Jerome
David Salinger (New York, 1919), scrittore statunitense, deve la sua celebrità
al romanzo Il giovane Holden (1951), il cui protagonista divenne il
prototipo dell’adolescente ribelle e confuso in cerca della verità
e dell’innocenza al di fuori dell’artificiale mondo degli adulti. A lui si
devono anche Nove racconti (1953), Franny e Zooey (1961), Alzate
l’architrave, carpentieri e Seymour - Introduzione (questi
ultimi pubblicati nel 1963), tutte opere in cui vengono descritti i problemi
dei brillanti e sensibilissimi figli della famiglia Glass. Intorno alla metà
degli anni Sessanta, dopo la pubblicazione di alcuni racconti su rivista,
Salinger ha deciso di uscire dalla pubblica scena delle lettere e di non
pubblicare più nulla.
il libro
Salinger narra
la storia di Holden Caulfield, un ragazzo di buona famiglia, un giovane adolescente
ribelle, che ha difficoltà ad inserirsi nelle scuole e a trovarsi
amici. Il libro racconta tre giorni di vita sbandata che il protagonista
conduce all’insaputa della famiglia che ancora non sa dell’ennesima delusione,
girovagando nei sobborghi di New York quando viene buttato fuori dal collegio
di Pencyl, con continui flash-back che raccontano la sua vita passata. Dopo
aver rifiutato un rapporto con una prostituta, e picchiato dal protettore,
Holden si sente sempre più tradito dal mondo degli adulti, e per questo
si ritira in quello magico dei bambini, andando a trovare la sorellina Phoebe
(che incarna la purezza e l’innocenza perse a causa di relazioni sbagliate
durante l’adolescenza) e rievocando Allie, il fratellino morto prematuramente
di leucemia, nel quale Holden aveva racchiuso tutte la qualità migliori,
perdendo la fiducia in se stesso e rispecchiandosi come esempio solamente
negativo. Lo stile del romanzo è fresco e spontaneo, come i diciassette
anni del giovane Holden.
una pagina
La cosa migliore
di quel museo era però che tutto stava sempre allo stesso posto. Nessuno
si muoveva. Potevi andarci centomila volte, e quell’esquimese aveva sempre
appena finito di prendere quei due pesci, gli uccelli stavano ancora andando
verso il sud, i cervi stavano ancora abbeverandosi a quella fonte, con le
loro belle corna e le belle, esili zampe, e quella squaw col petto nudo stava
ancora tessendo la stessa coperta. Nessuno era mai diverso. L’unico a essere
diverso eri tu. Non che fossi molto più grande né niente di
simile. Non era proprio questo. Era solo che eri diverso, ecco tutto. Stavolta
avevi addosso il soprabito, magari. Oppure il bambino che era stato vicino
a te l’ultima volta si era preso la scarlattina e ora avevi un altro compagno.
Oppure non era la signorina Aigletinger ad accompagnare la scolaresca ma
una supplente. Oppure avevi sentito papà e mamma che litigavano come
due forsennati nella stanza da bagno. O per la strada eri appena passato
vicino a una di quelle pozzanghere dove la benzina fa l’arcobaleno. Voglio
dire, eri diverso, per una ragione o per l’altra – non so spiegare quello
che ho in mente. E anche se sapessi farlo, non sono sicuro che ne avrei voglia.
Elsa Morante (1912 - 1985) nasce
a Roma, da padre siciliano e madre emiliana. La sua educazione scolastica rimane incompleta e lascia
casa all'età di 18 anni. È il suo matrimonio con Alberto Moravia, durato
dal 1941 al 1963, che la mette in contatto con gli intellettuali e gli
scrittori di spicco dell'epoca. Durante la seconda Guerra Mondiale visse la vita
di una rifugiata nella campagna presso Cassino. I suoi inizi letterari prendono
forma a partire dal 1941 con la stesura di un libro di racconti - Il gioco
segreto - e di una favola per bambini. L'interesse per il mondo dei bambini
rimane una costante nell'opera anche matura di Elsa Morante. La sua opera principale
è senz'altro La Storia (1974), accolto come il capolavoro del secolo
dai contemporanei, in cui la scrittrice offre al lettore l'esperienza negativa
della guerra vista da outsider come una donna ebrea e il suo bambino epilettico.
