche modo al disagio morale e materiale troppo a lungo trascurato. Le autorità militari (e la corona) sembrava quasi che attendessero su questo banco di prova il fascismo. Come politico ricco non temeva ricatti e condizionamenti, cosa che invece succede coi poveri sotto vari aspetti (o rubi o ti corrompono). Come ufficiale era ligio alla Corona e ciò non poteva che piacere al Re. Mussolini, pertanto, non appena il Diaz manifestò il proprio desiderio di dimettersi, decise d’affidarsi al Di Giorgio dandogli carta bianca ( http://www.geocities.com/capitolhill/rotunda/2209/Italy.html tutti i governi fino al 45). Il generale siciliano finì però in breve con l’avere tutte le parti contro di sé. Ben visto prima, finì col non riuscire gradito a nessuno per eccesso di qualità ed in una contingenza storica particolare. La sua posizione risultò troppo indipendente. Le sue teorie sulla nazione armata all’altezza dei nostri potenti confinanti, col fascismo si tradusse in slogan da parata (qualcuno dirà che aveva sbagliato paese). La riforma Di Giorgio poneva l’accento su un sistema basato in nuclei stabili di –limitate- forze militari dotate di ampi mezzi a cui si sarebbero affiancati, per brevi periodi d’addestramento e permanenza reparti quadro di volontari (un po' quello che è in vigore ora 2012).

"Non ho chiesto e non ho accettato la tessera del partito fascista perché soldato, non posso conoscere altri doveri che quelli liberamente giurati nell’atto di vestire la divisa, …. ad Aspromonte e a Fiume (e a Roma), l’esercito avrebbe sicuramente obbedito al potere legalmente costituito solo se questo potere avesse avuto il coraggio di dare l’ordine della resistenza, …. la tradizione dell’esercito italiano è quella di vivere estraneo alla politica, strumento fedele nella mani della potestà civile”. Questi concetti egli li ribadì alla Camera e già nella nuova veste di ministro.

La riforma Di Giorgio nei punti essenziali: Il non essere vicino all’Establishment giocò sicuramente a suo sfavore: basti pensare che il “perdente” a gravi responsabilità Cadorna verrà poi osannato. “Non si sa padroneggiare” disse questi, il cui self-control nell'analizzare con distacco le liste delle perdite era proverbiale. Una riforma dell’esercito o della difesa era sicuramente necessaria visto il prezzo pagato in termini umani e tutto quello che si poteva proporre cadeva su un campo vergine. Bastava correggere metà degli svarioni che sarebbe già stato un buon successo.  Così disse alla Camera dei deputati: 'Occorre un sistema che eviti un qualsiasi disordine e assicuri l'accurata predisposizione di tutti gli elementi delle forze belliche, quadri e truppe, stati maggiori e comandi, materiali e servizi, per formare allo scoppio della guerra rapidamente e ordinatamente le grandi unità e i grandi organi dell'esercito in campagna, un sistema insomma che consenta di mettere su per la guerra un numero di grandi unità proporzionato alla nostra potenzialità demografica. Un principio è emerso dalla grandiosa esperienza, chiaro a tutti e da tutti accettato: il principio che la guerra è fatta dall'intera nazione e non già dall'esercito soltanto'. Eravamo entrati in guerra con un esercito di leva di massa poco comandato, in mano a ufficiali di complemento e privo delle armi moderne. Dopo 4 mesi la mobilitazione era ancora in corso, senza contare che si mandavano in linea soldati privi di qualsiasi addestramento. L'ordinamento proposto era fondato su una premessa di base. Delle tre voci che più incidevano sul bilancio, i quadri ufficiali (ufficiali veri assenti prima), i materiali (inesistenti) e la forza alle armi (la carne da cannone di Cadorna) andavano incrementate le prime due a scapito della terza, in quanto 125 reggimenti mangiavano le spese delle prime due categorie (i reggimenti della grande guerra furono il doppio !!!) . Un confronto: il nostro battaglione di fanteria aveva 8 mitragliatrici contro le 52 del francese. In pratica si dimezzavano i reggimenti di fanteria con efficienza operativa costante e il resto a leve corte (3 mesi) turnanti. I fondi recuperati andavano destinati ai materiali, per i quali occorreva privilegiare la ricerca e la sperimentazione, accumulando tutto quanto doveva servire per la trasformazione dei centri addestramento in reparti operativi e al miglioramento della professionalità degli ufficiali di carriera e non. Cosa “grave” c’era, fra i provvedimenti, l’eliminazione del Consiglio Superiore dell'esercito definito ironicamente 'il Soviet', composto dal Duca d'Aosta, Giardino, Caviglia, Montuori, Tassoni, Petiti di Roreto e Ferrari che in tre sedute bandì il provvedimento. Di Giorgio lo portò al Consiglio dei Ministri poi in parlamento dove le stesse persone di sopra lo affossarono. In pratica avevamo già perso la seconda guerra mondiale. Giardino concluse il suo intervento: 'Io che ho difeso l'Italia sul Grappa, sento oggi di combattere una battaglia ancora più importante perché difendo l'esercito stesso dalla distruzione'. Ad essi si unì l'ammiraglio Revel. Mussolini che ha bisogno dell'appoggio delle gerarchie militari il due aprile dichiarò: 'Orbene, a questo punto, il Governo vi dice a mio mezzo che è necessario riflettere' e ritirò il progetto.
 

