LUIGI ATTILIO CAPELLO
“In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e volontà della nazione Re d’Italia, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato istituito ai sensi dell’art. 7 legge 25 novembre 1926 n. 2008, composto dai signori (omissis) ha pronunciato la seguente sentenza nella causa contro Zaniboni Tito e Capello Luigi, generale d’Armata nella riserva. Capi d’imputazione: Zaniboni Tito: a) dei delitti di cui all’art. 134 n. 2 - 136 e 120 del Codice penale per avere in Roma il 4 novembre 1925, dopo essersene con altri anche in luoghi diversi e in precedenza concertato e stabilito la consumazione con determinati mezzi - propaganda sediziosa contro il governo, raccolta di denaro, preparazione di squadra d’azione, uccisione del presidente del Consiglio e provvisoria istituzione di una dittatura militare - commesso un fatto diretto a far sorgere in armi gli abitanti del Regno contro i poteri dello Stato mediante attentato alla vita di Sua Eccellenza Benito Mussolini; b) dei delitti di cui agli art. 364, 365, 366 n. 2 e 5, 139 del Codice penale per avere in Roma il 4 novembre 1925, per facilitare e consumare il reato di cui alla lettera precedente, e con premeditazione a fine di uccidere Sua Eccellenza il presidente del Consiglio dei ministri onorevole Benito Mussolini, a causa delle sue funzioni, cominciato con mezzi idonei, la esecuzione del delitto apprestandosi a colpirlo con un fucile di precisione, da una finestra dell’albergo Dragoni, nell’atto in cui si sarebbe affacciato al poggiolo, del vicino Palazzo Chigi, per assistere al corteo della Vittoria, senza riuscire però a compiere tutto ciò che era necessario alla consumazione dell’omicidio, per circostanza indipendenti della sua volontà, essendo stato sorpreso e fermato da ufficiali ed agenti della polizia giudiziaria; c) dei delitti di cui all’art. 464 modificato del Codice penale 2 Regio decreto 30 dicembre 1923 e n. 3279 tab. A Tit. IV, allegati I e 5 Regio decreto agosto 1919 n. 1360 per aver portato abusivamente nelle circostanze di tempo e di luogo sopra indicate, un fucile Stayer non denunciato. Capello Luigi: del delitto di cui all’art. 64 del Codice penale per avere, nelle dette circostanze di tempo e di luogo, rafforzato nello Zaniboni la risoluzione di commettere i due delitti a lui sopra imputati; e anche del delitto di cui all’art. 64 n. 2 e 3 del Codice penale per aver inoltre procurato il mezzo di eseguire i delitti e prestato assistenza ed aiuto prima e durante i fatti, e cioè nel procurare l’arma, col somministrare denaro, col trovarsi a Roma al momento dell’esecuzione, con la preparazione di squadre d’azione. Per questi motivi, il Tribunale letti gli art. (omissis) decide nel modo seguente: dichiara Zaniboni Tito colpevole dei reati d’insurrezione contro i poteri dello Stato, di tentato omicidio qualificato e di porto abusivo di fucile non denunciato e come tale lo condanna complessivamente a trenta anni di reclusione, a tre anni di vigilanza speciale della Pubblica sicurezza, alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, a lire 360 di tassa fissa sulle concessioni governative e ad ogni altra conseguenza di legge. Dichiara Capello Luigi colpevole di complicità necessaria nei reati d’insurrezione e di tentato omicidio qualificato ascritti allo Zaniboni e come tale lo condanna complessivamente a trenta anni di reclusione, a tre anni di vigilanza speciale della Pubblica sicurezza ed alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, nonché ad ogni altra conseguenza di legge”. 22 aprile 1927
Dario Ascolano |
Nato a Intra (Novara) il 14 apr (21/6 ?). 1859
da Enrico e da Ernesta Volpi, venne avviato alla carnera militare dal padre,
funzionario dei telegrafi. Allievo dell’Accademia militare nel 1875,
sottotenente di fanteria nel 1878, iniziò la sua carriera militare nel
46° reggimento di fanteria. Promosso tenente nel 1881 prestò servizio nel corpo
degli alpini e raggiunse il grado di capitano nel 1885. Frequentò intanto per 2 anni
la scuola di guerra conseguendo il brevetto di ufficiale di S. M..