Muore a Roma.
il libro
E' il secondo romanzo della Morante, pubblicato nel 1957. Ebbe il massimo
riconoscimento, il Premio Strega dagli Amici della domenica:
l'atmosfera di arcano sortilegio presente nel primo romanzo, viene ripresa
in questa opera, trasformandosi nel cerchio incantato di un adolescente alla
ricerca della propria identità, da raggiungere attraverso gli ineluttabili
passaggi dell'innamoramento e del rifiuto del padre. Il libro è ambientato
negli anni in cui il mondo attraversa uno dei suoi periodi più bui,
avvelenato dal nazismo, dal fascismo - in Spagna e in Italia - e con l'ombra
cupa della seconda guerra mondiale: Arturo, il protagonista, vive invece
a Procida dove la Storia appare lontana. Questa lontananza permette al ragazzo
di condurre un'esistenza spensierata, all'interno di una comunità
la cui vita è scandita da ritmi naturali. Come per tutti gli uomini,
lo aspetta, però, l'iniziazione alla vita, con l'abbandono dell'innocenza
primitiva attraverso la scoperta dell'amore, il tarlo della gelosia e il
dolore della separazione. Infine, dopo un'ultima e più terribile prova,
Arturo decide di allontanarsi definitivamente dall'isola, arruolandosi come
volontario nella guerra che intanto si era scatenata sul mondo.
una pagina - Dico le Colonne d'Ercole, - principiai, - per fare un paragone. Tu
lo sai, lo stretto di Gibilterra? Quello ai tempi antichi era un punto di
lontananza fantastica, perchè allora si andava sempre a remi con barche
di misura media. E il passaggio dello stretto aveva le due rive murate da
due massicci di roccia, che parevano due pilastri giganti messi per frontiera.
Ogni nave ch'era passata là in mezzo, s'era persa con tutto l'equipaggio
fino all'ultimo uomo, senza più notizia. E si raccontava che dall'altra
parte appena usciti al largo si veniva folgorati da una nuvola e calati a
fondo in un risucchio di tempesta: perchè là terminava il mondo
terrestre e incominciava un mistero eterno. Questa era l'idea delle prime
popolazioni antiche; ma poi si scoprì che la loro idea era stata una
favola, perchè invece là fuori dello stretto incominciava il
grande Atlantico; e avanzando si trovavano le nuove Indie Occidentali piene
di viventi; e palazzi, miniere... insomma, se lo vuoi sapere, il paragone
mio era questo: che anche il destino della morte eterna, dove tutti finiscono,
poteva essere un'altra delle tante favole. E che se uno, invece che aspettare
e lasciarsi imbrogliare dalla paura come un infimo codardo, si decideva a
esplorare, poteva trovare la smentita... E così mi sono deciso. E
l'ho fatto.
Iniziando questo mio discorso mistificatore, avevo vagamente ideato di portarlo
alla massima e più brillante fandonia conclusiva. Di giungere, cioè,
ad asserire che la mia strana crociera s'era risolta in una scoperta grandiosa,
da far invidia a Colombo, de Gama, e altri. Che, appena oltrepassato il confine
sepolcrale, m'ero ritrovato, per esempio, in vista di una specie di Atlantide
o qualcosa di simile, ed ero sbarcato in un porto millenario, affollato di
fanciulle e signore stupende, pirati e capitani, fra macchine portentose
d'oro e di rame massiccio ecc. Senonché, giunto che fui alle parole
mi sono deciso, mi mancò la voglia di intraprendere questa
seconda puntata della mia storia. Dopo tante ore di male e di silenzio, avevo
già parlato troppo, e mi sentivo stanco: inoltre, la mia voce, con
quelle insolite note dure, mi suonava stonata, e quasi forestiera. Da N.,
intenta ad ascoltarmi là sul suo divano, non mi venivano interrogazioni
né commenti; forse, benché un po' stupida, ella non lo era
al punto, io pensai, da prestar fede a tali fandonie; e non m'aveva creduto.
