Ancora in guerra contro la Francia
Vittorio Amedeo II raggiunge la maggiore età nel 1680, ma è costretto dalle circostanze del momento a chiedere alla madre di continuare la reggenza, mentre medita di staccarsi dalla Francia, che in Piemonte è molto mal sopportata per la sua pesante ingerenza. Nel 1684 assume il potere e subito neutralizza la madre, isolandola e licenziando i di lei consiglieri. La politica di Vittorio Amedeo II è dunque di staccarsi dalla Francia (che in Piemonte occupa ancora Pinerolo) e passare alla Grande Alleanza che si stà formando in funzione antifrancese. Agisce con circospezione, sempre tenuto sotto sorveglianza da Luigi XIV, che nel 1690, con la scusa della lotta ai Valdesi, manda il generale Catinat ad occupare alcuni territori del Duca. Il Duca attrezza Torino a difendersi e firma l'alleanza con Spagna e Imperatore, nonché con Olanda ed Inghilterra, con l'obiettivo di riottenere Pinerolo, che è diventata una poderosa fortezza francese.
In quel momento (1690) i Francesi ritengono di poco conto la forza militare piemontese. La guerra inevitabile vede inizialmente i Francesi in vantaggio. A fianco di Vittorio Amedeo II vi è anche il cugino Eugenio, che milita in campo Austriaco. Alla fine della campagna del 1690 i Francesi si sono installati anche in Susa. L'anno successivo il Catinat ha ancora successi, ma fallisce la presa di Cuneo, mentre nel 1692 viene ridotto sulla difensiva, ma gli alleati non riescono a sfruttare il momento, e dopo un attacco verso la Provenza si devono ritirare. Il Generale francese Catinat nell'inverno tra il 1692 ed il 1693 porta le sue truppe sopra a Fenestrelle ad accamparsi. La località prende (ed ha ancora) il suo nome: Prà Catinat.
La sottile e spregiudicata politica di Vittorio Amedeo II lo porta ancora a fare un'alleanza segreta con la Francia, che stà tentando di dividere gli avversari, ed esce dalla Grande Alleanza ufficialmente dicendosi costretto a chiedere una tregua per mancanza di sufficenti aiuti da parte degli alleati. In questo modo riesce a fare gli interessi del Ducato e Pinerolo torna sabauda. Anche Casale, che ormai non riveste più particolare importanza, viene consegnata al Duca di Savoia.
La situazione ritorna fluida e precipita con la morte, senza eredi, del re di Spagna Carlo II nel 1700. Al solito tanti pretendenti (tutti più o meno lontani parenti che vantano diritti) e soprattutto preoccupazione per gli equilibrii successivi. Si forma subito una coalizione antifrancese e si va alla guerra. I Piemontesi sono alleati dei Francesi, ma l'alleanza franco-sabauda vacilla per svariati motivi. I Francesi, infatti, non rispettano i patti, non si fidano del Duca e lo accusano di fare il doppio gioco. Ma il Duca sà che i Francesi tramano contro di lui e non intendono dare corso agli accordi presi (in gioco c'è sempre Milano). In effetti il Duca, sempre pronto a cogliere l'alleanza più redditizia, fà effettivamente il doppio gioco e mantiene rapporti con l'avversario. Dinuovo accordi segreti e cambio di bandiera e di conseguenza ancora guerra contro la Francia. La guerra è dunque quella di successione spagnola ed il Piemonte entra nella coalizione antifrancese.
Negli anni 1703 e 1704 inizia una guerra disastrosa per il Piemonte e per la Coalizione. I Francesi dilagano e nel 1705, fermato sull'Adda il principe Eugenio che tenta di portare aiuto al Duca, puntano direttamente su Torino e ne tentano l'assedio. Truppe francesi sono sparse in Piemonte e lo tengono in pratica quasi tutto sotto controllo, manca solo la caduta di Torino.
Il generale francese La Feuillade trova comunque una resistenza imprevista, e si accorge che la città può resistere ben oltre le sue previsioni. Inoltre al generale mancano pezzi d'artiglieria da assedio, ed infine la stagione è avanzata e si avvicina l'inverno. Chiede dunque, a Luigi XIV di poter rimandare l'assedio e la conquista della città a dopo l'inverno. Le truppe francesi sono acquartierate nei dintorni di Torino (Montanaro , Chivasso), a Ivrea e nell'Astigiano.Nell'inverno ottengono ancora successi. Il Duca Vittorio Amedeo II sospetta che i francesi siano a conoscenza della dislocazione e consistenza delle opere difensive della città (e questo è vero), e dunque approfitta dell'inverno per riorganizzare e variare tutto l'impianto difensivo di Torino.
L'assedio di Torino del 1706
Nella primavera del 1706 alle truppe francesi in Piemonte se ne aggiungono di nuove, provenienti da Moncenisio e Monginevro. I Francesi giungono facilmente a Torino. Il giorno 11 maggio arrivano le avanguardie alla Venaria, il 13 maggio i francesi iniziano lo schieramento attorno alla città. Le forze francesi sono ingenti, 44000 soldati appoggiate da 110 cannoni, 60 mortai e 62 pezzi da campagna. Vittorio Amedeo II, che nell'inverno ha predisposto nuove opere di difesa e modificato quelle esistenti, come abbiamo detto, dispone di circa 6600 soldati regolari piemontesi, 1500 soldati alleati, 1500 cavalieri (ma solo 500 a cavallo), e meno di 4500 uomini della milizia cittadina. L'artiglieria conta 226 pezzi e 28 mortai. Il Duca ha attrezzato la città per l'assedio, introducendo viveri ed animali vivi da macellare (ospitati nei cortili), ma non ha una grande dotazione di polvere da sparo.
All'inizio dell'assedio, i contadini della collina riescono ancora, con un certo rischio, a far giungere in città delle vettovaglie. La collina è ancora contollata dai Piemontesi e qualche varco resta aperto. Ma la situazione si fà precaria presto, e le truppe piemontesi vengono ritirate in città. La città si prepara al bombardamento francese con provvedimenti vari (ad esempio le strade sono disselciate per diminuire la probabilità di schegge pericolose, e vengono messi in salvo, per motivi psicologici, il toro in rame simbolo della città, le campane e l'orologio del comune).
Dal 9 di giugno inizia il bombardamento sulle difese e sull'abitato (complessivamente andrà distrutto un terzo delle case di Torino).
Reparti dell'esercito piemontese si trovano in varie guarnigioni nel Piemonte e sono ridotti a poco. La cavalleria si trova a Carmagnola. Il Duca Vittorio Amedeo II ha chiesto aiuto al cugino Eugenio, che però deve arrivare dall'Austria, aprendosi la strada per il Nord Italia, prima che la città cada. Vittorio Amedeo II riesce ad uscire da Torino, sfuggendo all'inseguimento dei Francesi, e cerca di raccogliere il maggior numero di soldati nel territorio (essenzialmente conta sulla cavalleria e sui volontari Valdesi), e manovrare dall'esterno contro gli assedianti. Il comando della città è lasciato al Conte Daun, che dimostra estrema abilità nel gestire la situazione. Il Duca raccoglie a Carmagnola dei reparti di cavalleria, si scontra con gli inseguitori francesi e li batte, trova volontari valdesi nelle valli del Pellice. La lotta è contro il tempo, perchè Torino è pressoché priva di qualunque rifornimento, nonostante le
geniali trovate dei suoi abitanti e di quelli del circondario. Alla difesa della città partecipano in modo attivo tutti i suoi abitanti, comprese le donne. Queste ultime ricevono un diretto apprezzamento anche da parte dei Francesi: "voilà des femmes capables de faite la guerre aux diables". Anche i contadini fuori città danno origine ad una sorta di guerriglia di disturbo agli assedianti, nonostante le rappresaglie che questi mettono in atto.
Nei 117 giorni dell'assedio, sulla città cadono circa 150,000 cannonate. Le schegge dei proiettili francesi vengono raccolte dalla popolazione e rifuse per essere trasformate in proiettili da restituire al mittente. L'esercito piemontese ha un corpo specializzato nella cosidetta guerra di mina (che nel periodo era praticata da tutti gli eserciti). A partire dalla cittadella, centinaia di gallerie si diramano verso le linee francesi su due livelli di profondità. Possono servire per osservazione (o meglio, per ascolto) di quanto succede in superfice, possono essere minate e far saltare installazioni del nemico, permettono di uscire in osservazione, da passaggi nascosti. Tutte le gallerie sono protette da mine, che possono ostruire i rami eventualmente scoperti dal nemico, con sentinelle pronte ad azionarle. Anche i Francesi tentano di arrivare in galleria sotto le difese della città. Una guerra sotterranea classica del tempo. In città, a partire dall'inizio di agosto cominciano a mancare i viveri e stà terminando anche la polvere da sparo.
Il 26 agosto i Francesi sferrano un attacco che potrebbe essere risolutivo e riescono a prendere la cosidetta "Mezzaluna di soccorso". I Piemontesi contrattaccano, respingono i Francesi, e dopo 12 ore di combattimenti riprendono la Mezzaluna con un attacco alla baionetta. La Feuillade, che aveva già mandato verso Parigi l'annuncio della vittoria, è costretto a rettificare precipitosamente.
Nella notte tra il 29 ed il 30 agosto, un gruppo di Francesi scopre una delle uscite di galleria e vi penetra. Il gruppo è piccolo e probabilmente non è in grado di fare molto danno, e l'azione non è programmata, ma le sentinelle che sentono i Francesi arrivare non possono saperlo. La consegna è di bloccare la galleria con la mina. Sono di guardia una giovane recluta ed un esperto "minatore" di nome Pietro Micca. Costui si rende conto che la miccia è corta e non vi è tempo per provvedere diversamente. Manda via la recluta e confida nella sua abilità per far saltare la mina e salvarsi. Non considera la possibilità di non eseguire l'ordine. Non si sà esattamente cosa sia successo. La galleria esplode e Pietro Micca perde la vita nell'esplosione, Viene ritrovato alquanto distante dal fornello. Ce l'aveva quasi fatta. Forse rimane ferito e muore per il veleno dei gas dell'esplosione. Le gallerie che ancora oggi sono visitabili, sono parte del museo "Pietro Micca".
Il 31 agosto i Francesi aprono una breccia con artiglierie e mine e tentano l'attacco. I Piemontesi li respingono, e quindi riescono a sconvolgere gli attaccanti con le mine. Il loro contrattacco frutta la cattura di un cannone francese.