Rivelava contemporaneamente una vastità di interessi poco comune negli ambienti
militari del tempo, tanto che nel 1893, di stanza a Napoli come maggiore,
collaborò al Corriere di Napoli con F.S. Nitti e G. D’Annunzio. I suoi articoli
di critica militare, che sostenevano la necessità dell’offensiva e dello spirito
di iniziativa a tutti i livelli e polemizzavano contro lo spirito di casta
dell’esercito e il criterio burocratico dell’avanzamento per anzianità, gli
valsero un trasferimento a Cuneo per punizione. La sua carriera non ne fu
compromessa e nel 1898 conseguì la promozione a colonnello e il comando del 50°
fanteria. Verosimilmente in questi anni entrò nella massoneria,
raggiungendovi posizioni di responsabilità e stringendo rapporti con personalità
politiche; è attestata la sua simpatia per il socialismo riformista e in
particolare per Bissolati, che lo ricambiava di pari stima. Risulta iscritto (e
iniziato alla Loggia Fides di Torino ed elevato al grado di Gran Maestro
nel 1910. Maggiore generale e
comandante della brigata Abruzzi nel 1910, il C. partecipò alla campagna di
Libia alla testa di una brigata di fanteria dislocata a Derna. Nei diversi
combattimenti in cui fu impegnato e nella vita di guarnigione diede prova di
energia e decisione, distinguendosi per spirito aggressivo e severità e
attirandosi così alcuni attacchi di stampa.
Come risulta dalle sue carte, il C. criticava fortemente la prudenza degli alti
comandi, che prescrivevano un contegno passivo alle truppe italiane malgrado la
loro schiacciante superiorità in uomini, mezzi e organizzazione. Questo
guerreggiare difensivo, scriveva, non poteva che “atrofizzare ogni sentimento
di iniziativa e di offensiva” e rendere necessario “ molto tempo a pace conclusa
per togliere tante idee storte e ritornare ad una educazione consona all’unico
sistema di guerra che possa dare la vittoria”. In queste parole e in tutto il
suo comportamento emergeva già la sua decisa convinzione che solo l’offensiva
potesse risolvere le guerre. Allo scoppio del conflitto mondiale il C. comandava la 25a divisione di stanza a Cagliari. Sono interessanti alcune sue circolari del settembre-ottobre 1914 che rivelano una preoccupazione assai rara nei comandi italiani per la preparazione morale dei soldati e l’organizzazione di una propaganda capillare nei reparti, prassi che non esisteva ancora. Con l’intervento italiano la 25a divisione fu assegnata alla 3a armata e prese parte alle prime battaglie sul Carso, in cui si distinse specialmente la sua brigata Sassari; ma già il 28 sett. 1915 il C., promosso tenente generale, era destinato al comando del VI corpo d’armata che fronteggiava la testa di ponte austro-ungarica di Gorizia. Contro i pilastri di questa testa di ponte, le alture del Sabotino e del Podgora, il VI corpo sferrò ripetuti sanguinosissimi attacchi nel corso della 3a e 4a battaglia dell’Isonzo (ottobre-novembre 1915), senza riuscire a intaccare la linea di resistenza nemica; i non grandi vantaggi territoriali andarono in parte perduti nel corso di una controffensiva austro-ungarica nella zona di Oslavia nel gennaio 1916. Il prestigio del C. non fu scosso da questi insuccessi, perché su tutto il fronte italiano la necessità politica di una condotta offensiva della guerra anche in assenza di adeguati mezzi bellici aveva portato al sacrificio delle truppe senza un corrispettivo di guadagni territoriali e di vittorie evidenti. La pausa invernale, l’affluenza di reparti di nuova costituzione e lo sviluppo dell’artiglieria italiana permisero al C. di impostare su nuove basi la conquista della testa di ponte di Gorizia, il gen. Montuori, comandante della 4a divisione, e il col. Badoglio curarono un’attenta preparazione del terreno sul Sabotino, tanto che quando il 6 ago. 1916 fu sferrata l’offensiva (ritardata fino ad allora per la Strafexpedition austro-ungarica nel Trentino) il terribile caposaldo fu conquistato con un attacco travolgente quasi senza perdite. Lo sfruttamento della rottura fu però ostacolato dalla scarsezza delle riserve che il comando della 3a armata aveva concesso; tuttavia le truppe del VI corpo giunsero l’8 agosto all’Isonzo, lo passarono il giorno successivo e occuparono Gorizia spingendosi sino alle alture a est della città, dove però il loro impeto si infranse contro le nuove posizioni nemiche. Il mancato sfruttamento strategico della rottura del Sabotino nulla toglieva alla risonanza della conquista di Gorizia (il primo netto successo della guerra italiana) e ai meriti del C., la cui popolarità crebbe rapidamente sino a metterlo in urto con Cadorna. Gli avversari del generalissimo italiano vedevano infatti nel C. un possibile successore, capace di imprimere un nuovo dinamismo offensivo alla guerra italiana e di stabilire rapporti più intensi e proficui