È da bambini che si impara a essere soli. Il neonato
passa infatti attraverso un processo di graduale differenziazione e
separazione dalla madre o dalla figura materna, vivendo un'esperienza
verso il mondo esterno che per gli adulti è difficile immaginare:
confusione/ indistinzione, assenza di confini. Il mondo caotico del
neonato ci insegna a comprendere la necessità della separazione e del
dolore che essa comporta. Senza separazione il bambino è in un caos
oscuro, in un mondo ingovernabile e continuamente minaccioso. La capacità
di distinguere e, quindi, di rendere più sopportabile la vita emozionale
si fonda su un'esperienza di sofferenza, di perdita.
Nell'infanzia l'esperienza del dolore fonda in una
persona sana la capacità di distinguere fra sé e il mondo esterno. Questa
affermazione può sembrare strana e piuttosto inquietante, non soltanto
perché la rappresentazione dell'infanzia è in genere quella di un mondo
sereno e quieto, ma soprattutto se si pensa di possedere a priori la
capacità di discernere, di fare differenze e di porre mentalmente dei
confini. La costruzione a posteriori del periodo infantile come uno stato
di felicità irripetibile muove da un bisogno interno: affrontare la vita
da adulti con la certezza di esser stati, un tempo, appagati, restituirci
a una condizione di pienezza senza complessità, né conflitti.
L'immaginario sociale, d'altra parte, ci offre continuamente
rappresenta/ioni di bambini sorridenti e felici, confermando e
consolidando l'ingenuo bisogno infantile di felicità.
Il bambino non è né soltanto felice, né solamente
sofferente, addolorato: la gioia di essere al mondo viene conquistata
anche attraverso il dolore. Ma, quale dolore? Il senso di questo
sentimento nell'esperienza infantile – per il modo in cui lo si intende in
questo contesto - non è quello della risposta a un evento esterno
traumatico o carico di angoscia. Rimanda, piuttosto, a qualcosa di più
simile alla sofferenza mentale, a quel malessere interiore che non è la
reazione ai colpi che la realtà può infliggerci, ma la conseguenza del
fare i conti con la nostra limitatezza, con la nostra imperfezione, con la
nostra incapacità.
II dolore che fa crescere il bambino deriva, innanzi
tutto, dal riconoscimento che nell'amore che egli porta per la madre vi è
anche odio, tensione aggressiva. È questa un'affermazione inquietante,
poco conforme alle convinzioni idilliache del senso comune che vorrebbero
assegnare all'amore del bambino piccolo per la madre solamente una valenza
positiva. Accettare l'ambivalenza dei sentimenti è sempre difficile, ma
risulta ancora più arduo quando questi riguardano il mondo dell'infanzia,
proprio perché non si vorrebbe mai sfatare il mito di essere stati bambini
felici.
Immaginiamo il neonato che
ha bisogno della madre - per sopravvivere, per nutrirsi, per soddisfare
tutte le sue esigenze -, immaginiamolo provare anche sentimenti
distruttivi/ di odio verso l'unico oggetto d'amore che possiede. Avremo
così la sensazione del grande conflitto, dell'angoscia cui il bambino
piccolo è soggetto quando si sente animato dall'amore e, insieme,
dall'odio. Si vuole parlare, è ovvio, di sensazioni interne, ancora
abbastanza caotiche, non messe a fuoco con distinzione, di sentimenti on
puntuali, ne precisi come quelli che si stagliano in un individuo adulto.
I primi sentimenti che il neonato avverte hanno,
dunque, la valenza dell'amore, ma anche quella dell'odio.
Tuttavia, se l'aggressività, l'odio non insorgono
come reazione a una situazione traumatica esterna, come spiegarli, dove
cercarne l'origine? La madre accudisce il bambino piccolo, lo nutre, lo
ama, ne garantisce la sopravvivenza: eppure il neonato prova per lei una
carica di odio che potrebbe essere illustrata come il desiderio di
«mangiarla», di distruggerla facendola a pezzi. Quell’odio, quella carica
distruttiva nascono all'interno del bambino e non sono interpretabili come
reazione a una situazione esterna difficile (si parla di una condizione
normale, non di disagio, né di carenza per il neonato).