Vittorio Amedeo II, intanto, raccolti quanti più soldati possibile, converge su Torino. Nel frattempo arriva anche il cugino Eugenio, dalla collina di Superga, il 2 settembre si studia il piano. Si decide l'attacco in un punto rischioso, ma che appare come escluso dalle possibilità considerate dai Francesi. Qui a Superga Vittorio Amedeo fa il voto di costruirvi una basilica in caso di vittoria. I soldati austro-piemontesi muovono verso le posizioni di partenza. Nella notte fra il 3 e 4 settembre dei falò a Superga comunicano al Conte Daun che l'attacco è imminente. I Francesi suppongono che la città stia per cadere dal diradarsi dei tiri d'artiglieria per la penuria di polvere da sparo, ed hanno deciso una strategia che conta sulla loro superiorità numerica, convinti di non poter essere battuti e di poter respingere ogni attacco piemontese con facilità.
Le posizioni di partenza sono raggiunte nei giorni 5 e 6 di settembre. Il giorno 5 settembre si colloca l'episodio che coinvolge Maria Bricca (che, assieme a Pietro Micca, ha una via dedicata in Torino). Si tratta della popolana Maria Chiaberge, sposata Bricco e dunque, come capitava tra la gente in quel periodo, indicata come Bricca (moglie di Bricco). Durante la marcia di risalita della Dora, il Duca viene informato che stà giungendo un convoglio di rifornimenti francese. Il Duca decide di sorprenderlo e manda il Principe d'Anhalt ad attaccarlo. Quasi tutto il convoglio deve ripiegare nel castello di Pianezza, ove si trincea. Nel castello Maria Bricca ha servito per anni, conosce il modo di penetrarvi e guida il principe d'Anhalt ed i suoi uomini, che così annientano il convoglio.
I Francesi continuano ad attendere, sicuri di sé. Si arriva così al giorno 7 settembre 1706 quando, all'alba, le truppe austro-piemontesi che avevano raggiunto le basi di partenza cercando di dissimulare il più possibile i punti dell'attacco, dall'esterno muovono fino a ridosso dei Francesi e poi parte l'attacco. Forse tra i Francesi nasce la paura di rimanere intrappolati nella loro stessa rete di trincee, ed il fatto è che alquanto presto iniziano a ritirarsi da alcuni punti del loro scheramento. Dall'interno della città, appena la situazione esterna si fà chiara, viene predisposta ed effettuata una sortita dei Torinesi in appoggio agli attaccanti (alcuni squadroni di cavalleria verso la Stura e 2000 uomini della milizia dalla Porta di Susa, guidati dal Conte Daun e dal Marchese di Caraglio), ed i Francesi sono rapidamente sbandati, battuti e costretti ad una precipitosa ritirata. La sorpresa è riuscita. Già subito dopo mezzogiorno iniziano a ritirarsi i comandanti La Feuillade ed il Duca d'Orleans, verso sera gli ultimi reparti rimasti in retroguardia, lasciando sul terreno ingenti quantità di armi munizioni e materiali vari di rifornimento. Appena in tempo: negli arsenali cittadini a mala pena si trovano ancora 200 chili di polveri, nemmeno sufficienti alle salve di saluto a Vittorio Amedeo. La basilica di Superga sorge ora imponente sulla collina torinese.
Il Regno di Sardegna
Negli anni 1706 e 1707 Vittorio Amedeo II, con l'aiuto del cugino Eugenio, riconquista tutto il territorio, e quindi attacca le terre francesi delle alte valli di Susa e Chisone. Negli anni seguenti vi è un grande lavoro diplomatico per trovare un assetto soddisfacente dopo questa guerra di successione al trono di Spagna (si richiama l'origine della guerra, che sembra una ragione lontana, rispetto agli avvenimenti visti). Il Duca Vittorio Amedeo II ottiene, con la pace fatta nel 1713, Casale, tutto il Monferrato, Alessandria, Valenza, la Lomellina e la Valsesia, e le alte vallate alpine, già del Delfinato, che diventano piemontesi dopo molti secoli. A seguito di questa vittoria Vittorio Amedeo II diventa anche Re di Sicilia. Breve regno, tra l'ostilità dei siciliani. Vittorio Amedeo II si rende conto di non avere mezzi per dare unità statale al Ducato ed alla Sicilia. Ma intanto vi sono tensioni prima di giungere ad una pace definitiva e l'Austria, non più alleata, si prepara a rioccupare i territori che ha dovuto cedere al Piemonte. Nel 1718 una flotta spagnola sbarca un corpo di spedizione nell'isola ed i Siciliani accolgono gli Spagnoli come liberatori. Nello stesso anno l'Europa intera (Inghilterra, Francia, Olanda e Impero) decide poi per lo scambio della Sicilia con la Sardegna. Così i Savoia diventano anche Re di Sardegna. Titolo che manterranno fino al 1861, quando diventeranno i Re d'Italia. Ora siamo nell'anno 1718.
Le riforme di Vittorio Amedeo II
Il Duca (e poi il Rè) mette mano a riforme che non sono certo rivoluzionarie, ma che riorganizzano le varie materie e portano lo stato ad essere burocratizzato ma efficente, forse il più efficente d'Europa. Il Rè afferma che nulla (se non Dio) può condizionare la sua volontà, e vengono eliminate tutte quelle funzioni che in qualche modo possono interferire con il suo potere. Questo vale anche per la Chiesa e le istituzioni religiose. Rivendica il controllo dello stato sull'istruzione, ma pone severi limiti ad idee non ortodosse degli insegnanti laici. Dunque si tratta di un assolutismo a tutto campo.Il Rè pianifica ogni cosa e tutto viaggia secondo le sue direttive, compresa l'economia.
Eliminata la figura del primo segretario di stato, il Rè crea tre segreterie che sono veri e proprii ministeri degli Interni, Esteri, Guerra, minuziosamente organizzati. Rimane una figura di Gran Cancelliere, ma senza molta rilevanza politica.
I problemi sono quelli di sempre, e primo fra tutti la povertà. La guerra contro la Francia ha nuovamente devastato il Piemonte, che subisce una notevole recessione, Vi sono molti disoccupati, prima di tutto braccianti. Anche in questo caso è il Rè che interviene ad organizzare le Opere assistenziali. Vengono fondati Ospizi, per i quali spesso il clero assume un ruolo di direzione, e questo non piace al Rè. Anche gli ospedali vengono migliorati.
La cultura ha bisogno di crescere. Nobiltà e borghesia piemontesi sono in effetti piuttosto rozzi ("grotolù" in piemontese). Si lavora per migliorare scuole ed Università. Vengono istituiti istituti di scuola superiore, e l'istruzione in generale viene tolta al monopolio ecclesiastico. Vittorio Amedeo II si impegna in una revisione dei sistemi fiscali e nella riduzione dei vantaggi feudali di nobiltà e clero, cosa che provoca non pochi contrasti tra Torino e Roma. Non si tratta ovviamente di problemi religiosi, che non sussistono al momento, ma di ottenere il controllo dell'intero stato, senza che in questo vi siano aree o feudi con particolari privilegi. Il Rè però mantiene per sé il privilegio di censurare bolle, editti, nomine che provengono da Roma, e proporre Vescovi (che Roma regolarmente rifiuta con il risultato che alcune sedi vescovili rimangono vacanti per anni). La pressione fiscale comincia a ridursi, grazie alla progressiva eliminazione delle contribuzioni straordinarie, ed il carico fiscale viene ridistribuito in modo più efficente e controllato. Si assiste così alla diminuzione del gettito portato dalle imposte dirette, ma vi è un notevole aumento di quello prodotto dalle imposte indirette, segno di buona prosperità della nazione.
Nel 1715 il Rè, con dichiarato scopo fiscale, ordina un censimento di tutti i feudi, ed impone ai nobili di esibire i titoli che ne assegnano loro i diritti. L'operazione si conclude con la confisca di molti di questi e l'emersione di proprietà dichiarate come feudo per evaderne le imposte. I feudi confiscati sono rimessi in vendita, e spesso ritornano al precedente beneficiario, fruttando allo stato ottimi incassi.
Altra riforma attuata da Vittorio Amedeo II è, in campo legislativo, il riordino, ammodernamento ed unificazione dei codici, nei quali appare una maggior tutela dell'imputato, ma non vi è una mitigazione di pene o una loro gradualità in funzione della gravità del reato.
Particolare cura viene dedicata al potenziamento ed all'organizzazione dell'esercito. In questo periodo si crea l'idea che il Piemonte sia l'unico stato italiano con un esercito in grado di sostenere la sua politica, e che i Piemontesi abbiano una particolare vocazione militare. L'esercito in servizio, in tempo di pace, viene portato a 25'000 uomini. Le spese militari, anche in tempo di pace, diventano gravose. Ora l'esercito è in maggioranza fatto da sudditi e non da mercenari.
Il completamento del territorio
Nel 1730 Vittorio Amedeo si ritira a Chambery e lascia il trono al figlio Carlo Emanuele III, che è il secondogenito in quanto il primogenito Vittorio Amedeo Filippo è morto. Mantiene i legami con Torino da cui riceve resoconti ed a cui invia consigli. Successivamente vi saranno aspri contrasti tra padre e figlio, Vittorio Amedeo tenterà di riprendere il potere, non condividendo le politiche del figlio, ma finirà in prigione ove morirà.
Carlo Emanuele III riorganizza ed accresce l'esercito e rafforza le fortificazioni alpine. Nel 1733 si apre la questione della successione polacca. Si va verso la guerra, e Carlo Emanuele si allea ancora con la Francia, (e la Spagna) nel solito tentativo di espandersi verso Milano. Il trattato di alleanza non è molto chiaro ed è contro l'Austria. Carlo Emanuele occupa rapidamente la Lombardia. Nei primi mesi del 1734 il Ré prende possesso di Milano, dichiarandolo non una conquista ma una espansione del suo territorio, e cerca di dare un nuovo assetto politico alla città, ma incontra l'ostilità dei lombardi, ed in particolare della nobiltà. Anche la borghesia è contro di lui, che per esigenze di guerra è costretto ad imporre tributi. Inoltre, in generale i Piemontesi sono mal visti in Lombardia. La guerra è vinta ma i giochi diplomatici e l'abilità dell'alleato lasciano poco al Rè di Sardegna, in quanto il Piemonte acquista solo Novara e Tortona, con il trattato del 1738. Carlo Emanuele deve lasciare Milano, che ritorna all'Austria, con la soddisfazione dei milanesi, che accolgono gli Austriaci come liberatori.