Di Giorgio era entrato in carica ai primi d’aprile del '24, subito dopo la riapertura della Camera avvenne l’assassinio dell’on. Matteotti, il fatto politico che produsse una svolta nel fascismo ed indusse Mussolini ad accelerare i tempi per l’instaurazione della dittatura. Fu nella seconda metà del ‘24, in piena maturazione e crescita della crisi politica del fascismo determinata dal caso Matteotti, che Di Giorgio impostò il suo progetto di riordinamento dell’esercito visto sopra. Il momento non poteva essere meno propizio, specie per un disegno di questo genere. Quando il progetto Di Giorgio fu sottoposto all’esame -consultivo- del Consiglio Superiore dell’esercito andò incontro al naufragio più completo. Per cercare una via d’uscita Di Giorgio scrisse ai due marescialli, Diaz e Cadorna (il vincitore e il perdente che due idee contrapposte dovevano pur averle), chiedendo il loro parere. Rispose Cadorna, prima in senso positivo e con qualche riserva marginale, ma poi ritirò l’adesione. Diaz era contrario e con lui, come visto, tutti i capi più autorevoli dell’esercito. L’iter parlamentare al Senato fu disastroso. La Commissione senatoriale dell’Ufficio di Presidenza approvò la relazione contraria proposta da Giardino, 11 voti contro 2, bocciando quella favorevole avanzata dal Di Robilant, unico generale rimasto a sostenere il progetto. Di Giorgio, che non era una persona accomodante e nemmeno un arrivista si dimise dalla carica ministeriale che aveva ricoperto per un anno; il 4 aprile 1925 le dimissioni venivano formalmente accettate. La carica ad Interim andava a Mussolini che non l’avrebbe più lasciata fino a Luglio ‘43. Nel frattempo, il generale Di Giorgio aveva ripreso servizio attivo. Fu dapprima capo del Corpo d’Armata di Firenze e poi, nel 1926, al comando di quello di Palermo, secondo il suo desiderio. In Sicilia egli concluse la sua carriera. Nel giugno del 1927, pronunciò il discorso inaugurale per il I° congresso regionale in favore del rimboschimento isolano. In quello stesso anno entrò in vivace dissidio con Mussolini, per il grave contrasto che l’oppose al prefetto Mori, per i metodi ed i criteri che quest’ultimo impiegò durante la sua indiscriminata repressione del fenomeno mafioso in Sicilia. Nel 1927 Mussolini fece bloccare il provvedimento di nomina del Di Giorgio a generale designato d’armata. Il 5 marzo 1928 il Di Giorgio, sdegnato del trattamento iniquo che gli era stato riservato e delle accuse ingiuriose lanciate contro la sua persona, ricredendosi nei confronti del sistema fascista, si dimise per protesta dalla carica di deputato e rassegnò anche il comando militare, chiedendo di essere collocato in posizione ausiliaria nell’esercito. La morte lo colse, improvvisa e prematura il 17 aprile 1932, per crisi cardiaca sopravvenuta al decorso di una operazione cui aveva voluto sottoporsi. Ricordi della grande guerra (1915-1918) il libro sulla battaglia dell’Ortigara pubblicato postumo.  Estratto dalla relazione di Giuseppe De Stefani in: Atti del seminario di studio "I Whitaker di villa Malfitano", tenutosi in Palermo il 16 - 18 marzo 1995, pubblicati dalla Fondazione "Giuseppe Whitaker" con il patrocinio dell’Assessorato dei Beni Culturali, Ambientali e della Pubblica Istruzione della Regione Siciliana nel dicembre 1995 e riassunti da Salvatore Gerbino