Come risponderà il neonato a questi sentimenti
potenti, a queste cariche estreme di amore e di odio? Per superare
l'angoscia dovuta a un conflitto così profondo, egli proverà senso di
colpa. In tal caso, riuscirà a uscire dal caos, dall'ingovernabilità
dell'ambivalenza di sentimenti troppo forti per essere sopportati. Per il
bambino provare senso di colpa è un modo per superare una sofferenza
incontrollabile, quella dell'indistinzione fra amore e odio. Quando il
piccolo avverte dentro di sé senso di colpa per i sentimenti distruttivi
vissuti verso la madre, ha in qualche modo superato il caos, ha un
migliore assetto del proprio mondo interno. Il senso di colpa, che genera
a sua volta una situazione depressiva, permette di stabilire dei confini,
di distinguere, di fare ordine. Il vissuto depressivo ha perciò una
potenzialità di crescita per l'individuo ed è necessario per lo sviluppo
della personalità. Potremmo dunque concludere che, per governare il
proprio mondo interno, per separare odio e amore, il neonato deve in
qualche modo passare attraverso il senso di colpa e la depressione.
Se, accanto alla capacità di amare, esistono fin
dall'inizio della vita affettiva nell'individuo la distruttività, l'odio,
l'aggressività, il senso di colpa subentra in un secondo tempo per rendere
meno minacciosi tali sentimenti.
Si può dire che la capacità di provare senso di
colpa sia una conquista per lo sviluppo del bambino. Cosa cercherà di fare
il piccolo quando sarà in grado di delimitare, di riconoscere la sua
distruttività verso la madre? Cosa farà di fronte al suo odio e al senso
di colpa che ne deriva? Cercherà di riparare/ di fare qualcosa che gli
consenta di contenere e di lenire quella carica negativa originaria.
Attraverso il senso di colpa il bambino apprende che la propria
distruttività non lede la madre: nonostante l'odio che ha avvertito verso
di lei, la madre è ancora lì ad accudirlo, ad amarlo, pronta a ricevere
anche i tentativi di riparazione che placheranno l'angoscia per i
sentimenti provati. Se ciò accade, la distruttività viene integrata e
sopportata nel mondo interno senza che questo ne sia sconquassato, ne sia
devastato.
Perché ciò avvenga, è necessario che la madre sia
presente/ accessibile al bambino: occorre che la figura materna sia
disponibile a quella attività riparatrice che rende tollerabile il senso
di colpa. Entrambi i processi - la percezione che la madre non è stata
fatta a pezzi dalle cariche distruttive, e l'insorgere del senso di colpa
e del desiderio di riparazione - hanno un presupposto molto importante. Il
bambino impara via via a distinguere tra fantasia e realtà e a separare i
desideri dai fatti. Egli apprende inoltre la capacità di riconoscere il
proprio odio, di sentirsene responsabile, ma soprattutto sperimenta che la
distruttività è un sentimento interno che non necessariamente trova
riscontro nella realtà. Tale acquisizione è vitale per un sano processo di
sviluppo: già nel primo anno di vita il piccolo diviene capace di
comprendere che la propria aggressività e il proprio odio sono sentimenti
interni, che non hanno effetti devastanti sulla realtà esterna. In tutto
questo la presenza della madre è essenziale, poiché la costanza e
l'invulnerabilità di lei garantiscono che egli impari a non aver paura dei
propri sentimenti negativi, a non viverli come armi di una guerra reale.
In questa difficile fase del primo anno di vita, può
accadere che la madre venga meno, che sia sottratta o si sottragga a
un'assidua e viva relazione con il bambino. Quali saranno le conseguenze?
La sua assenza, il fatto che lei non si presti ai gesti di riparazione
confermano al bambino la «realtà» dei suoi sentimenti aggressivi,
mettendolo, probabilmente, in una situazione di caos interno, di orrore di
fronte alla potenza dell'odio che aveva provato. L'assenza protratta della
madre impedisce al bambino di accompagnare al senso di colpa la
possibilità di un qualche rimedio e la percezione che questo è accettato e
recepito dalla madre stessa. Il piccolo resta prigioniero dei propri
fantasmi, incapace soprattutto di distinguerli dalla realtà, E questa una
situazione destinata probabilmente a generare dei disturbi nella
personalità dell'individuo.
Se il bambino riesce invece a distinguere tra realtà
e fantasia, si sottrae al caos dell'indistinzione, al terrore dell'assenza
di confini, alla paura ingovernabile che tutto ciò che sente dentro di sé
diverrà realtà. Tuttavia, sia in presenza sia in assenza della madre, egli
si sentirà in colpa per ciò che ha provato, giacché ciò che fa sentire in
colpa - in un individuo adulto, con un sistema psichico già organizzato,
così come in un bambino piccolo, in un essere che sta ancora costruendo un
sistema mentale e psichico - non solamente è quello che si fa, ma anche, e
forse soprattutto, quello che si desidera o si è desiderato. L'origine del
senso di colpa è, allora, da ricercarsi non tanto nelle condotte
aggressive che realmente noi mettiamo in atto, ma nei desideri, in ciò che
fugacemente attraversa la nostra coscienza come pensiero di un attimo,
come fantasia, come intenzione a fare male. La consistenza psichica e non
reale dei sentimenti distruttivi e del desiderio di distruzione è molto
importante per comprendere poi alcune manifestazioni di malessere psichico
e, in particolare, la depressione.