tra paese ed esercito. Oltre alle sue indiscusse qualità militari giocavano a favore del C. la sua familiarità con gli ambienti politici interventisti, i legami stretti con molti giornalisti e l’ascendente su giovani ufficiali di complemento che brillavano per ingegno e cultura (da Alessandro Casati ad Ardengo Soffici). Non è dato sapere fino a che punto il C. incoraggiasse o subisse le interessate premure degli avversari di Cadorna; certo è che il comando del VI corpo era diventato un centro di contatti politici, intellettuali e giornalistici. Cadorna se ne preoccupò sino a decidere di colpire il potenziale rivale; e poiché non poteva silurarlo all’indomani della vittoria di Gorizia (l'eroe), il 12 sett. 1916 lo rimosse dal Comando del VI corpo passandolo a quello di assai minor rilievo del XXII corpo d’armata sugli Altopiani. Il carattere punitivo del trasferimento era sottolineato dal fatto che il C. veniva a trovarsi agli ordini del gen. Mambretti, fino a quattro mesi prima suo sottoposto e noto jettatore (“E’ una persona tutt’altro che antipatica. Tutte le azioni alle quali ha preso parte sono andate male da Adua in poi”. “Il tempo — scrisse Cadorna il 17 giugno — è bello e caldo. Domani M. ritenta l’operazione. Sull’Ortigara o si va oltre o si torma indietro. Speriamo che egli riesca anche a sfatare la deplorevole leggenda di jettatore che gli hanno appioppato. E’ una stupidaggine, lo so, ma in Italia compromette la reputazione e il prestigio. Figurati che, quando saltò prematuramente quella mina ... (120 fra soldati e ufficiali perdono la vita nella posizione detta della "Lunetta" di monte Zebio), che dovevano andare all’assalto, attribuirono la cosa alla sua jella”) . Il provvedimento si inseriva in una più ampia offensiva di Cadorna contro le ingerenze del governo nella condotta delle operazioni; negli stessi giorni infatti il generalissimo vietò l’accesso della zona di guerra ai ministri e particolarmente a Bissolati, che pure era il ministro incaricato dei rapporti con il Comando Supremo. Il dissidio fu composto nei mesi seguenti con il rafforzamento della posizione di Cadorna, la sua rappacificazione con Bissolati e il ristabilimento di rapporti corretti tra governo e Comando Supremo. Se ne avvantaggiò il C., che il 13 dic. 1916 passò a comandare il V corpo della 1a armata e il 28 dicembre ricevette la nomina a grand’ufficiale dell’Ordine militare di Savoia per la parte avuta nella vittoria di Gorizia. Nel marzo 1917 infine Cadorna, che nonostante le differenze di orientamento politico e di personalità riconosceva nel C. il migliore dei suo generali, lo richiamò sul fronte dell’Isonzo affidandogli il comando della zona Gorizia di nuova costituzione, che di fatto, anche se non ancora di nome, aveva il ruolo di un’armata (10 marzo 1917). Il piano di Cadorna per la decima battaglia dell’Isonzo, iniziata il 12 maggio 1917, prevedeva, in un primo tempo, la conquista delle alture del Kulc, Vodice e Monte Santo ad opera delle truppe della zona Gorizia e poi lo spostamento del centro di gravità dell’offensiva più a sud, contro l’Hermada, ad opera della 3a armata. Nonostante la superiorità di forze e l’accurata preparazione del C. e del suo capo di Stato Maggiore Badoglio (che durante la battaglia assunse il comando del Il corpo d’armata) l’attacco iniziale portò solo alla conquista del Kuk; il C. ottenne però l’autorizzazione a protrarre gli sforzi e, a prezzo di perdite sanguinosissime, riuscì a occupare anche il Vodice, mentre il Monte Santo resistette ad ogni assalto. Il prolungamento dell’offensiva a nord provocò però l’insuccesso degli attacchi all’Hermada; la battaglia, sospesa il 28 maggio, portava ancora una volta solo a successi tattici non risolutivi pagati a duro prezzo. Ne usciva rafforzata la posizione del C. che il I° giugno passò a comandare la 2° armata, in cui era assorbita la zona Gorizia. Anche per l’undicesima battaglia dell’Isonzo (nota anche come battaglia della Bainsizza, 18 ago. - 15 sett. 1917) Cadorna aveva previsto un duplice attacco, a nord con la 2° armata verso l’altopiano della Bainsizza, a sud con la 3° armata sul Carso. Il C. chiese però di estendere l’offensiva anche alla testa di ponte austroungarica di Tolmino, con azione fino al Monte Nero; e Cadorna acconsentì perché fiducioso nell’eccezionale concentramento di forze: 51 divisioni con 5.200 pezzi d’artiglieria. L’offensiva della 2° armata ottenne un rapido successo sulla Bainsizza, ma falli verso Tolmino, malgrado il C. concentrasse in questo settore le sue riserve. La conquista dell’altopiano della Bainsizza costituiva comunque un grosso successo tattico, specie in confronto al fallimento della contemporanea offensiva sul Carso. Sperando di ampliare la vittoria, il C. chiese allora ed ottenne di prolungare la battaglia con una