Provai una certa vergogna delle mie invenzioni; ma non intendevo rinnegarle,
d'altra parte. E allora, quasi per vendicarmi di me stesso, e rispondere
nel modo più crudele alle mute incertezze di lei, d'un tratto uscii
in questa conclusione non premeditata:
- Beh, e così ho trovato la conferma... Sai che cosa c'è, nella
morte? NIENTE, c'è. Solo nero, senza nessun ricordo. Questo, c'è!
Michail Afanas'evic Bulgakov
(1891 - 1940) nacque a Kiev, dove compì gli studi di medicina. Subito
dopo la rivoluzione si dedicò stabilmente alla letteratura e al teatro,
giungendo al successo nel 1925 col romanzo La guardia bianca, la storia
di una famiglia borghese che va dispersa nella tempesta della rivoluzione.
Il libro attirò a Bulgakov le accuse di "emigrante interno", "scrittore
borghese", che gli crearono intorno il vuoto. Dopo il Romanzo teatrale,
parodia della vita letteraria e teatrale degli anni venti, che ci introduce
nel mondo del celebre Teatro d'Arte di Mosca, Bulgakov attese in solitudine
(tra il 1929 e l'anno della sua morte) a quello che è considerato il
lavoro della sua vita: Il Maestro e Margherita.
il libro
A Mosca negli anni trenta giunge Satana in persona, sotto le spoglie di Messer
Woland, esperto di magia nera, e con un pittoresco e inquietante corteggio
di aiutanti. Da quel momento la vita moscovita è sconvolta da una serie
di bizzarri, tragicomici imprevisti, di cui rimangono vittime piccoli funzionari,
burocrati, esponenti della Mosca letteraria e teatrale: quelle "anime morte"
che Bulgakov conobbe così bene e su cui si prende una vendetta postuma,
condotta sul filo della satira e del grottesco. Compaiono altri personaggi,
entra in scena il Maestro, lo scrittore infelice e geniale che così
è chiamato dalla tenera dedizione di Margherita. Il Maestro si è
ridotto a vivere in una casa di cura, dopo aver dato alle fiamme un romanzo
(che critici ed editori gli hanno rifiutato) sul dramma di Pilato, il "feroce
quinto procuratore della Guidea e cavaliere romano", un uomo di potere e
viltà, e il medico filosofo Jeshua Hanozri, Gesù lo Straniero.
Sarà lo stesso Satana-Woland a rivelarne gli straordinari capitoli,
e a offrire al Maestro e a Margherita, dopo la memorabile, rutilante notte
del gran sabba, una pace ultraterrena. Filosofico e grottesco, lirico e bilioso,
esilarante e terribile, il romanzo è, come ha scritto Eugenio Montale,
"un miracolo che ognuno deve salutare con commozione".
una pagina
Ivan lanciò un'esclamazione, guardò davanti a sé e vide
l'odioso sconosciuto. Il professore si trovava già presso l'uscita
che dà sul vicolo Patriarsij, e non era solo. Il più che sospettabile
maestro di cappella aveva fatto in tempo a unirsi a lui. Ma non era ancora
tutto. Il terzo di quella compagnia era un gatto sbucato da chi sa dove, grosso
come un maiale, nero come il carbone o come un corvo, con tremendi baffi
da cavalleggero. Il terzetto avanzava verso il Patriarsij, e il gatto camminava sulle
zampe posteriori.
Ivan si precipitò dietro ai malfattori e si convinse subito che raggiungerli
sarebbe stato difficilissimo.
Il terzetto attraversò fulmineo il vicolo e si ritrovò sulla
Spiridonovka. Per quanto Ivan affrettasse il passo, la distanza tra lui e
gli inseguiti non diminuiva affatto. Non fece in tempo a riaversi che, dopo
la calma Spiridonovka, si ritrovò alle Porte Nikitskie, dove la sua
posizione peggiorò a causa della calca. Per di più, a questo
punto la banda dei criminali decise di mettere in atto la classica mossa banditesca
di sparpagliarsi in varie direzioni.