La scena originaria della relazione fra il bambino
piccolo e la madre non è, dunque, ne pacifica, ne da idealizzare: è anzi
un luogo in cui emergono forti conflitti. Può essere pensata come una
specie di teatro in cui agiscono due persone, capaci di riconoscersi e di
distinguersi, due persone che per il bambino costituiscono l'intero mondo.
La madre, unico individuo diverso da sé per il piccolo, è amata e odiata,
di un odio che non conosce ragioni, che non risponde alle spiegazioni
causali, ma è nel bambino, allo stesso modo in cui vi è la capacità di
amare. Il bambino, grazie alla presenza costante della madre, si rende
responsabile di provare quei sentimenti di odio, li riconosce come
desideri che sono dentro di sé, differenti dal male che viene
effettivamente messo in atto. Teorizzare un tale processo di sviluppo
significa, innanzi tutto, riconoscere che il desiderio di fare male,
l'odio, l'aggressività sono qualcosa di profondamente radicato dentro di
noi, come una componente essenziale e non reattiva della nostra vita
psichica. Si spezza, dunque, ogni illusione di poter pensare la natura
umana come sostanzialmente buona: le persone non compiono il male solo
quando vi sono costrette.
In altre parole, si può dire che siamo angeli caduti
o che, forse, non siamo mai stati angeli. Tuttavia, la tensione
distruttiva, se governata, non ha effetti devastanti su di noi e sulla
realtà: provare odio non è uguale a fare del male.
Anzi, la capacità di assumere tale odio e di
sentirsene responsabili produce un «buon» senso di colpa, necessario per
lo sviluppo e per la crescita dell'individuo.
Provare senso di colpa e trovarsi nella «posizione
depressiva» che ne deriva sono due stadi importanti per lo sviluppo
emotivo del bambino piccolo. Si giunge così a un ultimo punto fondamentale
relativo ai processi del primo anno di vita: le esperienze della colpa e
della depressione non sempre sono negative, da rimuovere o da cui
liberarsi, e sono comunque decisive per garantire una sana formazione
della personalità. E così, due parole e due mondi - colpa e depressione -
che la nostra cultura connota negativamente e respinge, divengono invece
entità da accogliere, da far proprie come essenziali per un buon assetto
dello sviluppo dell'individuo. Il percorso della relazione bambino-madre
riesce dunque a rovesciarne il significato. Senza senso di colpa e
depressione l'individuo non apprende ad assumere responsabilità e,
successivamente, a desiderare in fantasia e a compiere gesti di
riparazione.
Usando un linguaggio più vicino a quello comune,
potremmo dire che nel primo anno di vita si svolge una specie di conflitto
fra bene e male e che avviene un processo in cui il bambino impara a
riconoscere il male e a proteggersene. E questo grazie alla capacità di
provare senso di colpa. Finché il male, il desiderio di distruggere non
sarà riconosciuto dal neonato come qualcosa che profondamente gli
appartiene, egli non sarà capace di difendersene, di rielaborarlo fino a
farlo diventare desiderio attivo di rimediare. La spietatezza della
distruttività che il bambino provava in origine, da cui era in qualche
modo posseduto, diviene pietà e, allo stesso tempo, l'indifferenza
rispetto all'oggetto che l'odio in origine porta con sé - oggetto che, in
questo caso, è la madre - diviene preoccupazione per lei, desiderio di
tenerla in vita.
Insisto molto sul mondo interno del bambino piccolo
perché penso che possa suggerire elementi interessanti circa meccanismi
che, da adulti, ci troviamo ad attivare, a volte senza neppure
accorgercene. Come i bambini, anche noi possiamo avere qualche difficoltà
a riconoscere il nostro desiderio di fare del male, di ferire proprio
perché respingiamo la responsabilità di aver provato tali sentimenti. Se
stentiamo a metterli a fuoco - o perché ci riteniamo molto buoni e
incapaci di desiderare il male o perché ci sentiamo autorizzati a fare del
male da ciò che riceviamo dalla realtà - non siamo in grado di elaborare
quel desiderio di riparazione che è il solo a placare il senso di colpa.