Subito si apre un nuovo problema di successione in Austria, e di nuovo il Piemonte si trova tra i due blocchi contendenti. Carlo VI d'Asburgo, senza figli maschi, emana la Prammatica Sanzione che abolisce la legge salica della successione e rende la figlia Maria Teresa erede al trono. Muore nel 1740 e, date le solite pretese, ed i soliti equilibrii a rischio, è la guerra. Il Piemonte si allea con l'Austria, ma è una intesa strana, che suppone la possibilità di accordarsi anche con la parte avversa. Carlo Emanuele continua a sperare di ottenere Milano e non comprende che comunque l'Austria non intende lasciare quella città. Dalla parte avversa si trovano Francesi e Spagnoli, ora alleati. La guerra inizia con la perdita della Savoia, invasa dai Francesi, che successivamente occupano anche Nizza. L'accordo con l'Austria viene perfezionato nel 1743 .
I Franco-Spagnoli attaccano il sud del Piemonte e minacciano Cuneo. La difesa della città (1744) è affidata al Barone Leutrum che sà comportarsi in modo egregio, diventa un eroe, è molto amato dalla gente (alla fine della guerra gli verrà offerto a vita il governo della città, e passerà alla storia, nelle ballate popolari, con il nome piemontesizzato di Baron Litron). Nel 1745 Genova entra in guerra contro il Piemonte. La guerra prosegue con successi franco-spagnoli prima (che occupano Asti e assediano Alessandria) e piemontesi-austriaci dopo (che riprendono Asti e liberano Alessandria). Nel 1746 Genova, che è occupata dagli Austriaci, insorge (episodio Balilla). Gli Austriaci lasciano la città, i Piemontesi si ritirano da alcune valli, ma occupano Savona. Così si giunge all'anno 1747. In questo anno la Francia, che nel frattempo ha occupato le Fiandre, predispone e tenta l'occupazione dell'Olanda e del Piemonte, ma viene decisamente battuta in Piemonte. Qui sotto si dice della battaglia dell'Assietta, uno dei momenti decisivi della guerra. Si giunge alla pace di Aquisgrana nel 1748, con la quale il Piemonte porta il suo confine al Ticino, ed ottiene così l'integrità territoriale, sotto la sovranità dei Savoia. Non vengono invece riottenuti tutti i territori fuori della regione (in effetti, nel complesso, i Savoia non ottengono molto). Ancora una volta il Piemonte viene penalizzato dagli accordi tra grandi potenze, ed il sogno dei Savoia di ottenere Milano sfuma ancora (con soddisfazione dei milanesi).
La battaglia dell'Assietta - Noiautri i bogioma nen
Come visto sopra (breve riassunto), ci troviamo nel contesto della guerra di successione austriaca. Per quanto riguarda la nostra storia, Francesi e Spagnoli sono alleati contro Piemontesi ed Austriaci. Siamo nel 1747 e Carlo Emanuele III è Duca di Savoia. È il figlio di Vittorio Amedeo II, Duca al tempo dell'assedio di Torino del 1706.
Nella primavera i Piemontesi ed Austriaci (d'ora innanzi Piemontesi) stanno assediando Genova, ed i Franco-Spagnoli (d'ora innanzi Francesi) attaccano da sud il 4 giugno, puntando su Genova, ma dopo aver occupato Nizza e Villefranche, sono fermati dai Piemontesi al comando del Barone Leutrum (il difensore di Cuneo di tre anni prima).
I Francesi decidono un secondo attacco su Torino, per sbloccare la situazione, e verso la metà di giugno iniziano a concentrare truppe in un'area (Mont Dauphin) dalla quale si possono raggiungere i passi utili allo scopo dalla Valle della Stura di Demonte fino alla Valle di Susa. Non è dunque desumibile il punto dell'attacco. Le truppe piemontesi non impegnate a sud sono quindi sparse su di un largo arco di montagne.
I servizi di informazione piemontesi avvertono, il giorno 11 luglio, che le truppe si muovono verso Birançon, e dunque verso il Monginevro.
Dal Monginevro (circa 90 km da Torino), vi sono due vie "normali" verso Torino. La prima è la Valle di Susa, che però ad Exilles è sbarrata dal poderoso forte omonimo, il quale a sua volta è protetto dalle fortificazioni della Brunetta, in grado di colpire ogni punto nel quale può essere piazzata artiglieria contro il forte. La seconda è la Valle del Chisone, che però, a Fenestrelle è sbarrata dall'omonimo forte, anzi, da
un sistema fortificato che si estende su 600 metri di dislivello sui fianchi della montagna.
Una alternativa è quella di salire sulla costa tra le due valli dove, superato il colle dell'Assietta, si può seguire la larga costa e scendere, ad esempio, in Val Sangone da dove si arriva direttamente su Torino. Il Belle-Isle, comandante della spedizione francese, ritiene impossibile, o quantomeno molto imprudente, attaccare una delle due fortezze e quindi decide di passare dal colle dell'Assietta. Sà che sull'Assietta vi sono soldati piemontesi che stanno iniziando a fortificare il colle, ma sà anche che sono pochi e che le fortificazioni sono approssimative ed ancora incomplete. In effetti si tratta di opere realizzate principalmente con muri a secco e trincee, con lo scopo di costringere un esercito avversario a passare a tiro di uno dei forti. Il gwùenerale francese ritiene che sia semplice far sloggiare i Piemontesi dal colle senza che questi possano costringere le sue truppe a scendere a tiro dei forti. Si porta dunque sotto molto rapidamente per impedire ai Piemontesi di rafforzare la posizione con uomini fatti confluire dagli altri settori.
Sulla cresta che dal Sestriere va all'Assietta vi sono in tutto 7400 soldati piemontesi ( 9 battaglioni piemontesi e 4 tra austriaci e svizzeri al sevizio del Duca, ed alcune centinaia di volontari valdesi ). I pezzi d'artiglieria sono 6, più 4 mortai leggeri, gli unici facilmente manovrabili su quel terreno, ed i difensori hanno una marcata scarsezza di munizioni. Li comanda il generale Conte di Bricherasio, che tra i suoi comandanti ha il generale Conte di San Sebastiano (di cui diremo) ed il generale Alciati.
I Francesi, che hanno passato il Monginevro forse in 50'000 (notizia incerta allo scrivente, ma certo non tutti parteciperanno alla battaglia)), si sono divisi in tre colonne e salgono da Pragelato, da Souchères Basses, e da Sauze d'Oulx. Due colonne dirigono verso l'Assietta (una verso la Testa dell'Assietta e l'altra verso la piana del colle) e la terza, con movimento aggirante, punta alla Testa del Gran Seren. Questi sono i tre cardini della difesa piemontese.
Il 19 luglio, alle 4 del mattino, i Francesi muovono verso il Colle, che si trova a 2478 metri di altezza. L'armata francese che attacca è costituita da 40 (numero incerto allo scrivente) battaglioni di fanteria, 5 squadroni di cavalleria e 13 pezzi d'artiglieria, per un totale di presumibili 24'000 uomini o più (secondo altre fonti). Solo alle 11 del mattino la prima colonna giunge di fronte alle linee del Colle. I Francesi scoprono subito che le munizioni dei Piemontesi sono molto scarse, perchè questi non aprono il fuoco anche se la distanza è molto piccola (meno di 250 metri). Quindi si fermano ed attendono l'arrivo di una delle altre due colonne per attaccare insieme.
Dopo un po' arriva anche la colonna che punta alla Testa dell'Assietta, viene piazzata l'artiglieria ed inizia il fuoco contro le postazioni piemontesi. Fino a dopo le 16 non vi sono scontri violenti, ma intanto anche la terza colonna arriva in posizione sotto il Gran Seren, ed i Francesi si lanciano avanti con estrema decisione.
I difensori del colle lasciano avvicinare i Francesi fino ad arrivare quasi a contatto e poi aprono il fuoco. Due battaglioni sparano di fronte mentre un terzo riesce a prendere i Francesi d'infilata sul fianco. I Francesi si sbandano e retrocedono, sono costretti a ritirarsi e riorganizzarsi per ripartire subito dopo in una seconda ondata. L'attacco alla Testa dell'Assietta inizialmente guadagna un pò di terreno, superando di slancio alcuni avamposti, ma è fermato subito dopo, sotto alla cima. Qui è stata abbozzata una tenaglia difensiva tenuta dai granatieri del Conte di San Sebastiano.
Il Generale Belle-Isle che si era portato tra i soldati, supponendo vicina la vittoria, viene ucciso. La lotta diventa corpo a corpo, praticamente finite le munizioni, i Piemontesi combattono con la baionetta ed i sassi. Sembra buffo che un esercito possa essere contrastato con i sassi, come in una riedizione di David e Golia, ma chi conosce la montagna sà quanto in montagna i sassi che cadono siano pericolosi.
L'ultima riserva piemontese, il battaglione Casale, viene lanciato nella mischia. Intanto inizia l'attacco anche alla Testa del Gran Seren. I difensori si comportano bene, ma l'attacco è violentissimo e ad ogni ondata respinta ne segue una più violenta. Il Generale Conte di Bricherasio, che si è portato in cima, teme che i Francesi possano passare sul Gran Seren, e questo provocherebbe l'accerchiamento e la perdita delle unità sulla piana del Colle. Sono le 7 di sera. Manda al generale Alciati l'ordine di ritirarsi per coprire una
eventuale falla, ma Alciati fa spostare solo parte delle truppe e qualche riserva. Lo stesso ordine è mandato al generale Conte di San Sebastiano che, come Alciati sta difendendo la Testa dell'Assietta. Si dice che il Conte abbia rimandato il portaordini con la risposta "Noiautri i bogioma nen" (noi non ci muoviamo), di questo non vi è riscontro storico, certo è che il San Sebastiano, impegnato in una furibonda difesa all'arma bianca, non esegue l'ordine. Il Bricherasio ripete l'ordine e questa volta il Conte risponde che può difendersi ma non può muoversi (in effetti dovrebbe spostare i granatieri su terreno scoperto battuto dai Francesi). Il Bricherasio non crede a questo ed insiste con l'ordine di ripiegare. Questo comporterebbe comunque una eventuale difesa in posizione più arretrata e meno favorevole, ed alcuni commentatori sostengono che in realtà il Bricherasio stesse organizzando il ripiegamento, considerando la battaglia ormai persa. All'arrivo del terzo ordine di ripiegamento i granatieri del San Sebastiano, e lo stesso Conte in piedi sui muretti, stanno respingendo alla baionetta l'ultimo assalto dei Francesi. Anche sul Gran Seren l'ultimo attacco viene respinto. Intanto anche i volontari valdesi hanno respinto ogni tentativo di infiltrazione dei Francesi nel loro settore. Si stà facendo buio. La battaglia è vinta.