serie di sanguinosissimi attacchi al San Gabriele, chiave delle posizioni nemiche ad est di Gorizia; ne conseguì un doloroso logoramento di truppe già provate, che non riuscirono a espugnare le munite linee nemiche. I successi del Kuk, del Vodice e della Bainsizza, gli unici conseguiti dall’esercito italiano nel 1917, consolidarono la reputazione di comandante del C., che il 6 ottobre fu fatto cavaliere di gran croce dell’Ordine militare di Savoia. Suo merito precipuo era l’accurata preparazione iniziale, basata su possenti ed elastici concentramenti d’artiglieria, che in entrambe le battaglie garantì il rapido successo di una parte dei primi attacchi. Altra caratteristica era un’elevatissima volontà offensiva che, trasmessa a tutti i comandi dipendenti, valeva ad assicurare molta decisione nei reiterati assalti, ma portava anche a prolungare la battaglia oltre i limiti della convenienza. Comandante duro ed energico verso i suoi ufficiali, ma capace di suscitare entusiasmo e dedizione in quanti lo avvicinavano, il C. non trascurava l’addestramento delle truppe e la loro preparazione morale, ma le sottoponeva senza esitazione a sforzi sanguinosissimi, che non potevano non avere gravi conseguenze. Si trattava di una situazione comune a tutto l’esercito, più sentita nella 2° armata solo perché su di essa era ricaduto il peso maggiore delle battaglie del 1917; e non ne fu danneggiata la popolarità del C., che proprio allora raggiungeva il culmine. Il comando della 2° armata divenne un punto d’incontro di uomini politici e di intellettuali interventisti, quasi in contrapposizione al grigio e ufficiale Comando Supremo. I rapporti tra Cadorna e il C. tuttavia si mantennero sufficientemente buoni: i successi dell’estate avevano rafforzato anche la posizione del generalissimo, che non temeva più di essere sostituito e poteva quindi accettare la popolarità e i legami politici del comandante della 2° annata, E questi a sua volta pareva soddisfatto di essere diventato incontestabilmente il numero due dell’esercito, anche se lasciava correre la voce che in ogni offensiva fosse stato il Comando Supremo a fermarlo limitandogli i rincalzi e le munizioni d’artiglieria. Tra i due uomini c’erano rapporti di stima, non amicizia né possibilità di comprensione; e il risultato era che Cadorna tendeva a lasciare anche troppa libertà d’azione al suo dinamico subordinato, già portato per suo conto ad agire di propria iniziativa. Il 18 sett. 1917 Cadorna avvertì i comandanti della 2° e della 3° annata di aver rinunciato alla progettata offensiva autunnale in vista di un probabile serio attacco nemico e di aver deciso di concentrare ogni attività nelle predisposizioni per la difesa ad oltranza. Si limitò però a queste direttive di massima, sottovalutando le dimensioni e la pericolosità della controffensiva austro-tedesca, e non si preoccupò di impostare una battaglia difensiva unitaria né di crearsi adeguate riserve. Il C. fu quindi libero di preparare non una difensiva, ma una controffensiva in grande stile: egli giustamente si attendeva che l’attacco nemico sboccasse dalla testa di ponte di Tolmino, per puntare su Cividale; e si proponeva di stroncarlo soprattutto con un contrattacco che partendo dalla Bainsizza tagliasse fuori Tolmino e rovesciasse l’intera ala settentrionale nemica. Il deficiente collegamento tra il Comando Supremo e il comando della 2° armata, aggravato dalle condizioni di salute del C. (costretto a letto dalla nefrite, dal 9 al 23 ottobre egli cedette formalmente il comando dell’armata al gen. Montuori, pur continuando ad esercitarlo di fatto), fece sì che questo piano ambizioso fosse portato avanti in contrasto con le direttive di Cadorna (peraltro informato di tutto) e in assenza dei mezzi necessari. Solo il 19 ottobre, dopo aver finalmente ottenuto un colloquio con Cadorna, il C. rinunciava ai propositi di controffensiva ed emanava tardive disposizioni per la battaglia difensiva, senza però poter modificare uno schieramento già troppo proiettato in avanti (e condiviso dai sottoposti). La deficiente impostazione strategica di Cadorna veniva così aggravata dalla divergenza col C., troppo tardi affrontata, e dall’iniziativa dei comandanti di corpo della 2a armata (e in particolare di Badoglio, il cui XXVII corpo fronteggiava la testa di ponte di Tolmino), tutti orientati alla preparazione di contrattacchi più che alla difesa delle loro linee da un nemico di cui si sottovalutava la capacità di manovra. Il 23 ottobre, nell’imminenza dell’offensiva austro-tedesca, il C. riassunse anche formalmente il comando della 2a armata, benché tutt’altro che ristabilito. L’indomani mattina si scatenò l’attacco nemico che, contenuto sul fronte del IV corpo, sfondò le posizioni del XXVII corpo e raggiunse rapidamente Caporetto, prendendo a