Con grande agilità il maestro di cappella si intrufolò in un
autobus in corsa che volava verso la piazza dell'Arbat, e si dileguò.
Avendo perso uno degli inseguiti, Ivan concentrò la sua attenzione
sul gatto, e vide quello strano animale avvicinarsi al predellino del vagone
di testa del tram A immobile alla fermata, spingere via con insolenza una
donna, afferrare la maniglia e tentare perfino di dare una moneta da dieci
copeche alla bigliettaria attraverso un finestrino aperto per l'afa.
Il comportamento del gatto sbalordì talmente Ivan da lasciarlo immobile
davanti alla drogheria sull'angolo; e subito una seconda volta, ma con molta
più forza egli fu sbalordito dal comportamento della bigliettaria.
Questa, non appena vide il gatto che saliva sul tram, gridò con una
rabbia che la scuoteva tutta:
-E' vietato ai gatti! E' vietato portare gatti! Passa via! Scendi, se no chiamo
la polizia!
Né la bigliettaria né i passeggeri furono colpiti dalla cosa
principale: non dal fatto che un gatto salisse sul tram, questo poteva ancora
passare, ma dal fatto che volesse pagare il biglietto!
Il gatto si dimostrò animale non soltanto solvibile, ma anche disciplinato.
Alla prima sgridata della bigliettaria cessò l'attacco, si staccò
dal predellino e si sedette alla fermata, soffregandosi i baffi con la monetina.
Ma non appena la bigliettaria diede il segnale e il tram si mosse, il gatto
si comportò come chiunque sia cacciato da un tram, sul quale deve viaggiare
per forza. Dopo essersi lasciato passare davanti tutte e tre le vetture,
balzò sulla parte posteriore dell'ultima, si afferrò con la
zampa a un tubo che usciva dal veicolo e filò via, economizzando in
tal modo il prezzo della corsa.
informazioni tratte da Il Maestro e Margherita,
Michail Bulgakov, 1967, Einaudi
La Nausea di Jean-Paul Sartre
Jean-Paul Sartre nacque a Parigi il 21 giugno 1905. Proveniente
da una famiglia della borghesia intellettuale, studiò psicologia e
filosofia dal 1924 al 1927 all'École Normale Supérieure, avendo
come compagni di studio R. Aron, J. Hyppolite, M. Merleau-Ponty e P. Nizan;
con quest'ultimo si legò in forte amicizia e collaborò con
lui alla traduzione del Trattato di psicopatologia di Jaspers. Tra
il 1933 e il 1934 studia a Berlino e Friburgo, dove entra in contatto con
la fenomenologia husserliana e con il pensiero di Heidegger. I suoi primi
scritti filosofici sono orientati verso l'approfondimento di tematiche fenomenologiche
(La trascendenza dell'Ego, abbozzo di descrizione fenomenologica,
1936;L'immaginazione, 1936; Saggio di una teoria delle emozioni,
1939; L'immaginario. Psicologia fenomenologica dell'immaginazione,
1940). Il tema della libertà assoluta della coscienza è al centro
del suo primo romanzo, La nausea, (1938) e della sua opera filosofica
di maggior respiro, L'essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica,
(1943). Da allora in poi la sua produzione filosofica si intreccerà
strettamente con quella narrativa (L'età della ragione, 1945;Il
rinvio, 1945; La morte nell'anima, 1949) e teatrale (Le mosche,
1943; A porte chiuse, 1945; La sgualdrina timorata, 1946; Le
mani sporche, 1948; Il diavolo e il buon Dio, 1951; Nekrassov,
1956; I sequestrati di Altona, 1960). Nel 1946 pubblicaL'esistenzialismo
è un umanismo, vero manifesto del pensiero esistenzialista, di
cui Sartre diventa uno dei capiscuola. Nel dopoguerra, sollecitato anche
dall'esperienza resistenziale, accentua il suo impegno politico, che lo vede
fondare, nel 1945, la rivista Les temps modernes, insieme a Merleau-Ponty;
sulla rivista prende posizione sulle principali vicende politiche, dall'Algeria
al Vietnam. Il suo impegno si riflette anche in alcuni pamphlets (L'antisemitismo,
1946; I comunisti e la pace, 1952) e nell'opera Critica della ragione
dialettica(preceduta da Questioni di metodo), tomo I, Teoria
degli insiemi pratici, 1960. Nel 1965 gli viene conferito il premio Nobel
per la letteratura, che però rifiuta. Nel 1968 e negli anni successivi
si schiera apertamente a favore del movimento studentesco. Muore a Parigi
il 15 aprile 1980.