I Francesi non possono attaccare ancora, ed ormai si stanno ritirando disordinatamernte verso valle, avendo subito gravissime perdite. Il Conte di Bricherasio scarta l'idea di inseguirli perchè mancano del tutto le munizioni e potrebbe esserci un nuovo attacco il giorno successivo, quindi è meglio riorganizzarsi. Ma il giorno successivo i Francesi hanno già abbandonato il campo e si dirigono verso il Monginevro. Fra le motissime perdite subite vi sono buona parte degli ufficiali e molti reparti sono senza comando. Dalla presunta risposta del Conte di San Sebastiano al Conte di Bricherasio, diventata leggenda tra i soldati, deriva l'appellativo "Bogia nen", riferito ai Piemontesi.
La vittoria ha un peso determinante per la fine della guerra, in quanto non permette ai Francesi di mettere in atto l'attacco attraverso il Piemonte che avevano preparato. Nella battaglia le perdite francesi sono 5300 uomini (6000 secondo altre fonti), incluso il generale Conte di Bellisle, i Piemontesi perdono 192 uomini, gli austriaci 27 (altre fonti parlano di 300 perdite circa, complessive inclusi i volontari valdesi). Il giorno dopo i valligiani salgono a raccogliere morti e feriti, e si trovano di fronte ad una scena spaventosa: corpi, armi, sangue e distruzione sono fittamente sparsi su tutto il terreno in vista.
La battaglia viene commemorata ogni anno il 19 luglio, al colle dell'Assietta, nella celebrazione della Festa del Piemonte.
I commentatori sono (abbastanza) concordi nel dire che se il San Sebastiano avesse obbedito all'ordine del Bricherasio, la battaglia sarebbe stata perduta, in quanto l'ordine stesso rientrava in una logica di disimpegno e ripiegamento. Lo scrivente non è esperto di tecnica militare del '700 e dunque non può esprimere un parere. Secondo alcuni storici successe che tutto il merito fu attribuito al Bricheasio, mentre il San Sebastiano fu lasciato nell'ombra. Questo, fra le unità combattenti, avrebbe provocato sconcerto ed indignazione. Il Conte di San Sebastiano era figlio di primo letto della Marchesa di Spigno. La storia di questa donna esula dallo scopo di queste poche note, ma da questa si comprenderebbe il perchè di quanto sopra (all'epoca della battaglia la Marchesa si trovava in un convento di clausura, dove era stata fatta rinchiudere dal Rè). Secondo altri, anche il San Sebastiano ebbe la sua buona parte di gloria.
La situazione del Piemonte nel '700
A partire dalla vittoria di Torino del 1706, ottenuta non solo dall'esercito ma anche dall'impegno e dal coraggio della popolazione, rinasce in Piemonte la "voglia di nazione piemontese", con una maggior forza rispetto a quanto era successo con Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele I. La vittoria dell'Assietta e la conseguente fine della guerra porta al Piemonte, se non grandi territori, almeno la coscienza dei Piemontesi di essere davvero una nazione di cui andare orgogliosi. Con le imprese dell'Assietta, ma anche di Asti, Alessandria e Cuneo, l'esercito piemontese si conferma, non solo agli occhi dei Piemontesi, un esercito di prim'ordine, in grado di sostenere con le armi la politica del Rè. Ma vi è tutto da ricostruire.
Carlo Emanuele III inizia a prendere dei provvedimenti a favore dell'industria. Industria mineraria e metallurgica destano particolare interesse, anche per la produzione di armi. L'industria della seta è fortemente tutelata dalle leggi e nulla della tecnologia utilizzata può essere esportato. La seta piemontese mantiene il primato della qualità in Europa. L'industria laniera si sviluppa bene, sebbene il prodotto non sia eccellente e comincia a concentrarsi nella zona di Biella. Anche lino e canapa sono diffusi in particolare come piccole lavorazioni domestiche nelle campagne, che servono ad integrare i proventi del lavoro agricolo. A Chieri si riprende l'industria del cotone.
Il commercio non si sviluppa molto a causa delle vie di comunicazione in cattivo stato e di molti dazi e diritti da pagare. Quella che continua ad essere in difficoltà è l'agricoltura. Questa si stà lentamente trasformando, ma in modo disomogeneo. Vi sono zone in cui l'agricoltura è di sussistenza e di autoconsumo, come succede nei territori alpini, altre dove vi è una grande produzione organizzata in senso capitalistico per l'esportazione. Il 1734 porta una spaventosa carestia, a causa della siccità (per oltre dodici mesi sul Piemonte non cade una goccia d'acqua). La resa dei terreni è scarsa e la vita in campagna è difficile, tanto che molti contadini devono emigrare. Sono molti i contadini che durante l'inverno si spostano in città in cerca di lavoro, ma nonostante tutto questo l'agricoltura piemontese viene descritta come fiorente, e gli osservatori stranieri ammirano soprattutto il fitto sistema di canali per l'irrigazione della pianura.
Ancora verso la fine del '700 esistono forme di servitù della gleba contro le quali vengono promulgate varie leggi, ma il problema continua a sussistere. Le tecniche agricole sono antiquate e la resa dei campi non supera il cinque o sei per uno della semente, mentre in altre aree europee si è già raggiunto e superato il dieci per uno. Si ha una migrazione anche verso le città, dove però non sempre si trova lavoro, e si forma una classe di emarginati, relegata nei quartieri degradati di periferia.
In questo secolo comincia, in Piemonte, a formarsi una classe operaia, che desta qualche preoccupazione in quelle aree dove la percentuale di operai comincia ad essere alta. La classe operaia, dal canto suo, è già in grado di far sentire la sua voce, per esempio protestando contro il caro-affitti ottiene riduzioni, e persino la costruzione delle prime case popolari ma è chiaro che non si parla ancora di una forza organizzata, di sindacato e tanto meno di lotta di classe, cose che cominceranno ad apparire nel secolo successivo. Accanto a questa classe nasce anche, un po' in sordina e quasi mascherata dalla classe dei nobili, una classe di imprenditori che investe le sue ricchezze, in particolare nel fiorentissimo affare della seta.
In ogni caso la società dimostra una vitalità notevole, e si stà imboccando la via della ripresa, dopo l'epoca delle guerre. L'esercito continua ad essere ingrandito e perfezionato per tutto il resto del secolo.
Già a partire dal '600, ma in particolare nel '700, Torino si ingrandisce e si abbellisce di monumenti, palazzi e chiese. Vi lavorano architetti di grande fama, quali il Guarini e lo Juvarra, (che vittorio Amedeo II si è portato dalla Sicilia) e poi Benedetto Alfieri. Nascono i teatri Regio, Carignano ed altri. Mentre non vi è grande interesse per la letteratura, la classe nobile e borghese di Torino ama molto la musica ed il teatro. Le idee illuministiche sono bandite e tenute lontano da una severa censura. L'illuminismo piemontese é, in forma palese, soltanto presente in campo scientifico, ove però vengono ottenuti brillanti risultati. A fine secolo la città si avvia verso i 100.000 abitanti.
Nel '700 a Torino nascono alcuni circoli letterari, ma senza una grande vitalità, data la censura sempre presente verso le nuove idee e l'Illuminismo. Alcuni dissidenti preferiscono emigrare mentre chi rimane è piuttosto perseguitato. Vittorio Alfieri preferisce migrare a Firenze. In campo scientifico, invece, vi è molta vivacità. Si studia Matematica, Fisica, Chimica con grandi successi, nonché Arte Militare e tutte le discipline ingegneristiche connesse. Un nome per tutti : Lagrange. Si fonda nel 1757 una società filosofica e matematica di cui fanno parte Lagrange, Cigna, etc. che nel 1780 viene riconosciuta da Vittorio Amedeo III come " Societé Royale des Sciences de Turin", e che nel 1783 diventa la Reale Accademia delle Scienze.
Per tutto il '700 si constata una lenta ma progressiva riduzione dell'analfabetismo, ma per larghi strati della popolazione il saper leggere e scrivere si limita al saper fare la propria firma e a leggere qualche editto regio, senza peraltro capirne il significato. La scuola elementare fà ancora uso di testi in latino, e l'insegnamento è affidato a persone senza una specifica preparazione. L'italiano non si diffonde e rimane, come il francese, una lingua decisamente estranea alla vita della gente. Quasi tutti ne capiscono qualcosa e sanno che esiste (spesso viene chiamata "toscano"), ma nessuno, a nessun livello, la usa. L'architetto del Rè, Benedetto Alfieri, si ostina a parlare italiano dopo un viaggio a Roma, e viene canzonato d tutti.
Nel frattempo, cosa ha fatto la lingua piemontese?
Abbiamo visto (stiamo riassumendo) che un rudimentale piemontese era già parlato con ogni probabilità intorno all'anno 1000. Il primo documento scritto in questo piemontese in formazione risale agli anni intorno al 1150. Abbiamo altresì visto che la lingua piemontese scritta raggiunge la sua maturità nei primi anni del '300. Nei secoli successivi la produzione letteraria piemontese continua, non massiccia ma costante. Oltre alla prosa si hanno poesie, teatro, saggi e persino sentenze di giudici. Nel '600 il piemontese è quello che ancora oggi viene parlato e scritto. La lingua è stabile, salvo le evoluzioni che tutte le lingue parlate subiscono nel tempo, e diffusa in tutta la regione. Ogni area, poi, nell'ambito della stessa lingua, ha le sue sfumature locali, cosa che succede a tutte le lingue. Con gli avvenimenti del XVIII secolo si ha una vera esplosione letteraria in piemontese. Vittorio Alfieri, che come abbiamo visto è emigrato a Firenze per sottrarsi alla censura, scrive le sue opere in Italiano e critica il Piemontese come "rozzo dialetto", scrive lui stesso almeno due sonetti in Piemontese e tiene alcuni quaderni nei quali annota parole e detti piemontesi con le relative traduzioni in Italiano. Verso la fine del secolo prende corpo, da parte di alcuni, l'idea di adottare il piemontese come lingua ufficiale dello stato. In effetti il piemontese è da tutti parlato, dai nobili ai contadini, mentre italiano e francese, lingue usate per gli atti ufficiali, sono conosciute da pochissime persone. Nel 1783 viene pubblicata la prima grammatica della lingua piemontese (vedi letteratura). I Piemontesi sono consci di essere una nazione, e sono fieri di esserlo. L'invasione napoleonica, che per qualche anno porta l'occupazione francese in Piemonte, impedisce che il progetto venga ulteriormente discusso, si tenta piuttosto di introdurre gradualmente il francese come lingua ufficiale, ma questo verrà visto qui di seguito. Invero, come rilevato da Maurizio Pipino, autore della prima grammatica piemontese, il piemontese è la lingua con la quale a corte si discute di ogni argomento, mentre i vescovi consigliano la predicazione in piemontese. Carlo Denina, abate letterato, scrive nel 1804 che il piemontese sarebbe diventato "lingua illustre" se gli eventi storici non fossero stati sfavorevoli, e su questo concorda Louis Capello, conte di Sanfranco. Negli anni successivi vengono pubblicati vari vocabolari piemontesi (Pipino associa alla sua grammatica un dizionario, Capello pubblica un dizionario piemontese - francese e Zalli un dizionario quadrilingue piemontese - francese - italiano - latino, quindi Ponza, Sant'Albino e vari altri) .