rovescio l’estrema sinistra della 2a armata. La profondità e la celerità della penetrazione e l’abilità manovriera dei reparti tedeschi sconvolgevano tutte le predisposizioni italiane impedendo un’efficace azione di comando; i contrattacchi ordinati si rivelarono superati dagli avvenimenti, le riserve frettolosamente avviate per tamponare la falla furono sorprese ancora in marcia dall’avanzata nemica. Il mattino del 25 ottobre, considerando l’ampiezza dello sfondamento e l’insufficiente resistenza di molti reparti, il C. propose a Cadorna, nel corso di un colloquio a Udine, di ordinare la ritirata generale sul Tagliamento per permettere all’esercito di riprendere fiato e fiducia; diramò anche le direttive per la ritirata della 2a armata (ritardata di 36 ore dal Cadorna) e poi lasciò il comando per il precipitare delle sue condizioni fisiche. Si riprometteva di tornare al suo posto dopo quattro giorni di riposo, ma le pressioni dei medici e le preoccupazioni di Cadorna per la continuità dell’azione di comando lo costrinsero ad assistere agli sviluppi del disastro da un letto d’ospedale, mentre il comando della 2a armata passava al gen. Montuori. Il 26 novembre del 1917 il C., che si era rimesso in salute, venne destinato al comando della nuova armata, in corso di costituzione nelle retrovie con le unità più provate nella rotta e gli sbandati che rientravano ai reparti. Affrontò il delicato incarico (che dimostrava come egli godesse della fiducia del nuovo Comando supremo di Diaz con la consueta attività, organizzando una moderna rete di propaganda e preoccupandosi di assicurare alle truppe buone condizioni di vita. L’8 febbraio tuttavia fu privato del comando e posto a disposizione della Commissione d’inchiesta nominata dal governo Orlando per far luce sulle cause della rotta di Caporetto; uguale sorte ebbero Cadorna e Porro, mentre Badoglio fu salvato dall’intervento di Diaz che non volle privarsi del suo più stretto collaboratore. Contro la tendenza del governo e della Commissione, che così si preannunciava, di addebitare le maggiori responsabilità a Cadorna e al C., quest’ultimo si batté con energia, stendendo tra marzo e maggio 1918 una documentata memoria difensiva e stringendo o rinnovando contatti con esponenti interventisti (ricordiamo tra gli altri Bissolati, Chiesa, Mussolini, Papini, Prezzolini, il gen. Marazzi e i fedelissimi A. Soffici e A. Casati). Doveva però lottare contro il crescente isolamento, che raggiunse il culmine nell’estate 1919 con la pubblicazione della relazione della Commissione d’inchiesta. Volendo salvare le responsabilità delle forze di governo senza compromettere l’esercito né discutere la condotta della guerra, la Commissione rigettava la colpa di Caporetto su alcuni generali, e in primo luogo su Cadorna e il C., accusandoli di aver logorato le truppe con sforzi eccessivi e di aver male impostato e condotto la battaglia difensiva. Queste accuse non erano infondate, ma acquistavano un ingiusto risalto dalla copertura di molte altre responsabilità politiche e militari e dalla mancanza di una valutazione complessiva delle condizioni in cui la guerra era stata decisa e portata avanti. Al governo Nitti premeva però di chiudere le polemiche col minor danno possibile; perciò il 3 sett. 1919 fu annunciato il collocamento a riposo di Cadorna e del C. (e di altri generali di minor rilievo), nominativamente indicati come i veri responsabili del disastro. |
|
“[…] anche il duca d’Aosta, per non
essere da meno agli occhi del re [che lo teneva nelle sue grazie],
concesse al colonnello Badoglio, per l’azione del Sabotino, la nomina a
maggior generale. Ben altro meritava Badoglio, visto che il suo diretto
superiore in quell’azione, il generale Giuseppe Venturi, lo voleva
deferire alla corte marziale per aver abbandonato la testa della colonna a
lui affidata, dopo la conquista del monte. Badoglio aveva l’ordine di
proseguire l’avanzata verso San Valentino, invece se ne andò sostenendo
che la sua missione era finita. Quando, quella sera stessa, Capello chiamò
al telefono Venturi per ordinargli di proporre Badoglio all’avanzamento
per meriti di guerra questi si rifiutò:- Dovrei denunciarlo – disse.-
Va
bene. Allora se non lo proponi tu lo proporrò io – fece Capello. Badoglio
viene nominato comandante del XXVII corpo d’armata.”(e fu così che ci
avviammo verso Caporetto con l'accoppiata Capello Badoglio. LA MASSONERIA
da Angelo Martelli "Una sigaretta
sotto il temporale" 1988….. Ma la legge di Mussolini del ’26 voleva si
conoscessero nomi e indirizzi degli affiliati e un bel giorno l’elenco con
916 nomi, indirizzi e verbali di giuramenti, oltre a rubriche e altro,
finì nel carteggio riservato della segreteria del Duce. Fra questi nomi vi
erano anche quelli di Farinacci, l’on. Edoardo Torre di Alessandria, l’on.