*http://web.tiscali.it/fondazionewhitaker/ Quando Di Giorgio entra nella famiglia Whitaker, questa ha gia iniziato una decadenza fisica ed economica innescata da vari fattori. Di Giorgio si "innamora" di Norina  che, dopo aver cercato di mantenere il rapporto sul piano dell'amicizia, ne accetta la corte. Personaggio particolare questo che ha eliminato, in soggezione alla madre tutti i pretendenti degli ultimi 15 anni. Seguono lettere, bisticci da innamorati e passeggiate al chiaro di luna. Norina piange perché non sa che decisione prendere «Ho l'impressione di lasciarla andare alla deriva - scrive Tina la madre nel settembre del 1921 - e d'altra parte che posso fare? Inutile farle notare che lui è di soli nove anni più giovane di me (Tina la madre). Dopotutto lei è una donna di 37 anni, anche se non sembra rendersi conto che, a quell'età, un uomo è probabile consideri il matrimonio da un punto di vista pratico, e che quindi Norina non può aspettarsi da lui troppo sentimento». Norina infine si decide e si fidanza con Antonino che tratta e risolve, nel corso di una lunga chiacchierata con Tina, le questioni finanziarie. Viene fatta visitare da un medico che le assicura «che il matrimonio e una nuova vita sarebbero stati per lei la cura migliore (per le sue malattie immaginarie). Le nozze vengono celebrate nel 1922 e gli sposi partono subito per una luna di miele di tre settimane sull'isola di "Motya"

(Mozia nello stagnone di Marsala. Fino al 1971 si poteva raggiungere l'isola anche a bordo di un carretto trainato da un cavallo lungo il tracciato di una strada fenicia che collega l'isola alla terraferma e che ora è sommersa (la strada, costruita intorno alla metà del VI sec. a.C., è impostata su un argine o terrapieno artificiale, lungo m 1715, a sezione trapezoidale, generalmente largo circa m 12,5 alla base e 7-8 alla sommità). Dato che la strada si trova appena sotto il pelo dell'acqua si aveva la strana sensazione che il carretto "camminasse sull'acqua. Era questo il mezzo più comune per il trasporto dell'uva Grillo coltivata sull'isola dal XIX sec, ed utilizzata per la produzione del Marsala commerciato dai Whitaker  ( http://www.regione.sicilia.it/beniculturali/SoprinTP/arche/strada_marina.htm ). 

Norina ha dovuto poi seguirlo a Roma mentre i suoi disturbi, invece che diminuire, aumentano.  Così scriveva di un pomeriggio di Shopping "Oggi, poi, ho avuto un pomeriggio molto stancante in quanto, essendomi resa conto d'aver bisogno urgente di un vestito di seta, mi sono fatta accompagnare da Antonino da "Merveilleuse", dove tuttavia non ho trovato niente, pur essendovi dei modelli graziosi, i disegni della seta erano orribili! Quindi abbiamo provato ad andare dalla "Torinese", ma c'era troppa folla. Alla fine ho preso della stoffa da "Coen", dove ho dovuto lottare e sudare per farmi largo tra la folla: adesso Filomena sta provando a realizzare il vestito con questa stoffa, che è verde a pois neri". L'uomo che aveva comandato un'armata si sente veramente in difficoltà e fuori luogo in simili strategici frangenti.

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