Rousseau, in visita a Torino, nota come gli sia stato facile trovare una locanda in quanto conosceva già bene il piemontese, mentre un consigliere del parlamento di Borgogna nota che a Torino si parla indifferentemente il francese e l'italiano, ma che ambedue non sono la lingua naturale del posto, che è invece il piemontese, incomprensibile se si conosce solo l'italiano ed il francese.
L'influenza della rivoluzione francese - I Giacobini piemontesi
Vittorio Amedeo III sale al trono nel 1773. Si tratta di un sovrano mediocre, che si circonda di persone non particolarmente brillanti, cortigiani più che statisti. Presto l'amministrazione decade, le spese sono alte. Lo spirito militare è anch'esso alquanto in decadenza, nonostante i moltissimi soldi spesi per l'esercito. Le idee nuove, anche le più moderate, sono viste con sospetto e rifiutate, e così i migliori spiriti o emigrano oppure cospirano. L'Illuminisno è di molto sottovalutato nelle sue implicazioni, e tenuto lontano dalla censura.
Anche il Piemonte è coinvolto e travolto dalla rivoluzione francese e dalle conquiste napoleoniche. Le idee rivoluzionarie trovano terreno fertile in alcuni strati intellettuali piemontesi, meno nella popolazione, che rimane sempre molto legata alla monarchia. La Savoia, poi, si trova in territorio geograficamente francese, e lo scontro con la Francia è inevitabile.
Ma in Piemonte, allo scoppio della rivoluzione è Rè Vittorio Amedeo III che, come visto, non ha brillanti qualità di statista. Come si è detto, in Piemonte non sono arrivate, se non di nascosto, le idee illuministiche, e la rivoluzione francese non è compresa nella sua portata, anzi, dalla corte è considerata un fatto trascurabile, destinato ad esaurirsi rapidamente.
Il Piemonte accoglie molti nobili profughi dalla Francia, e dai loro racconti si comincia a capire meglio la portata della rivoluzione. Mentre i nobili francesi diffondono odio contro i rivoluzionari, i loro servi, che li hanno accompagnati, diffondono le idee rivoluzionarie fra la gente. Vittorio Amedeo III, senza capacità o intuizioni diplomatiche, si organizza militarmente in funzione anti-francese, ma l'esercito, pur essendo stato modernizzato ed ampliato, non è all'altezza di una situazione di tale portata. Alcune fonti parlano di un esercito fatto di belle uniformi e di carriere per nobili, senza che, dopo le vittorie di cinquant'anni prima sian state fatte grandi innovazioni di sostanza e di mentalità. Altre fonti parlano invece di un esercito bene attrezzato ed armato, con una organizzazione moderna, ma comunque non sufficente ad arginare la marea francese, sostenuta da idee che stanno infiammando molti animi. Sicuramente le spese sostenute per l'esercito non sempre sono state oculate.
Non ci si rende conto che la neutralità, associata ad un cauto lavoro diplomatico, potrebbe essere una scelta efficace. Anche a causa di questa poca chiarezza, il Regno di Sardegna non viene adeguatamente appoggiato dalle potenze europee, che in realtà non stanno ancora pensando alla guerra, e vengono commessi errori che portano il Piemonte a perdere rapidamente la Savoia e Nizza (1792). A questo punto il Regno di Sardegna entra nella prima coalizione anti-francese.
La guerra riprende, ma non vi è collaborazione tra gli alleati. L'obiettivo di Vittorio Amedeo III è quello di riprendere la Savoia e Nizza, mentre all'Austria interessa essenzialmente la difesa di Milano, e certo non le terre d'Oltralpe del Rè di Sardegna. Dopo alterne vicende i Francesi prevalgono. Vittorio Amedeo III firma una pace separata, nella quale si giunge ad una prima parziale occupazione francese del territorio piemontese. I Piemontesi sperimentano che i Francesi sono rozzi e violenti. Tutto ciò è di stimolo per i rivoluzionari giacobini, che in Piemonte danno luogo ad una disordinata guerriglia nelle campagne, che conta anche, per possibili appoggi, sulla presenza di truppe francesi sul territorio. I giacobini di Alba proclamano la repubblica (1 maggio 1796) e chiedono la protezione francese. La repubblica di Alba non è molto nei canoni dei giacobini francesi, in quanto gli albesi sono molto legati alle loro tradizioni, alla monarchia, al clero. Brevissima la vita della repubblica, in quanto la pace successivamente fatta con i Francesi va nella direzione di non infierire sul Piemonte per mantenerlo fuori dalla contesa, proponendo anzi una specie di collaborazione. Così l'esperimento repubblicano e giacobino di Alba non solo non si amplia, ma si estingue, in quanto diventa un impaccio per i Francesi stessi. Nel periodo (ottobre 1796) sale al trono Carlo Emanuele IV che, anche lui, non è all'altezza di una situazione che si è fatta ben difficile da gestire. I Francesi ora si comportano da occupanti, visto che il Re deve cedere loro la cittadella di Torino, ed il Piemonte è formalmente "alleato" dei Francesi. La miseria nelle campagne cresce, causata da guerra, rivolte, occupazione e ritorsioni, ed i giacobini tentano di sfruttare la situazione per ottenere la sollevazione del popolo. Vari focolai insurrezionali sono subito eliminati dalle truppe regie, senza che i Francesi intervengano. L'insurrezione supposta dai giacobini, in questa prima fase, non si è concretizzata. Anche un tentativo di invasione giacobina dal lago Maggiore fallisce. I Francesi hanno in questo momento altri problemi e non supportano questo tipo di movimenti, inoltre la maggioranza della popolazione stessa, in particolare nelle campagne, dimostra di non essere giacobina.
In queste lotte i giacobini portano coccarda rossa, azzurra e arancione (groson in piemontese). Il colore arancione (che è anche quello della repubblica di Alba) compare oggi sul "drapò" piemontese come fiocco legato all'asta. Questo per ricordare "tutta" la storia piemontese.
L'occupazione francese
Alla fine del 1798 la monarchia piemontese, almeno in Piemonte, cade. In Europa, con Napoleone in Egitto, si stà preparando la seconda coalizione contro la Francia. I Francesi decidono di occupare il Piemonte prima che questo passi alla coalizione, fomentano moti rivoluzionari per abbattere la monarchia dei Savoia. Il re, Carlo Emanuele IV, constatata l'impossibilità di reagire, a fine 1798 lascia Torino e si ritira in Sardegna. Il Piemonte viene nuovamente e completamente occupato dai Francesi. Nasce la repubblica rivoluzionaria, con un governo imposto e controllato direttamente dalla Francia. A questo punto inizia un nuovo periodo di disordini e rivolte nelle campagne, questa volta contro i Francesi ed i repubblicani. La situazione economica della gente, infatti, continua a peggiorare. I Francesi, nel 1799, saccheggiano i palazzi piemontesi e distruggono o disperdono molti documenti degli archivi di stato (questo è uno dei motivi di perdita di documenti in Piemontese). Nelle città si cerca di rendere tutto francese e repubblicano, una forte opposizione si trova nelle campagne.
Alcuni circoli culturali si sforzano di dimostrare che il Piemonte è francese. A Torino è rimasto il principe Carlo Emanuele di Carignano con il figlio Carlo Alberto. Carlo Emanuele professa idee rivoluzionarie ed entra nella guardia nazionale. Si vota sul destino del Piemonte, ed il 9 marzo 1799, con una votazione ampiamente forzata e scontata in anticipo, il Piemonte viene annesso formalmente alla Francia, ma al momento la cosa non ha seguito. Riprendono le insurrezioni contadine e compare la guerriglia, che ora va sotto il nome di brigantaggio. Nella maggior parte dei casi, invero, la guerriglia anti-francese è in mano ad avventurieri. Si tratta di una guerriglia feroce, che si sviluppa in particolare fra Astigiano, Langhe e Cuneese. Il numero dei combattenti insorti è decisamente alto, Intanto l'esercito austro-russo ottiene successi sui Francesi ed entra in Piemonte riuscendo a rioccupare Torino. Siamo alla fine del 1799. Il Piemonte è ormai in mano a Cosacchi ed Austriaci. I Cosacchi sono rozzi e violenti, gli Austriaci non sono da meno. È facile immaginare quale può essere la condizione dei ceti popolari in questa situazione.
Il rapido intervento di Napoleone (seconda campagna d'Italia, battaglia di Marengo, anno 1800) rimanda gli austro-russi oltre il Ticino. Il Piemonte, a questo punto, diventa effettivamente territorio francese. L'operazione, che inizia nel 1801. termina l'11 settembre 1802 con l'approvazione del senato. Il decreto è pubblicato il 22 dello stesso mese. L'esercito piemontese viene inquadrato in quello francese, ed i militari di leva sono dispersi nei reparti francesi. La provincia di Novara viene invece inglobata nella Repubblica Ciaslpina.
La francesizzazione del Piemonte procede a ritmo serrato (per un pelo non viene abbattuto il "reazionario" Palazzo Madama), e si punta a rendere il francese lingua ufficiale. Le norme che reggono il Piemonte non sono però le stesse degli altri dipartimenti francesi. La situazione economica non migliora, anzi, peggiora. Sono riorganizzate l'Università e l'Accademia delle Scienze, e questo, invece, porta qualche vantaggio. Quando Napoleone si dichiara Imperatore, il Piemonte diventa parte dell'Impero francese.