Cosa accade al bambino quando le condizioni esterne
non gli permettono di sviluppare la capacità di elaborare la propria
aggressività? Il bambino non sviluppa quel modo di governare il senso di
colpa, di lenirlo attraverso la riparazione. Si sente, quindi, colpevole,
assolutamente colpevole di tutto il male, di tutta la distruttività che
avverte dentro di sé. E ancora, quando, durante il primo anno di vita, non
gli sono date le condizioni per poter distinguere fra desideri di
distruzione e distruttività reale, il senso di colpa per ciò che prova può
diventare paralizzante, può bloccarlo fino a convincerlo di essere
responsabile di tutto il male del mondo. È qui l'origine di quel desiderio
di fare male, che diviene poi desiderio di farsi del male e costituisce il
nucleo del sentire depressivo. Un individuo depresso, bambino o adulto, è
oppresso dalla colpa, ne è paralizzato. La depressione viene a mascherare
un furioso desiderio di distruzione, sentito come insopportabile proprio
perché assoluto, non governabile, mai lenito dal desiderio e dalla
capacità di riparazione. Nella lotta fra il bene e il male l'individuo
depresso si sente sovrastato dal male, dalla potenza del male dentro di
sé, dalle accuse che muove continuamente contro se stesso.
II processo di sviluppo porta il bambino a entrare
in relazione anche con il padre: vi è quindi un passaggio da un rapporto a
due - bambino-madre - a uno a tre - bambino-madre-padre -. Quali sono le
caratteristiche di questa esperienza? Vi è, innanzi tutto, un'apertura, un
senso di maggior respiro: quel mondo chiuso e piuttosto angusto, che
vedeva soltanto due attori, si apre alla possibilità della presenza di un
terzo. Ma, allo stesso tempo, i sentimenti ambivalenti si fanno più
complicati e riguardano due persone: amore e odio non più solamente verso
la madre, ma verso madre e padre, ugualmente amati e odiati.
Questa fase può essere collocata attorno al
quarto-quinto anno di vita. Tra maschi e femmine vi è una importante
differenza nel modo di rapportarsi al padre. Le bambine,
infatti, devono affrontare un «passaggio»: l'oggetto
d'amore principale non è più la madre, ma il padre. Per i maschi, invece,
la madre permane come oggetto d'amore, di un amore che si è riconosciuto
come pervaso anche di odio, riparato e riparabile: ma fra loro due
apparirà il padre.
In queste pagine esaminerò soltanto il processo che
riguarda il maschio. Il piccolo ama il padre, eppure lo odia, ne desidera
la morte, perché il padre possiede la madre, gli è rivale nell'amore verso
di lei. A rafforzare i sentimenti di odio per la figura paterna c'è la
consapevolezza che il padre è potente, molto più potente di lui, e quindi
più adeguato ad amare la madre e a riceverne l'amore. Tuttavia, il
padre-rivale, tanto potente e temuto, è anche oggetto d'amore: nel corso
degli anni il bambino impara ad amarlo, a dargli e a ricevere da lui
affetto. Il conflitto è molto forte, così difficile da governare che il
bambino deve portare dentro di sé un sistema morale che gli impedisca di
sentire la madre come un oggetto d'amore e gli vieti una passione
impossibile.
Questa operazione è la soluzione all'angoscia che
deriva dal sentire il padre come colui che lo punirà per i desideri
d'amore verso la madre, come un potente rivale che sicuramente si
vendicherà per l'affronto che il desiderio del figlio costituisce per lui
(così, almeno, immagina il bambino). Fino a quel momento nulla era vietato
per il piccolo: di fronte all'impossibilità di una passione triangolare
così profonda e difficile, egli deve, invece, far proprio il divieto
paterno. Deve portare il no del padre dentro di sé, in modo tale che
questi ritorni a essere non solamente un personaggio minaccioso, colui che
impone il divieto, ma soprattutto una figura d'amore.
Far proprio il divieto, interiorizzarlo rappresenta
un'ulteriore tappa, essenziale per la capacità dell'individuo di far
ordine, di vivere la vita affettiva senza essere travolto dal conflitto.
Il bambino accetta mentalmente e affettivamente il
divieto, non lo avverte come un'inesorabile mannaia esterna. Il processo
attraverso cui lo porta dentro di sé rafforza, soprattutto, la sua
capacità di controllo: egli non si limita a obbedire a una costrizione
esterna, esercitata da una figura potente e temuta, ma sa attenersi a una
regola interna. È, quindi/ sollevato dal nutrire odio verso il padre e
impara a seguire una propria legge morale.
Ancora una volta, l'angoscia (provare sentimenti
distruttivi verso il padre, desiderarne la morte) si tramuta in senso di
colpa (elaborazione di desideri interni colpevoli).