il libro
La Nausea è un disgusto
di tutto: oltre che degli uomini, buffi manichini inautentici, delle cose,
gratuite e ingiustificabili. Una solitudine angosciosa, una divorante aspirazione
all’assoluto, delusioni e crisi di valori sono all’origine della nausea di
Antonio Roquentin. Leggiamo così nel diario di questo intellettuale
sradicato, alla deriva in una amorfa città di provincia, una lucida
e delirante descrizione dell’assurdità del mondo. Con spietata ironia,
questo romanzo demolisce ogni presupposto della mentalità filistea.
Ma dal rifiuto radicale finiscono per emergere interessi e ricordi, un sentimento
amoroso non sopito, un moto di pietà, di simpatia umana e, infine,
la possibilità di accettarsi, di accettare l’esistenza.
una pagina
Tra un momento ci sarà il
ritornello: è soprattutto questo che mi piace e la maniera improvvisa
con cui si getta avanti come una scogliera contro il mare. Per ora suona
soltanto il jazz, non v’è melodia, solo note, una miriade di piccole
scosse. Non hanno sosta, un ordine inflessibile le fa nascere e le distrugge,
senza mai lasciar loro l’agio di riprendersi, di esistere per se stesse.
Corrono, si inseguono, passando mi colpiscono con un urto secco, e s’annullano.
Mi piacerebbe trattenerle, ma so che se arrivassi ad afferrarne una, tra
le dita non mi resterebbe che un suono volgare e languido. Devo accettare
la loro morte; devo perfino volerla: conosco poche impressioni più
aspre e più forti.
Jean Cocteau (1889 –
1963) è una delle personalità prime della cultura francese del
Novecento. Ha compiuto le più diverse esperienze artistiche e letterarie
come poeta, romanziere, drammaturgo, critico d’arte e regista cinematografico;
va ricordato anche per la vasta produzione memorialistica e per l’attività
di pittore e di illustratore di molte delle sue opere. Tra i suoi romanzi
(oltre a I ragazzi terribili, 1929): Il Potomak, 1919; Tommaso
l’impostore, 1923.
il libro
Un romanzo scritto in diciassette giorni, sotto il segno di una velocità
tesa a ottenere un solo scopo: che nulla potesse rallentarne il ritmo di
lettura. I personaggi centrali: due ragazzi, fratello e sorella, e un amico
particolare. L’intreccio: ambigui legami, stretti fino a limiti morbosi,
la possibilità di un sodalizio eccentrico eppure normale come solo
negli anni verdi si riesce a intrecciare. Disordine, prostrazione, gaiezza
gratuita, temeraria e selvaggia, fascino involontario e travolgente, una
specie di complicità con le forze della morte: tratti di alcuni momenti
della gioventù. Cocteau li ha presagiti e fermati con I ragazzi
terribili in un groviglio di allusioni e funamboliche divagazioni: un
pastiche lirico e giocoso, una piccola epopea dell’età atrocemente
felice e devastante che è la giovinezza, una dichiarazione di guerra
contro quella “noia che esercita un fascino così forte sui gravi imbecilli”.