Intanto Carlo Emanuele IV, in esilio, abdica a favore del fratello Vittorio Emanuele Duca d'Aosta, il quale diventa così anche Vittorio Emanuele I, re di Sardegna (giugno 1802). In Piemonte non cessa la guerriglia antifrancese fino al gennaio 1801, con un'ultima sollevazione in Val d'Aosta. Prosegue poi una sorta di brigantaggio diffuso in tutto il Piemonte.
Nel periodo i servizi di informazione francesi rilevano un diffuso antifrancesismo in Piemonte, anche nelle istituzioni. Oltre ad una opposizione monarchica, che in Piemonte è alquanto nutrita, ve ne è anche una repubblicana ma anti-annessione ed anti-francese. Il governo centrale si comporta come in terra di occupazione, ed istituisce un servizio di spionaggio apposito per controllare il Piemonte.
Le nuove idee portano sviluppo, che però si risolve essenzialmente a vantaggio dei Francesi e della Francia. La stragrande maggioranza dei Piemontesi conosce e parla il Piemontese, la lingua ufficiale diventa il Francese, viene usato ancora per necessità anche l'Italiano. Nasce anche una opposizione "culturale" ai francesi, e la letteratura in Piemontese (vedasi Calvo, storia della letteratura piemontese) si presenta come opposizione alla francesizzazione. La parentesi francese apporta nuovi elementi alla lingua piemontese, ma la sua durata è breve, e questo apporto non è determinante. Il periodo vede nascere alcuni poeti giacobini, di cui diremo parlando di letteratura. Viene anche scritto un vocabolario Piemontese-Francese.
Vittorio Emanuele I viene riconosciuto Rè di Sardegna dalle potenze in lotta con la Francia. Inizia dunque il suo regno in esilio (o per lo meno "fuori sede") l'8 giugno 1802 . A Torino nascono circoli intellettuali antifrancesi, anche se non monarchici. La Francia vuole isolare il Rè ed ordina a chi lo ha seguito di rientrare, pena la confisca dei beni. Qualcuno rientra, ma questo va solo ad accrescere le fila dell'opposizione nascosta. A partire dalla proclamazione dell'Impero, l'opposizione si fà più nutrita, includendo quei giacobini che vedono il naufragare delle idee rivoluzionarie nell'assolutismo napoleonico.
Fra gli aspetti positivi del periodo, oltre al riordino ed il miglioramento della viabilità, vi sono interventi per migliorare le irrigazioni in agricoltura e prevenire o ridurre i danni delle inondazioni, la fondazione al Valentino di una scuola di veterinaria per contrastare le malattie zoologiche. La trasformazione dell'agricoltura va però spesso a vantaggio dei borghesi e dei signori, che si accaparrano i beni ecclesiastici messi in vendita. Il commercio piemontese viene intralciato da ostacoli al commercio verso l'Italia ed un sistema daziario favorevole alla Francia a spese del Piemonte. La Francia poi non ha interesse a che l'industria piemontese si sviluppi in modo indipendente, ma viene appoggiato solo quello sviluppo di interesse francese. Il blocco continentale del 1806 (ora si dice "embargo" parola che l'italiano ha preso a prestito, forse a corto di parole sue) posto dall'Europa contro la Francia peggiora le condizioni del Piemonte, sebbene alcune attività se ne avvantaggino (come la coltivazione del riso).
Napoleone stà comunque formando in Piemonte una aristocrazia fedele ed una borghesia che comincia a stare dalla sua parte, essendo più riconosciuta e gratificata che nel sistema monarchico precedente. L'opposizione è perseguita decisamente e deve nascondersi, mentre si migliora l'amministrazione della giustizia e la sicurezza. La scuola, nell'epoca dell'annessione, se da un lato tende a dare una più diffusa istruzione elementare, dall'altro tende a rendere più esclusiva l'istruzione a partire dalla scuola media inferiore. Dalla scuola elementare viene abolito il latino, ma si tenta di sostituirlo con il francese.
I soldati piemontesi sono molto apprezzati da Napoleone. Ne è esempio il caso di Federico Campana che con i suio fratelli è diventato simbolo del valore militare piemontese. Quando Federico cade in battaglia Napoleone in persona vuole che la via di Torino in cui abitano i genitori prenda il suo nome.
Lo stato sabaudo verso il Risorgimento
Sconfitto Napoleone e l'Impero francese, l'Europa tenta di ristabilire la situazione precedente la rivoluzione (è la cosidetta Restaurazione). I Savoia, con Vittorio Emanuele I, riprendono possesso del loro stato. Il rè entra a Torino il 20 maggio 1814. A seguito del congresso di Vienna i territori del Regno di Sardegna vengono ampliati della Liguria, per altro per nulla entusiasta dei Savoia, anzi, piuttosto ostile (i Liguri si sono sempre difesi contro i tentativi piemontesi di occupazione). Lo stato comprende il Piemonte, la Valle d'Aosta, la Liguria, la Sardegna, la Savoia francese ed il territorio di Nizza con la valle del Roya. Il Piemonte si trova ad essere lo stato cuscinetto tra Austria e Francia. L'Austria mira a rafforzare la sua posizione in Italia, mentre Inghilterra e Russia vedono di buon occhio uno stato Sabaudo sufficientemente forte e svincolato dall'influenza austriaca.
La politica estera di Vittorio Emanuele I và necessariamente in questo senso, e dunque è inevitabile l'attrito con l'Austria, anzi, risulta subito chiaro che Austria e Piemonte hanno fortissimi motivi di tensione nel nuovo assetto europeo, con l'Austria che controlla direttamente Lombardia e Veneto.
In politica interna Vittorio Emanuele I tende ad una restaurazione pesante, abolendo tutte le leggi e la riforme francesi. Pensa che rivoluzione e Napoleone possano essere cancellati con un colpo di spugna. Convinto assolutista, non è incline ad alcun elemento di liberalismo. Lo stato si trova subito arretrato, con una classe dirigente fatta di nobili "tolti dalla naftalina". Nobili che avevano seguito il Re o che si erano isolati dalla vita sociale, non compromessi con i Francesi, ma al di fuori dei progressi fatti in tutti i campi. Queste sono le credenziali e l'unico merito considerato per ottenere gli incarichi nelle gerarchie dello stato. Così ai vertici si trovano elementi incapaci spesso non solo di idee nuove, ma semplicemente di idee. Non ci si rende conto che la rivoluzione è stata prodotta da tensioni sociali che hanno riguardato e riguardano anche il Piemonte. Burocrazia e limitazioni legislative rallentano lo sviluppo, l'epurazione dei personaggi filofrancesi ha provocato notevoli danni aprendo vuoti, in particolare, nella cultura. Le disposizioni di polizia e la censura sono particolarmente opprimenti. La legislazione e gli ordinamenti piemontesi finiscono presto per essere i più arretrati d'Europa. Si giunge a chiudere la strada nuova del Moncenisio perchè costruita dai Francesi, e si riprende ad usare quella, malagevole, che passa dalla Novalesa.
Qualche concessione deve essere fatta quando si tratta di ricostruire l'esercito. I fedelissimi che hanno seguito il Rè non hanno mai comandato soldati, ed oltre a non avere alcuna esperienza sono di solito già vecchi per il compito. Gli ufficiali che hanno servito sotto Napoleone, oltre che essere visti con sospetto, sono accettati per necessità, ma con gradi molto inferiori a quelli coperti in precedenza.
Ma le idee liberali cominciano a circolare, tra intellettuali, alti gradi dell'esercito, famiglie borghesi ed industriali. Si avverte la difficoltà di operare in uno stato "opprimente, zotico e sospettoso", ma poiché le associazioni politiche sono vietate, prendono corpo le organizzazioni segrete, che a seconda dei casi sono di tipo massonico o di tipo carbonaro. Fra i dissidenti vi sono persone anche nobili, amici personali del Principe di Savoia-Carignano Carlo Alberto. Si progetta una insurrezione che costringa il Ré a concedere la Costituzione ed a scendere in guerra contro l'Austria per liberare la Lombardia. Appare chiaro, infatti, che qualunque progetto che porti ad un sistema liberale o democratico deve prevedere una unione o federazione italiana a partire da una monarchia costituzionale. Nella situazione italiana questa monarchia può essere soltanto quella sabauda, che ha un certo peso internazionale e che è (o comunque può mettersi) in grado di affrontare anche militarmente l'Austria in Italia.
L'Austria controlla direttamente l'Italia Nord-Orientale ed interferisce con buona parte dei governi degli altri stati italiani. Il primo passo dei liberali è dunque verso l'ottenimento di una Costituzione in Piemonte. In questo senso i liberali puntano sul Principe di Savoia-Carignano (ramo cadetto a cui apparteneva anche il principe Eugenio di cui si è detto a proposito dell'assedio di Torino), che per la mancanza di discendenza maschile di Vittorio Emanuele I e di suo fratello Carlo Felice, è l'erede al trono. Per le vicende della sua famiglia e per educazione Carlo Alberto è di idee alquanto liberali, e per questo è mal visto dal Rè.
Nel 1820 l'insurrezione a Napoli ha successo e anche in Spagna si è giunti ad una costituzione, Carlo Alberto sembra appoggiare coloro che in Piemonte si stanno organizzando (Santorre di Santarosa) per ottenere la costituzione, sebbene vi siano contrasti fra chi pensa ad un sistema piuttosto democratico (una camera eletta dal popolo) e chi ad un sistema con democrazia molto più limitata (due camere di cui una eletta a suffragio ristretto ed una di nomina regia). Anche ai liberali, un sistema orientato in senso chiaramente democratico fà paura. A seguito di incidenti tra polizia e studenti, nel 1821 prende vita un moto rivoluzionario che coinvolge parte dell'esercito, chiedendo una Costituzione. Vittorio Emanuele I non è il Re che può fare questo passaggio in senso liberale. Non è preparato di fronte al nuovo atteggiamento che coinvolge uomini influenti, alcuni nobili e soprattutto lo stesso esercito. Abdica in favore del fratello Carlo Felice, ancora più reazionario di lui. Poiché Carlo Felice non è a Torino, reggente del regno è Carlo Alberto, solo ventenne. Carlo Alberto si muove in senso liberale, ma ambiguo, promulga una Costituzione, ma Carlo Felice lo esonera dalla reggenza ed assume i poteri. Abolisce quanto fatto da Carlo Alberto, che spedisce a Firenze, e con l'aiuto austriaco elimina l'insurrezione.