Ancora una volta, il
bambino impara a sentirsi in colpa non per ciò che ha effettivamente
commesso, ma per le proprie intenzioni, per i propri desideri. La tensione
amorosa verso la madre, infatti, era solo desiderio, teatro interno,
sensazione vagheggiata/ non «crimine» messo in atto. Il senso di colpa,
allora, si genera a partire dalle intenzioni, dalle pulsioni: nasce nel
mondo interno dell'individuo e deriva da sentimenti e desideri vagheggiati
e mai realizzati. Insistere su questo punto non è solamente una corretta
precisazione, necessaria alla comprensione dello sviluppo affettivo ed
emotivo del bambino, ma aiuta anche a riflettere su come, da adulti
percepiamo e sistemiamo ciò che sentiamo dentro di noi. Molto spesso,
infatti, noi interpretiamo i nostri sentimenti negativi come una reazione
alle esperienze reali che ci capita di fare: siamo cattivi perché abbiamo
subito un torto, siamo aggressivi perché siamo stati aggrediti, siamo
malvagi perché dobbiamo difenderci. Tuttavia, senza negare attendibilità a
questa lettura delle cose in alcune circostanze, occorre riflettere sul
fatto che, rifacendosi sempre al concetto di reazione, si riduce il mondo
interno a un semplice contenitore di sensazioni e sentimenti costruiti a
partire da ciò che accade in realtà. In questo modo, inoltre, si cerca
un'assoluzione e si tenta di rimandare l'assunzione di responsabilità per
i propri sentimenti.
Seguendo lo sviluppo del bambino, invece, si è vista
la fatica, ma anche la ricchezza costituita dalla capacità di assumere
responsabilità per le proprie intenzioni e i propri desideri, vissuti come
originati dall'interno e appartenenti alla natura umana- La vicenda del
bambino insegna che ogni tentativo di percepirci come angeli costretti a
fare del male sia falso e mutilante. La capacità di provare senso di
colpa, l'assunzione di responsabilità per i nostri sentimenti aggressivi
non solo non è di per sé necessariamente negativa ma, anzi, è salutare per
il buon equilibrio dell'individuo. Al senso di colpa si legano, infatti,
il desiderio di riparare e di lenire nell'altro il male che gli si è
apportato e la speranza di riuscire a far dimenticare, in parte, la nostra
distruttività.
Cosa accade al bambino di quattro-cinque anni quando
riconosce dentro di sé quel potente odio verso il padre?
Cosa accadrebbe se non riuscisse a tramutare
l'aggressività e il terrore per la punizione in qualcosa di più vivibile?
Il padre resterebbe una figura soltanto minacciosa, maligna, un essere
temuto e odiato pronto costantemente a vendicarsi, a punire. Sarebbe
qualcosa di simile a quelle divinità arcaiche la cui ira contro gli uomini
è tanto potente e distruttiva, quanto imprevedibile. Grazie alla capacità
di distinguere fra desiderio e realtà e grazie al senso di colpa, invece,
il bambino umanizza il padre, lo riporta sul piano di una relazione
sopportabile per entrambi, in cui al terrore si sostituisce la possibilità
di comprendere e perdonare. Si placa la potenza dei sentimenti assoluti –
solo amore o solo odio - e si allentano la tensione e l'angoscia che essa
produce.
Portare il divieto paterno dentro di sé e, quindi,
riumanizzare il padre non è un'operazione così semplice, come forse è
sembrato fino a ora. Può accadere, infatti, che il sistema morale che il
bambino fa proprio divenga troppo rigido, troppo costrittivo, e somigli,
in qualche modo, proprio a quel padre arcaico straordinariamente potente,
minaccioso e punitore. Anziché aiutare l'individuo a vivere come
inevitabile e sopportabile la colpa, il sistema morale si trasforma allora
in una specie di tiranno assoluto, mai soddisfatto per ciò che la persona
fa e desidera: le leggi interne diventano così rigide e violente da far
sempre sentire l’individuo potenzialmente colpevole.
Il mondo interno della persona perde di ricchezza,
di gioia di vive re: ogni desiderio, ogni intenzione, ogni azione è
l'espressione di un'inadeguatezza o un crimine. È a partire da questo che
si comprende perché il depresso si senta devitalizzato, costantemente
colpevole. Spesso l'origine dei sentimenti depressivi è da rintracciarsi
in un qualche incidente accaduto quando il bambino ha fatto proprio il
divieto paterno, lo ha interiorizzato come un sistema troppo punitivo e
rigido portando dentro di sé l'immagine di un padre sadico, che nulla
perdona e nulla comprende.
Il buono e il
cattivo senso di colpa
Seguendo
lo sviluppo del bambino, si può giungere a una considerazione molto
importante: la linea di confine fra un buon senso di colpa e un cattivo
senso di colpa è molto labile. Se il bambino riesce a interiorizzare un
sistema morale solido ma non tirannico, conoscerà nel proprio mondo
interno la possibilità della comprensione e del perdono; se invece ne fa
proprio uno troppo rigido, costantemente vessatorio, si strutturerà in lui
la sensazione di essere sempre e solo colpevole. Il senso di colpa agevola
lo sviluppo della vita affettiva,ma può anche divenire origine di
sofferenza psichica. In che modo può accadere che il sistema morale si
strutturi tanto rigidamente da causare quel continuo senso di indegnità e
di colpa che produce, poi, la depressione?