Il testo è arricchito da una scelta delle illustrazioni disegnate
dallo stesso Cocteau con tratto veloce e sintetico, equivalente visivo dello
stile del romanzo.
una pagina
Michael aveva fatto ricostruire la casa, ma non aveva potuto risolvere il
problema di questo vicolo cieco, a cui si finiva sempre per arrivare. E tuttavia,
in uno come Michael, un errore di calcolo era l’apparizione della vita, il
momento in cui la macchina si umanizza e cede il passo. Questo punto morto
di una casa poco viva era il luogo in cui, ostinatamente, si era rifugiata
la vita. Braccata da uno stile implacabile, da una muta di calcestruzzo e
di ferro, la vita si nascondeva in quest’angolo immenso con l’aspetto di
quelle principesse decadute che fuggono portando su di sé ciò
che possono.
La gente ammirava il palazzo; diceva: “Niente di sovraccarico. Assolutamente
niente. Per un miliardario, è pur sempre qualcosa”. Ora, le persone
innamorate di New York, e che avessero disprezzato questa stanza, non sospettavano
(al pari di Michael) quanto essa fosse americana.
Mille volte meglio del ferro e del marmo, essa illustrava la città
delle sette occulte e dei teosofi, la Christian Science, il Ku Klux Klan,
i testamenti che impongono prove misteriose all’ereditiera, i club funebri,
i tavolini a tre gambe, le sonnambule di Edgar Poe.
Questo parlatorio di una casa di pazzi, questo scenario ideale per le persone
defunte che si materializzano e annunciano il loro decesso a distanza, evocava
inoltre il gusto ebraico delle cattedrali, delle navate, delle piattaforme
al quarantesimo piano, dove signore bizzarre abitano in cappelle gotiche,
suonando l’organo e bruciando ceri. Perché New York consuma più
ceri che Lourdes, che Roma, che qualsiasi città santa del mondo intero.
Galleria fatta per l’infanzia ansiosa, allorchè non osa attraversare
certi corridoi, allorchè si risveglia e ode scricchiolare i mobili
e girare le maniglie delle porte.
In questa mostruosa camera di disimpegno c’era la debolezza di Michael, il
suo sorriso, il meglio del suo animo. Essa denunciava in lui l’esistenza
di qualcosa che precedeva l’incontro coi ragazzi e che lo rendeva degno di
loro. Dimostrava inoltre l’ingiustizia della sua esclusione dalla camera,
e la fatalità del suo matrimonio e della sua tragedia. In questa galleria,
un grande mistero diventava limpido: non era stao per la sua fortuna, né
per la sua forza, né per la sua eleganza che Elisabeth lo aveva sposato,
e nemmeno per il suo fascino. Lo aveva sposato per la sua morte.
informazioni tratte da I ragazzi terribili, Jean
Cocteau, 1987, Biblioteca Universale Rizzoli
Tokyo Blues
di Haruki Murakami
Haruki Murakaminasce a Kobe nel 1949
e studia all'università Waseda di Tokyo, laureandosi con una tesi
sul viaggio nel cinema americano. Dal 1974 al 1981 gestisce un jazz bar e,
in quegli anni, comincia a scrivere. Traduce numerosi autori americani del
Novecento, da Fitzgerald a Irving, da Theroux a Carver. Nel 1979 pubblica
il suo primo romanzo, diventando presto uno dei più famosi autori
giapponesi contemporanei.Tokyo Blues ha venduto, nel solo Giappone,
4 milioni di copie.
il libro
Per le strade di Tokyo, affollato
crocevia di solitudini, Toru e Naoko, due ragazzi non ancora ventenni, camminano
insieme in silenzio. Non sanno cosa dirsi, o forse hanno paura, parlando,
di sfiorare il segreto che li tiene sospesi in mezzo alla folla: il ricordo
di una sconvolgente tragedia che qualche anno prima li ha legati e divisi
per sempre.