Per dieci anni il Regno di Sardegna avrà un governo ottuso, chiuso a qualunque innovazione in campo politico-istituzionale, e che si legherà sempre più all'Austria. Il non potersi fidare dell'esercito è la cosa che preoccupa particolarmente il Ré, che dunque ne riduce l'organico e mette sotto sorveglianza gli ufficiali. Si appoggia sempre di più agli ecclesiastici per l'insegnamento, non fidandosi più degli intellettuali laici, ed affida ai Vescovi la supervisione dell'istruzione elementare e media.
Se dal punto di vista istituzionale Carlo Felice è la negazione di ogni accenno liberale, tuttavia attua delle buone riforme. Istituisce in ogni comune una scuola gratuita per gli allievi, alla quale possono accedere anche le donne. Sotto il suo regno nasce a Torino il Museo Egizio. Realizza opere in città (quali Piazza Carlo Felice). Viene eliminato il Ministero di Polizia e le competenze passano al Ministero dell'Interno. Attua qualche riforma in campo giudiziario e ridefinisce e limita i compiti dei Carabinieri. Non ostacola la ripresa economica ed industriale che caratterizza quel tempo
Alla morte di Carlo Felice, nel 1831, Carlo Alberto inizia effettivamente il suo regno, fatto comunque di molte ambiguità ed incertezze. Non è incline ad accettare l'idea di società segrete, pensa ad una monarchia assoluta ma non dispotica. Non ha simpatie per l'Austria. Reprime decisamente moti rivoluzionari che stanno acquistando, con Mazzini, un carattere repubblicano (1831 e 1833). Il poeta in lingua piemontese, l'avvocato Angelo Brofferio (di cui diremo in letteratura) pubblica satire contro i nobili ed è arrestato. In quel periodo Cesare Balbo afferma che il Piemontese è "il dialetto" meno italiano di tutti, mentre qualcuno osserva che ormai molti commercianti ed artigiani sono in grado di parlare e scrivere in Italiano, sebbene in modo non grammaticalmente corretto, ma comunque comprensibile, mentre qualche patriota affema che "prima o poi anche i Piemontesi dovranno convincersi che sono italiani e non francesi". Dal canto loro la grande maggioranza dei Piemontesi non si sente né italiana né francese, ma giusto piemontese. I nobili, per affermare il loro livello, parlano francese oppure piemontese, ma non l'italiano.
Un po' alla volta Carlo Alberto riconsidera le idee liberali, e l'idea di una Italia sotto la guida dei Savoia e del Piemonte. Si stà sfaldando l'ideale rivoluzionario repubblicano del Mazzini, sostituito da un movimento più moderato che punta sui Savoia per lo stabilimento di uno stato liberale, in espansione verso l'Italia, ai danni dell'Austria. In effetti le idee di unificazione dell'Italia non sono parte delle preoccupazioni della maggioranza della gente comune, che non conosce i motivi del fermento rivoluzionario che agita gli intellettuali o degli interessi che preoccupano imprenditori e finanzieri, e che di queste cose non si occupa. Questa gente, in teoria, potrebbe supportare l'idea di una Repubblica, ma in Piemonte la gente comune, in particolare nelle campagne, è piuttosto legata alla Monarchia, mentre un movimento operaio organizzato non esiste ancora, quantunque comincino ad esservene le premesse.
Una svolta si ha con l'elezione a Roma di papa Pio IX, nel 1846. Il Papa fà qualche riforma in senso liberale, e suscita entusiasmi. Carlo Alberto è dapprima preoccupato, in quanto sempre più insistentemente gli si chiede di seguire l'esempio del Papa. Quando sorge una contesa tra Papa ed Austria circa la città di Ferrara, Carlo Alberto appoggia il Papa (l'Austria è sempre un problema per il Piemonte, indipendentemente da idee liberali o meno). Inizia una apertura liberale, negli anni 1847, 1848, anche per l'influenza di Massimo d'Azeglio e Cesare Balbo.
Il 4 marzo 1848 viene emanato lo Statuto. Carlo Alberto si è convinto che è meglio che questo appaia una concessione, prima che vi sia una imposizione che arriva dai disordini di piazza. Spera che così la situazione non sfugga di mano.
Con l'emanazione dello Statuto avviene, in ogni caso, il passaggio ad una monarchia costituzionale, sebbene a democrazia molto limitata (il diritto di voto per il parlamento è esteso a meno del 2% della popolazione, ed arriva intorno al 5% per le amministrazioni locali), primo scalino del progetto di ricostruzione dell'Italia. La seconda fase prevede la graduale riduzione dell'occupazione austrica dell'Italia.
Nel marzo del 1848 si verificano varie insurrezioni (Vienna, Milano, Venezia, Palermo). Carlo Alberto è preso alla sprovvista. Manca anche una linea guida unica, in quanto c'è chi vede un intervento a vantaggio dell'Italia e chi suppone solo una espansione piemontese. Carlo Alberto mira essenzialmente ad espandere il Piemonte fino a Milano. La guerra viene decisa precipitosamente, ma l'esercito non è pronto. I Lombardi preferiscono continuare discussioni e dimostrazioni, ma non si arruolano. I successi degli insorti di Milano non sono subito sfruttati. La campagna viene condotta con estrema indecisione a causa di problemi politici, della paura di spinte repubblicane che potrebbero diventare eccessive, del cambiamento di atteggiamento del Pontefice, che pareva appoggiare l'idea di una federazione di stati italiani, ma che poi si svincola dalla susseguente azione. Il successo militare, che sarebbe a portata di mano e che avrebbe posto anche le premesse per la soluzione dei problemi politici (è sempre stato più facile far valere le proprie ragioni da vincitore che da vinto), viene lasciato sfuggire dall'incertezza e dalla mancanza di precisi piani militari, dalla mancanza di chiari obbiettivi. Mentre un proclama asserisce che l'entrata in guerra porta aiuto agli insorti, ufficialmente si comunica agli ambasciatori che l'entrata in guerra è giustificata dall'impedire che la rivoluzione si propaghi in Italia. Intanto a Milano e Venezia non sono pochi quelli che non intendono fondersi con il Regno di Sardegna e dunque non intendono appoggiare le mire di Carlo Alberto, visto non come liberatore ma come invasore. Si giunge comunque ad una affrettata annessione, e c'è già chi pensa (milanesi) di trasferire la capitale da Torino a Milano. A tutto questo, dopo i primi successi, segue una pesante sconfitta militare. Dopo momenti di grande confusione politica la guerra riprende, ma termina, peggio che nella prima fase, in una disfatta. Anche Carlo Alberto, dopo questo fallimento, abdica e parte per l'esilio. Il Regno di Sardegna si trova a subire il peso di una brutta sconfitta.
Mentre nel resto d'Italia solo una piccola minoranza di persone si occupa di idee risorgimentali, in Piemonte le cose sono diverse. Una guerra investe tutta la popolazione, dai soldati di leva che la devono fare, fino alle limitazioni imposte in tutti i settori di attività dall'economia di guerra. Una sconfitta, poi, viene sempre pagata da tutti, e le classi più deboli finiscono per averne il maggior peso. In Piemonte dunque la situazione ed i suoi motivi sono discussi da tutti, dal parlamento fino alle osterie dove la domenica sera si trovano gli operai di Torino a farsi un bicchere di barbera e una partita a carte. L'umore della gente non è favorevole alla guerra.
Rinnovamento nel regno di Carlo Alberto
Nel 1835 nel Regno di Sardegna scoppia una epidemia di vaiolo che fà molte vittime. In questa occasione si ha un impulso nelle attività di beneficenza ed assistenza da parte dello stato e della nobiltà. Non si può ancora parlare di politica sociale, ma nascono istituzioni di assistenza come quelle della Marchesa Giulia Falletti di Barolo, e la Piccola Casa della Divina Provvidenza, del canonico Giuseppe Cottolengo. Nei quartieri di periferia, a Valdocco, comincia ad operare Don Bosco, che punta non solo all'istruzione religiosa dei giovani dei quartieri bassi, ma anche alla loro promozione sociale.
Carlo Alberto comincia a mettere in atto una politica economica meno protezionistica e più orientata al libero scambio, riducendo le tariffe di dazi e dogane. Vengono soppresse le corporazioni relative ai vari mestieri e si liberalizza la mobilità della manodopera. Le associazioni dei lavoratori possono operare con finalità religiose ed assistenziali, e così nascono le Società di Mutuo Soccorso.
Nel periodo lo sviluppo economico in tutti i settori è notevole. Si riprende l'industria della seta, che aveva subito una contrazione durante l'occupazione francese, mentre l'asse portante rimane l'agricoltura, sempre più orientata al commercio. Rimane comunque viva e diffusa la piccola proprietà agricola, più che in altre zone d'Italia e d'Europa, e si cominciano ad introdurre le macchine agricole, i fertilizzanti e gli insetticidi, mentre si migliora il sistema di irrigazione, produzione di foraggio ed allevamento.
Vengono introdotte la Corte d'Appello e la Corte di Cassazione, i dibattimenti processuali sono resi pubblici. La censura viene via via ridotta e prendono forma due partiti politici, una destra moderata ed una sinistra moderata. Viene istiruito il Ministero della Pubblica Istruzione, la facoltà universitaria di Lettere e Filosofia e quella di Scienze Fisiche e Matematiche. La scuola statale provoca la reazione dei Gesuiti, che vedono minacciate le scuole cattoliche di cui sono i depositari, e del Vescovo Fransoni.
Con la promulgazione dello statuto Valdesi ed Ebrei vengono finalmente emancipati ed ottengono pari diritti. In territorio valdese, a Torre Pellice, forse unico esempio nella storia, viene eretto un monumento "dono del Rè alla popolazione" (si trova davanti alla chiesa di San Martino). Tutto ciò provoca la reazione violenta del Vescovo di Torino Fransoni, che è molto reazionario. Il primo parlamento eletto (si è elettori in base al censo, ed anche la partecipazione dei pochi aventi diritto non è alta) è costituito da 208 deputati, di cui solo 32 nobili.
La città di Torino si espande rapidamente e si arriva, nel 1848, a 137'000 persone. Ma non ostante la crescita, ad arricchirsi non sono certo gli operai, il cui salario serve appena a sopravvivere. Già prima il Re precedente aveva osservato come scandaloso che gli imprenditori accumulassero enormi ricchezze mantre gli operai avevano salari da fame. Questo è osservato anche dal Cavour da giovane, nel 1834. In quell'anno, comunque, si ha la prima lotta operaia contro una prevista riduzione di salario, che rientra per la pressione e le minacce operaie. In quella occasione si vede che lo stato non è al momento interessato a sopprimere queste agitazioni. La polizia si assicura che non vi siano motivi politici e libera i fermati.