Si può pensare che un padre reale eccessivamente
rigido, troppo autoritario, sempre pronto a punire possa essere la causa
di un sistema morale vessatorio e angoscioso. In questo modo si fanno
risalire tutte le sofferenze del bambino, legate al senso di colpa, alla
qualità delle esperienze che egli vive in rapporto con il mondo esterno.
Con una tale spiegazione si attribuisce grande e sostanziale importanza
alle condizioni ambientali in cui il bambino si trova a vivere, alle
relazioni tra mèmbri della famiglia, a quello che potremmo definire il
carattere del padre.
A mio parere si tratta, però, di un'interpretazione
forse rischiosa e troppo semplice. Rischiosa perché nega consistenza al
mondo interno: dopo lo sforzo fatto per sottolineare come l'individuo non
sia soltanto una specie di macchina che reagisce agli accadimenti reali,
autorizza a non assumere responsabilità per i desideri provati. Troppo
semplice perché induce a pensare che sia sufficiente garantire condizioni
esterne favorevoli per evitare ogni genere di incidente nello sviluppo
psichico dell'individuo. Da essa si potrebbe desumere infatti forse
esagerando un po' che date buone condizioni esterne (ossia una buona madre
e un buon padre) non vi sia per il bambino alcuna sofferenza.
Ed è proprio con questa ingenua convinzione che si
possono comprendere la rincorsa alle ricette per la famiglia felice, la
ricerca di soluzioni ambientali che consentano una crescita sana, la
consultazione di esperti che sappiano come prevenire gli incidenti
affettivi. Al contrario, si può sostenere che tutto si sviluppa nel mondo
interno del bambino, che quella angoscia, quel costante senso di colpa che
producono depressione siano profondamente radicati nella sua psiche, siano
da rintracciare solo nel teatro mentale e psichico. Di conseguenza, i
sentimenti distruttivi e aggressivi del bambino verso il padre sono tanto
potenti e assoluti che il figlio deve tenerli a bada, deve imbrigliarli
costruendo un sistema morale estremamente rigido, che gli consenta di non
farli esplodere. Una simile tesi, certamente più inquietante della
prece-dente poiché tende a eliminare ogni speranza -, è anch'essa
rischiosa. Lo è in quanto prende il solo mondo in-terno come referente per
indagare la natura umana,finendo così col rinchiudere l'individuo in una
specie di prigione senza finestre, in cui implodono conflitti, fanta-sie,
sentimenti e sensazioni. La persona, il suo modo di es-sere, la sua
sofferenza divengono spiegabili senza mai sof-fermarsi su ciò che è
accaduto o accade in realtà: il mondo delle relazioni, la famiglia, le
condizioni ambientali diventano, in base a quest'interpretazione, entità
incolori, quasi senza consistenza, uno sfondo sfumato. Forse la risposta
all'interrogativo iniziale più produttiva e ricca di suggerimenti è quella
che si pone tra le due precedenti.
Per esaminare l'origine di un sistema morale troppo
rigido e, quindi, carico di angoscia e di sofferenza, bisogna tenere conto
sia del mondo interno del bambino sia della realtà familiare che il
piccolo si trova attorno, con cui interagisce e che riverbera su di lui.
Esistono padri autoritari e padri deboli, padri un po' minacciosi e padri
fragili, esiste un padre che può e sa essere tutte queste cose, di volta
in volta, a seconda delle circostanze.
Verso il padre, come verso la madre, vi è odio,
desiderio di distruzione, aggressività, ma poi pietà e preoccupazione per
i sentimenti provati. Vi è, quindi, mondo esterno, possibilità di
interazione e di esperienze reali e mondo interno, fantasie e sentimenti
potenti di amore e di odio. Ma nessuno di questi due mondi, presenti
insieme nell'esperienza dell'individuo, basta di per sé, se non con i
rischi che si sono esaminati, per interpretare il sistema morale e la
sofferenza che in esso è contenuta.
L'origine del senso di colpa è da collocarsi dunque
nel punto di intersezione fra realtà esterna e mondo interiore e nel loro
reciproco influenzarsi.