Una struggente storia d'amore ambientata nel
clima inquieto del Sessantotto giapponese, tra lotte studentesche e passioni
culturali e politiche. Scandito da una colonna sonora d'eccezione, dai Beatles
ai Doors, da Bill Evans a Miles Davis, il libro è il racconto di un'adolescenza
che già sfuma nel mito.
una pagina
Che cosa mi stava raccontando
Naoko quel giorno? Ma sì, certo, era la storia del pozzo. Se quel pozzo
esistesse davvero, non l'ho mai saputo. Può anche darsi che fosse
un'immagine o un simbolo che esisteva solo dentro di lei, un altro dei tanti
fili che in quei giorni bui Naoko tesseva nella mente. Ma dopo aver sentito
da lei questa storia, è impossibile per me ricordare il prato senza
vedere il pozzo. L'immagine di quel pozzo che non ho mai visto con i miei
occhi, nella mia testa si è fusa saldamente con quel paesaggio, diventandone
parte inseparabile. Posso perfino descriverlo nei dettagli. Il pozzo si trova
proprio al confine tra la fine del prato e l'inizio del bosco. L'erba nasconde
ingegnosamente quel buco scuro, dal diametro di circa un metro, che si spalanca
nel suolo. Non ha attorno né una recinzione né un parapetto.
Non è altro che un buco aperto nel terreno. Il suo orlo di pietra
sbiadito dalle intemperie ha acquistato uno strano colore biancastro, e in
alcuni punti è spaccato o frantumato. Si possono vedere piccole lucertole
verdi infilarsi agili tra le fenditure. Anche se ci si sporge e si prova
a guardare nel buco, non si riesce a vedere niente. Si capisce solo che è
paurosamente profondo. Profondo al di là di ogni immaginazione. E
in quel buco si annida il buio, un buio così fitto che sembra concentrare
tutte le varietà di tenebra che esistono nel mondo.
- È davvero... davvero profondo, sai?
- aveva detto Naoko, scegliendo le parole con cura.
Era così che a volte parlava: lentamente,
cercando le parole adatte.
- È davvero profondo. Però nessuno
sa esattamente dove sia. La sola cosa sicura e che si trova da queste parti.
Poi, le mani ficcate nelle tasche della giacca
di tweed, mi guardò con un sorriso convinto.
- Ma allora è pericolosissimo - dissi
io. - Si sa che da qualche parte c'è un pozzo profondo, ma nessuno
sa dove si trova. Se uno ci cade dentro, è spacciato.
- Se uno ci cade dentro, è finito. Fiuuu...
ploff. E addio.
- Ma non succede qualche volta?
- Ogni tanto si. Più o meno una volta
ogni due o tre anni. Qualcuno scompare all'improvviso, e non si riesce più
a trovare. Allora la gente di qui dice: ah, un altro caduto nel pozzo.
- Non mi sembra un bel modo di morire - dissi.
- È una morte orribile - disse lei, staccandosi
i fili d'erba impigliati nella giacca.
- Se uno si rompe l'osso del collo e muore all'istante
d'accordo, ma metti che nella caduta si procuri solo una distorsione alla
gamba o roba del genere, allora sono guai. Anche a cercare di gridare con
tutte le proprie forze, non sentirebbe nessuno e non ci sarebbe nessuna speranza
di essere ritrovati. Immaginati restare lì al buio, con il corpo immerso
nell'acqua, tra nugoli di millepiedi e ragni e le ossa di quelli morti laggiù
sparse dappertutto. E il tondo di luce fermo lassù in alto piccolo
piccolo come la luna d'inverno. A stare in un posto simile si muore lentamente
e da soli.
- Vengono i brividi solo a pensarci - dissi
io. - Qualcuno dovrebbe trovare questo pozzo e fargli attorno un recinto.
- Ma è impossibile trovarlo. È
per questo che non devi allontanarti dalla strada principale.
- Ma io non mi allontano.
Naoko tiro fuori dalla tasca la mano destra e
strinse la mia.
- Comunque tu non corri pericoli. Non c'è
niente di cui ti devi preoccupare. Potresti anche camminare da queste parti
in una notte buia alla cieca, senza pericolo di cadere nel pozzo. Anch'io,
se stessi attaccata a te come adesso, non cadrei.
- Sei sicura?
- Sicurissima.
- Come fai a saperlo?
- Lo so. Lo so e basta.