Alessandro Groppali di Cremona, il generale dei bersaglieri Sante
Ceccherini, l’on. Arrivabene di Mantova, Terzaghi di Milano, l’on. Ernesto
Tartusio, il gen. Ugo Clerici, il presidente Raimondi, il prefetto di
Trapani, Giuseppe Gallicano, Giuseppe Lanza principe di Scalea già
sottosegretario alla guerra nel V Ministero Giolitti, il conte Luigi
Lusignani di Parma, il generale Emilio Giampietro, l’on. Umberto Gabbi e
tanti altri. Di Roma facevano spicco nell’elenco i nomi di Edmondo Rossoni,
Alessandro Melchiorri, Giuseppe Mosconi console della milizia, e di
Tommaso Tittoni presidente del Senato. Il 3 gennaio 1925 nell'assemblea
dei gran capi massonici, il generale Luigi Capello (comandante della II
armata diretto superiore di Badoglio al XXVII C.d.A. quello o quelli con
la massima responsabilità a Caporetto ) condannava i “Fratelli” che
avevano tradito i loro ideali di libertà, aderendo al Fascismo. Il
generale era molto attivo nelle relazioni massoniche internazionali che
abbinava ad una notevole attività antifascista, tanto da essere
considerato come il capo ideale di eventuali iniziative militari contro il
regime. |
Contro questa condanna morale il C. condusse una
lunga e appassionata battaglia. Subito dopo il collocamento a riposo aveva
indirizzato al governo un memoriale difensivo, chiedendo un giudizio
in contraddittorio, facendo poi seguire una petizione al Senato per ottenere una
nuova inchiesta. Nel 1920 si rivolse all’opinione pubblica con due libri (editi
dalla casa Treves di Milano): Per la verità, specialmente diretto contro la
relazione della Commissione d’inchiesta, e Note di guerra, in cui era ripresa
criticamente tutta la sua esperienza bellica, con l’appoggio di una ricca
documentazione, per la prima volta resa nota al pubblico con tanta larghezza.
Contemporaneamente il C. prendeva parte attiva al dibattito sulla
riorganizzazione dell’esercito, scrivendo nell’inverno 1919-20 sul Giornale del
popolo otto articoli (poi riuniti in volume all’inizio del 1920 nelle edizioni
de La Voce, col titolo L’ordinamento dell’esercito e la prefazione di A.
Soffici) aspramente polemici verso le gerarchie militari. Il C. criticava
duramente lo Stato Maggiore e l’intera classe militare, accusata di
conservatorismo e spirito di casta; chiedeva addirittura un regime di
liquidazione, sia pure graduale per l’esercito permanente tradizionale e
riponeva ogni fiducia nell’avvento della nazione armata e nella valorizzazione
di tutte le forze vive del paese, a cominciare dagli ufficiali di complemento.
Queste posizioni furono coerentemente sviluppate negli anni seguenti con
un’attiva battaglia a favore di tutti i tentativi di rinnovare le istituzioni
militari, portata avanti su vari giornali, tra cui ricordiamo Il Resto del
Carlino e nel 1922 Il Secolo di Milano. L’atteggiamento critico verso gli ambienti militari e politici dominanti e la profonda fede nella necessità di un rinnovamento della vita italiana, di cui fossero protagonisti gli ex combattenti, spinsero il C. ad aderire al fascismo già nel 1920, anche se alcuni fogli fascisti non gli avevano risparmiato attacchi per la rotta di Caporetto. Non ebbe però responsabilità o cariche nel partito, anche se nel 1922 Mussolini lo incaricò di un sondaggio presso Nitti in vista della costituzione di un governo di unione nazionale. La sua adesione al fascismo culminò con la partecipazione in camicia nera alla grande parata del 31 ott. 1922 per festeggiare il successo della marcia su Roma. Nel febbraio 1923 il Gran Consiglio del partito fascista sancì l’incompatibilità tra l’iscrizione al partito e quello alla massoneria; la decisione ebbe applicazione graduale, ma il C., che era sempre attivo e molto influente nella massoneria di palazzo Giustiniani, non esitò a restituire subito la tessera fascista. Non passò però all’opposizione, tanto che nell’inverno 1923-24? svolse una missione informativa riservata in Germania per conto di Mussolini. Nel frattempo giungeva al termine l’opera di una Commissione nominata dal ministro della Guerra nell’aprile 1922 su istanza del Senato, cui il C. aveva richiesto il riesame delle sue responsabilità nella sconfitta di Caporetto. La nuova Commissione, pur accettando il quadro d’insieme fornito dalla precedente Commissione d’inchiesta nel 1919, alleggerì di molto gli addebiti mossi al C., facendo salva la sua lealtà di comandante e i suoi sentimenti di umanità e interesse per i soldati e sostenendo l’impossibilità di attribuire la responsabilità di un così grave disastro soltanto ad alcuni uomini. Queste nuove conclusioni non vennero però rese pubbliche, perché il governo fascista (secondo quanto testimonia la figlia del generale, Laura Borlenghi Capello) condizionò la riabilitazione del