Il bambino prova sentimenti che nel tempo impara a
riconoscere, a sentire responsabilmente come propri; impara a tollerare
l'ambivalenza e la coesistenza di odio e di amore. Ma intanto reagisce,
entra in relazione con la realtà - costituita per lui sostanzialmente
dalla madre e dal padre - e assume un certo modo di essere a seconda della
qualità delle relazioni che l'esterno gli permette e gli sollecita. In
questo caso con «qualità» non si intende solamente ciò che ciascun
genitore fa volontariamente, a tratti sforzandosi di comportarsi in un
determinato modo, ma ci si riferisce anche a quello che accade a
prescindere dalle strategie educative e dalle convinzioni sui criteri per
essere un buon padre o una buona madre.
Per esempio, quando accoglie i sentimenti e i gesti
riparatori del bambino, la madre non è probabilmente in alcun modo
cosciente di fornire al figlio, tramite la sua presenza, la possibilità di
vivere un'esperienza essenziale per il suo sviluppo emotivo e affettivo.
La buona qualità di tale esperienza non si produce quindi attraverso un
progetto educativo, ne attraverso lo sforzo volontario di fornire cure
adeguate al bambino; la valenza positiva della possibilità di pensare e
agire la riparazione avviene tramite la presenza fisica della madre, il
suo non abbandonare il bambino, il suo mostrarsi integra, non intaccata
dagli esiti dei sentimenti distruttivi. Il mondo esterno, la sfera con cui
il bambino entra in relazione ricevendone cose buone o cattive o, meglio,
cose insieme buone e cattive, non è dunque, come spesso si pensa,
rappresentato solamente dalla condotta consapevole dei genitori, ma anche
dalla capacità inconsapevole di trasmettere alcune cose: protezione, senso
di accoglimento fisico, contenimento, gesti fatti naturalmente, capacità
di resistere ai sentimenti potenti del bambino, di restituirgli la
consapevolezza che l'odio, ambiguamente connesso all'amore, non
necessariamente porta devastazione e distruzione.
Molto spesso i genitori vorrebbero sapere come
evitare al bambino la sofferenza e come consentirgli una crescita serena e
dolce e per dare delle risposte ai loro interrogativi, leggono manuali di
psicologia dell'età evolutiva o consultano degli esperti. Negli studi e
nella conoscenza scientifica essi cercano però qualcosa che sanno già, un
modo di essere che non si può imparare proprio perché non è sottoposto al
controllo della coscienza o della volontà. Nel garantire al bambino le
condizioni per uno sviluppo sano i genitori possono contare soprattutto su
ciò che è stato dato loro, nel tempo, in termini di sicurezza e di
capacità di lenire la sofferenza e di riparare il male invece di
esasperarlo.
La cattiveria dei bambini
Nei bambini c'è una qualità di dolore, di
distruttività, di angoscia rispetto alla quale si può fare poco: rientra
in quel mondo inferiore che non è modificabile attraverso condizioni
favorevoli di sviluppo. Penso, per esempio, a quella che chiamiamo la
cattiveria dei bambini. In alcuni comportamenti infantili vi è un livello
di malvagità che non è affatto patologico. Marco, un bambino di circa otto
anni, mi descrisse le «sevizie» cui sottoponeva le formiche e altri
piccoli insetti; la sua era una cattiveria sfogata con freddezza, con
determinazione quasi scientifica, non la rabbia con cui in altre occasioni
lui stesso reagiva a situazioni di difficoltà. Le sue parole mi
inquietarono per il sadismo ragionato che caratterizzava quei piccoli
giochi di tortura. Tuttavia, non volevo formulare un giudizio negativo su
di lui e cercai gli elementi per comprendere cosa stesse sotto e prima dei
suoi gesti: spesso, alla base della cattiveria infantile, c'è un profondo
senso di colpa che viene lenito, in parte addomesticato proprio mettendo
in atto azioni malvagio come piccoli furti, torture su animali,
distruzione di oggetti.
La potenza del senso di colpa, altrimenti difficile
da tollerare, viene in qualche misura giustificata proprio compiendo
azioni che vanno contro il sistema morale. In questo modo il senso di
colpa si lega, infatti, a qualcosa di reale, di compiuto, e il bambino
prova un certo sollievo psichico: il fantasma inconscio della colpa senza
nome diviene più trattabile, più tollerabile. Gli sfoghi di cattiveria
e
malvagità finiscono col curare il disagio più insopportabile, la
difficoltà a dare una forma e un perché al senso di colpa. Proprio per
questa ragione, a volte è impossibile entrare nel mondo interiore del
bambino per lenirgli, da adulti e genitori protettivi, esperienze di
sofferenza e di dolore. Rispetto al meccanismo con cui si manifesta il
senso di colpa, non vi è per madre e padre la possibilità di evitare
alcuni comportamenti aggressivi o malvagi del bambino poiché questi ultimi
non rappresentano la risposta a una qualche vicenda esterna. Molto spesso
ci si trova di fronte a genitori a loro volta oberati da sensi di colpa,
in una certa misura latentemente depressi per non aver fatto «abbastanza»,
per essersi comportati male, per non essere stati perfetti. A questo
giungono, in genere, attraverso due principali percorsi inconsapevoli. Il
primo è quello che porta alcuni a cadere senza accorgersene, nella
trappola che il bambino tende loro e che consiste nel più feroce desiderio
di onnipotenza: «Poiché io ti amo, tu devi essere perfetto».