C. alla sua rottura con la massoneria e ad una sua pubblica dichiarazione di adesione al fascismo. Il C. preferì rifiutare nettamente, preferendo l’isolamento (nel novembre del 1924 anche Cadorna fu promosso maresciallo da Mussolini) al rinnegamento dei suoi principi; e le conclusioni della seconda Commissione d’inchiesta furono pubblicate solo nel 1946 dalla figlia Laura. Il delitto Matteotti, lo strangolamento delle libertà politiche e l’inasprirsi dell’offensiva fascista contro la massoneria portarono gradualmente il C. ad una opposizione sempre più ferma. Anche in questo rifiutò mezzi termini e nei primi mesi del 1925 si adoperò insieme con l’esponente socialdemocratico Tito Zaniboni per la creazione di una rete insurrezionale antifascista, denominata Pace e libertà e inizialmente sostenuta dalla massoneria. Si convinse però presto della mancanza di basi dell’impresa e si trasse in disparte. Invece Zaniboni, incoraggiato da agenti provocatori della polizia, si diede a organizzare un attentato a Mussolini. Fu arrestato il 4 nov. 1925, prima di aver potuto dare esecuzione ai suoi propositi; il giorno seguente pure il C. fu arrestato e accusato di complicità nella preparazione dell’attentato, senza che nulla di concreto potesse essere provato a suo carico. Il processo, celebrato nell’aprile 1927 , dinnanzi al Tribunale speciale si concluse con la condanna a 30 anni e la radiazione dai ruoli. Dopo una serie di trasferimenti carcerari, nel 1928, per motivi di salute viene ricoverato in clinica a Formia dove resta fino al 1935 in regime di semilibertà vigilata. nel 1936 viene lasciato libero nonostante la condanna. Perorarono la sua causa Cadorna e Badoglio. Morirà a Roma il 25 giugno 1941. Da Istituto Enciclopedia Italiana Dizionario Biografico degli Italiani
da
http://www.lagrandeguerra.net/gggeneraledicaporetto.html
|
|
http://digilander.libero.it/freetime1836/libri/libri90.htm - CAPORETTO PERCHE'? La 2a armata e gli avvenimenti dell'ottobre 1917 Dov'ero quella notte |
||
Nel 1922 Capello mi ha scritto da Berlino, questa lettera molto cordiale.... |
||
LUIGI CAPELLO E
CESARE PETTORELLI LALATTA I RETROSCENA DI CAPORETTO E DEL SOGNO DI CARZANO NEI RICORDI DI UN PROTAGONISTA |
||
http://www.risorgimento.it/rassegna/index.php?id=45366&ricerca_inizio=0&ricerca_query=&ricerca_ordine=DESC&ricerca_libera | ||
Berlino, 19 ottobre 1922. Carissimo
Colonnello (Pettorelli),
Le giunga gradito un cordiale saluto da questa capitale di un popolo
vinto, ma grande e che sopporta con dignità i suoi guai ed il tracollo
del marco preparandosi a tempi migliori!. Sono qui fra le altre cose per
raccogliere elementi per un nuovo libro che sto preparando. Il soggetto
traspare dal titolo " Lo occasioni perdute ". Si riferirà essenzialmente
alla fronte italiana, ma vi sarà un accenno anche alle maggiori
occasioni perdute sulle altre fronti della guerra nei due campi avversi.
Sul fronte nostro una delle più caratteristiche occasioni perdute è
quella della operazione di sorpresa su Trento da lei con tanta abilità,
con tanto amore e tanta fede preparata. Risposi che avevo in preparazione Il sogno di Carzano e che appena pronte le bozze gliele avrei portate. Non potei farlo subito per varie vicende. Ma non potei farlo neppure in seguito perché le bozze, stampate agli inizi del 1924 in una tipografia di Trieste e inviate in fogli all'editore Cappelli di Bologna per l'impaginazione e diffusione, vennero sequestrate con provvedimento contemporaneo a Trieste e a Bologna. Le casse vennero portate nei sotterranei della Prefettura di Bologna e andarono poi disperse pei bombardamenti dell'ultima guerra. L'incomprensibile ordine di sequestro mai voluto revocare era stato ordinato dal Ministero dell'Interno su richiesta di quello della Guerra, con la scusante che il libro rivelava un episodio di guerra che era meglio non divulgare (e tutta la stampa austriaca e tedesca, nonché quella italiana ne aveva parlato e riparlato e vi era stata anche una discussione alla Camera dei Deputati austriaca!); in realtà il provvedimento era stato preso perché sollecitato dal segretario federale di Trieste, che per alcuni miei interventi mi considerava poco simpatizzante con il fascismo. |
Roma, 27 marzo