L'altro, altrettanto pericoloso, è quello che può
condurre a pensare il bambino come qualcosa che risponde sempre e solo ai
comportamenti e agli atteggiamenti della famiglia, negandogli quindi una
sua individualità, un'identità che non dipende dall'esterno. Rispetto al
modo in cui il bambino vive interiormente il senso di colpa, si può, a
volte, soltanto assistere agli esiti, ai comportamenti violenti che ne
sono l'espressione visibile. Andrea, un bambino di circa quattro anni,
mostrava la sua rabbia gettando a terra giocattoli o altri oggetti che gli
erano cari. Di fronte alle conseguenze del suo gesto - la rottura o la
lesione parziale del giocattolo - scoppiava in lacrime, pretendendo che la
madre lo facesse «tornare nuovo». Quello che ella poteva fare, allora, non
era impedire lo scoppio di rabbia, ma aiutarlo a riparare gli esiti della
sua distruttività. Quando la madre diceva «possiamo riaggiustarlo» e si
accingeva a incollare i pezzi del giocattolo rotto, il pianto del bambino
si placava: il fantasma della distruttività e il senso di colpa a esso
collegato trovavano possibilità di riparazione.
Questa vicenda mi pare significativa come suggerimento di un modo di
reagire per un genitore di fronte a comportamenti violenti o aggressivi
del figlio. Se la madre o il padre assumono a loro volta un atteggiamento
di colpa finiscono, infatti, con l'innescare una spirale di inadeguatezza
e di rancore tra il senso di colpa del bambino per il suo sfogo di
aggressività, da una parte, e quello del genitore per non averglielo
saputo o voluto impedire, dall'altra. Aiutare a riparare, moderare le
conseguenze della violenza interiore favorisce, invece, la consapevolezza
che il senso di colpa non invade totalmente il campo della relazione, che
non ne è il tiranno brutale e paralizzante. Il giocattolo di Andrea non
tornava nuovo - se questa fosse stata la promessa fatta dalla madre al
bambino, la madre stessa si sarebbe posta in una condizione di
insostenibile onnipotenza - ma i pezzi venivano ricuciti, rimessi insieme
dalla colla, fino a ottenere qualcosa di accettabile, fino a comprendere
che la distruttività non rade necessariamente al suolo. Se i genitori
sanno pensare in questo modo, se sono capaci di tollerare piccoli episodi
di cattiveria e di violenza frequenti nell'infanzia senza farsene
spaventare, riescono ad aiutare il bambino a contenere il proprio senso di
colpa, a renderlo più governabile. Nel mondo interiore del depresso si
muove uno smisurato senso di colpa, una continua sensazione di
inadeguatezza, di incapacità a trattenere il bene. Si è visto come sia
importante per il bambino imparare a provare un buon senso di colpa.
Quando, invece, la colpa si fa invasiva, costante, crudele, quando non si
riesce a intravedere e prefigurare una possibilità di riparazione, la
tirannia del senso di colpa potrà in futuro manifestarsi, appunto,
attraverso la malattia depressiva. Si può dire, infatti, che il depresso
sia divorato e soggiogato dalla sensazione di una colpa oscura e
ingovernabile. La linea di confine fra un cattivo e un buon senso di colpa
è molto fragile e incerta nell'infanzia. Svariati sono i modi in cui il
bambino fa esperienza della propria distruttività, in cui riesce a
trasformare qualcosa di spaventoso e temibile in un sistema morale che lo
rassicura attraverso la costruzione di regole e confini. Uno di questi è,
come si è visto, mettere in atto comportamenti aggressivi, violenti, che
contengono l'enormità del senso di colpa.
Gli
adulti, i genitori non devono, quindi, spaventarsene, non devono viverli
come una sotterranea accusa per non essersi comportati in modo esemplare
nei confronti del bambino. In questi episodi è il mondo interno del
bambino che sta cercando un proprio assetto, un punto migliore di
equilibrio. Mettersi in relazione con l'infanzia richiede soprattutto la
capacità di rispettare il lavoro psichico del bambino. Il mito del
«genitore quasi perfetto», su cui una certa pedagogia da rubrica di
settimanale continua a insistere, nega appunto questo, che il bambino
abbia una sua individualità, un suo mondo.
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