1964. Proprio ieri, guardando mie note di guerra, mi domandavo chi o quale archivio avrà le note di Capello e proprio poco fa mi è giunto il numero della rivista dove ho letto con grande interesse l'articolo sulle carte Capello, perché io sono legato al Generale per varie vicende, e proprio per difenderlo, nel 1925, mi sono visto collocato a riposo d'autorità. Riassumo. 1) Come tenente mitragliere, mobilitato col 26° fanteria, ho fatto la campagna di Libia, sbarcando nel novembre 1911 a Derna. Capello era il nostro comandante della Brigata di formazione. Non ho mai dimenticato che lui, quando io comandavo una ridotta La Calabria , sita nell'Altipiano, venne per ben tre volte, di notte, a ispezionarla, spingendosi, era già piuttosto forte di fisico, sino alle vedette. Da lui, per un piccolo combattimento, ebbi un elogio solenne da iscriversi sulle mie Note caratteristiche. 2) Il 3 marzo 1912 il Capello ingaggiò combattimento, un paio di chilometri avanti alla mia Ridotta, con molte truppe. Senza che egli mi chiamasse, ritenni mio dovere accorrere per portare il valido aiuto delle mie mitragliatrici proprio sull'ala destra del suo schieramento, che verso le 10 del mattino pareva cedere di fronte a contrattacchi dei Turchi e beduini. Lo raggiunsi al suo posto di comando mentre le palle e i colpi di cannone vi giungevano con discreta intensità: mi accolse serenamente, mi dette gli ordini opportuni e quando, dopo qualche ora, respingemmo l'attacco volle lodarmi personalmente per essere accorso spontaneamente al combattimento e aver impiegato con intelligenza e valore i miei mitraglieri. Dopo qualche giorno venni decorato sul campo, con motivazione lusinghiera, di medaglia d'argento al valore: me la appuntò sul petto lo stesso Capello, abbracciandomi. 3) Morti, naturalmente, e in quello e in altri combattimenti, ne avemmo: Capello, oratore possente, ma conciso, volle venissero onorati sempre, accompagnando le salme con musiche patriottiche. 4) Ritrovai Capello, in Patria, in varie occasioni; sempre mi accolse con grande benevolenza mostrando di ricordare ogni particolare della mia azione di Derna. 5) Nel 1917, dopo l'azione della Bainsizza (maggio), in una mia ricognizione sul fronte della la armata (in Trentino) me lo ritrovai improvvisamente vicino, quando io credevo che egli, comandante d'armata, fosse sulla fronte isontina. Mi disse d'essere da pochi giorni al comando del V corpo d'armata per punizione, aggiunse sorridendo e d'aver saputo con vero piacere che il mitragliere del 1912 era ora capo del servizio informazioni d'armata e d'essersi ripromesso di chiamarmi, appena completato il suo orientamento nella zona. Alla mia spontanea osservazione: come mai per punizione dopo tanti brillanti risultati anche se costosissimi (uomini), ricordo perfettamente che ribatté il mio costosissimi, dicendo: la guerra ha necessità che non tutti possono valutare, e aggiunse che non era il fatto di averlo trasferito ad un comando inferiore quello che lo addolorava, perché questo è avvenimento sempre possibile, ma il fatto d'averlo voluto mettere agli ordini di altro generale che sino a poco tempo prima era alle sue dipendenze il Mambretti. 6) Qualche settimana dopo, volendo far svolgere una azione offensiva contro il monte Maio, mi mandò a chiamare per sentire cosa ne pensassi. Letto il. suo ordine d'operazione, gli dissi spontaneamente che, secondo me, non valeva la pena di far svolgere tale azione, sia pure per mantenere lo spirito aggressivo nelle truppe, perché il terreno, anche se con successo, l'avrebbe resa troppo costosa. Seppi poi che aveva desistito. 7) In uno dei miei interventi al Comando Supremo nel quale, durante la faccenda di Carzano, ero sempre ricevuto da Cadorna, presi la palla al balzo, nel riferire sulla situazione morale delle truppe, per far presente al Capo quale fosse la situazione morale del Capello, passato alle dipendenze di altro generale, poco prima suo inferiore. Cadorna si mostrò meravigliato per tale situazione che egli, mi disse, non aveva voluto e soggiunse lo ricordo come fosse oggi. Malgrado i suoi difetti Capello è un magnifico generale, di larghissime vedute, ed io vedo in lui un degno successore . Seppi poi che Cadorna aveva ridato o dato al Capello il comando della II armata. 8) Io non rividi più Capello per molti anni. ... Nel 1922 Capello mi ha scritto da Berlino, questa lettera molto cordiale. ... SEGUE A FIANCO 9) Non seppi più nulla di Capello sino al 1925, anche perché dovetti soggiornare a lungo all'estero per cose personali. Solo nel novembre 1925, quando comandavo interinalmente a Trieste, il 152 reggimento fanteria, brigata Sassari , seppi ancora di Capello. Era giunto l'ordine di comunicare a gran rapporto un commento da Roma riguardante l'attentato a Mussolini. Io lessi il commento, ma sentii il dovere morale di completarlo con parole press'a poco di questo tenore: Io ho conosciuto personalmente, sino dal 1910, il generale Capello. Ufficiale valoroso, colto, medio intelligente. Non posso e non voglio credere che un simile ufficiale, già degno comandante di una armata in guerra, possa essere immischiato in cosi losca faccenda . Otto giorni dopo ero collocato a riposo. D'autorità. Sdegnai di presentare qualsiasi ricorso. Cesare Pettorelli Lalatta |
|