I santi "sociali" torinesi
A metà della storia dell' ottocento mettiamo questo "inserto" sui grandi Santi che operano in Torino in questo periodo. Si è visto come anche lo Stato inizia ad interessarsi di questioni di assistenza e di beneficenza, ma lo spirito che amina queste persone, a volte di origine umile, è tale da attirare le persone che incontrano, che intorno a loro e con loro danno origine a opere tuttoggi vive e grandi, le quali sono ancora rette da quello spirito, di amore nel Cristo, nel quale sono state fondate e che le contraddistingue dalle opere dello Stato.
Fra questi i due Santi di maggior rilievo, e senz'altro i più noti, per quello che hanno realizzato e ci hanno lasciato, sono il Cottolengo e Don Bosco.
Il Cottolengo (Giuseppe Benedetto Cottolengo) nasce nel 1786 da una agiata famiglia di Bra, e cresce nel periodo della Rivoluzione e dell'occupazione francese in Piemonte. Studia da prete, dato il periodo, in clandestinità (il seminario in cui studia viene chiuso nel 1805) e diventa sacerdote nel 1811. Si rende conto che la sua preparazione teologica non è completa, e dunque chiede di poter integrare i suoi studi a Torino, dove si laurea in teologia nel 1816 e di lì a poco diventa canonico della basilica torinese del Corpus Domini. Si dedica alla predicazione, alla Confessione, è vicino a poveri ed ammalati, ma ritiene che non sia quella la sua chiamata. Nel 1827 succede l'episodio che gli svela la sua vera vocazione. Gli capita di dover assistere una donna gravida francese in transito per Torino, malata di tubercolosi, che muore dopo essere stata respinta dall'ospedale dei tubercolotici perchè è incinta e dall'ospizio di maternità perchè malata. Il Cottolengo allora decide di fondare un posto dove nessuno, in nessuna condizione, possa venire respinto. Nel 1828 affitta alcune stanze in una casa ed inizia il suo lavoro fra l'opposizione di parenti e confratelli. A lui si uniscono subito un medico, un farmacista e dodici dame della carità (signore che si recano a visitare malati). Una ricca vedova dirige le dame. Durante il colera del 1831 la casa viene chiusa per paura che diventi fonte di contagio, e allora il Cottolengo si trasferisce fuori città (allora era fuori città) con due suore un malato ed un carretto tirato da un asino. Sorgono le prime costruzioni, sempre grazie a benefattori, e all'illimitata fiducia nella Divina Provvidenza del Cottolengo. Gli aiuti arrivano senza che mai il Cottolengo abbia chiesto qualcosa a qualcuno. Nel 1833 l'Opera del Cottolengo è promossa Ente Morale dal Re Carlo Alberto. Istituisce ordini di sorelle e di fratelli per i vari incarichi ed un ordine di sacerdoti. Le sue case si moltiplicano al di fuori della città, ed ora sono sparse in tutto il mondo. Muore nel 1842. Il Cottolengo, così è chiamato dai torinesi la "Piccola Casa della Divina Provvidenza", che ora è una città nella città, attira ancora oggi un grande numero di volontari, torinesi che dedicano un poco del loro tempo nei reparti accanto agli ospiti. Il Cottolengo è stato proclamato Santo nel 1934.
Don Bosco (Don Bòsch, anzi Dumbòsk come si pronuncia di solito, è l'unico nome con cui a Torino viene indicato questo Santo. Non si è mai sentito dire "San Gioàn Bòsch") è il fondatore, fra l'altro, di quegli oratori salesiani dove almeno metà dei torinesi di una certa età (e molti di età meno "certa età") sono stati da piccoli, da ragazzi e da giovanotti, a volte saltuariamente a volte assiduamente. Giovanni Bosco nasce nel 1815 ai Becchi, frazione di Castelnuovo d'Asti (ora Castelnuovo don Bosco) in una povera famiglia di contadini, e prestissimo rimane orfano di padre. Nella sua formazione cristiana ha un ruolo fondamentale sua madre Margherita. Diventa prete fra mille difficoltà e mille avventure, sempre con l'obiettivo di avvicinare i ragazzi ed i giovani dei quartieri poveri, dove lo sfruttamento del lavoro minorile è veramente feroce e la miseria, materiale e morale, è tanta. Dotato di particolare ascendente sui ragazzi, sà fare in modo che ognuno di essi senta che don Bosco si interessa personalmente di lui e dei suoi problemi. A Torino sono molti quelli che sono arrivati dalle campagne in cerca di "sopravvivenza" più che di fortuna, e che ora vivono sbandati ai margini, senza nemmeno saper leggere e capire un contratto di lavoro, in preda ai peggiori approfittatori. Assieme alla promozione morale ed alla conoscenza del Cristo da parte di questi ragazzi, don Bosco si preoccupa anche della promozione materiale e sociale, attraverso l'istruzione e l'apprendimento di un mestiere. A Valdocco, vicino ai quartieri poveri di Torino (ora in città) trova una sede stabile per il suo primo oratorio. Lui stesso ha modo di occuparsi delle condizioni di lavoro dei suoi ragazzi, ed intervenire per ottenere per loro contratti "più umani". Per il tempo è un prete assolutamente rivoluzionario, scomodo a molti e sospetto, capace di scandalizzare i benpensanti. Si cerca persino di farlo passare per pazzo (a quei tempi uno come lui era devvero giudicato pazzo). La sua illimitata fiducia nella Provvidenza gli permette il superamento di ogni ostacolo. I suoi Oratori ed i suoi Istituti si moltiplicano. Fonda l'ordine dei Salesiani, sacerdoti, religiosi e religiose, che ora sono sparsi in tutto il mondo. Mendicante alla porta dei ricchi per i suoi ragazzi, trova sempre chi sostiene le sue opere. Muore nel 1888. Don Bosco è stato proclamato santo nel 1935. Dal 1958 è il "patrono degli apprendisti italiani". Come nell'800 all'oratorio trovavano rifugio, fra gli altri, ragazzi che venivano da fuori Torino, ancora oggi trovano lo stesso rifugio, fra gli altri, ragazzi che vengono da molto più lontano.
Fra gli altri santi e persone che si sono dedicate al bene del prossimo in Torino ricordiamo: San Giuseppe Cafasso (1811 - 1860) che si dedica all'assistenza dei carcerati ed in particolare dei condannati a morte (è detto il prete della forca). San Leonardo Murialdo (1828 - 1900), collaboratore di Don Bosco, lavora all'oratorio San Luigi, il secondo fondato da Don Bosco, dirige l'Istituto Artigianelli e fonda la Compagnia di San Giuseppe. Beato Giuseppe Allamano (1851 - 1926) rettore del Santuario della Consolata, fona la Congregazione dei Missionari della Consolata. Beato Francescò Faà di Bruno (1825 - 1888) ufficiale dell'esercito piemontese, fonda nel 1858 l'Opera Santa Zita, che si occupa della promozione sociale e dell'assistenza delle domestiche. Giulia Colbert Marchesa di Barolo (1785 - 1864), nota come Giulia di Barolo, discendente del ministro francese Colbert, sposa il ricchissino Tancredi Falletti di Barolo e utilizza il suo immenso patrimonio e le rendite dhe questo produce, a sostegno delle sue opere, nelle quali vi sono iniziative che anticipano quelle che saranno le riforme carcerarie, rivolte alle donne marginali nella società o escluse da questa. Riceve una medaglia d'oro di benemerenza per la sua azione durante il colera del 1835 a Torino. A Torino apre il primo asilo per l'infanzia.
Vittorio Emanuele II
A Carlo Alberto succede Vittorio Emanuele II (1849), sicuramente più deciso, che ha un grande merito, quello di sapersi servire delle migliori teste politiche del regno, in primo luogo di Massimo d'Azeglio e Camillo Benso Conte di Cavour, scelti, uno dopo l'altro, come Primo Ministro (capita comunque a volte che Rè e Ministro siano in disaccordo). Occorre innanzitutto portare ordine all'interno dello stato, e Vittorio Emanuele, con Massimo d'Azeglio, non rinuncia a qualche spregiudicatezza. Comunque lo Statuto rimane in vigore, unica costituzione che resta in vigore in Italia. Nel 1852 Cavour diventa primo ministro. La situazione interna non è delle migliori ed i rapporti tra Stato e Chiesa sono molto tesi, dapprima per il disegno di legge sul matrimonio civile e la sopressione dei tribunali ecclesiastici, e poi per la soppressione degli ordini religiosi che non abbiano scopi sociali. Questa legge viene varata dal Cavour per ottenere dalla sinistra l'appoggio alla guerra di Crimea (che vedremo).Volano scomuniche.
Una lezione della guerra persa è che occorre l'appoggio delle potenze europee, ottenuto puntando su almeno un interesse comune. Un'azione diplomatica intensa del Conte prepara la successiva guerra all'Austria, con l'appoggio di Francia ed Inghilterra. A questo scopo il Piemonte partecipa alla guerra di Crimea a fianco di Francia ed Inghilterra. In questo caso il Cavour firma un accordo con Francia ed Inghilterra senza consultare il Parlamento. L'idea di una guerra contro la Russia non è affatto popolare in Piemonte. A seguito di questa guerra il Piemonte viene considerato tra le grandi potenze e viene riconosciuta la sua funzione anti-austriaca e liberale non rivoluzionaria in Italia. Diventa il riferimento dei movimenti liberali italiani, che superano i regionalismi. I contatti tra Cavour e Napoleone III rimangono segreti. Il gennaio 1859 è l'occasione per provocare l'Austria (discorso del "grido di dolore", che provoca lo schieramento delle truppe austriache sul Ticino).
La preparazione della guerra è complessa tanto dal punto di vista diplomatico come da quello logistico. Occorre provocare una aggressione per giustificare l'intervento francese, ed inoltre le prospettate agitazioni in Toscana non hanno seguito, come se i toscani non intendessero più farsi liberare. I volontari sono molti meno del previsto. Comunque il gioco riesce.
Con la seconda guerra all'Austria, nel 1859, e la successiva vittoria, l'influenza austriaca in Italia è sufficentemente ridotta da permettere l'occupazione della Lombardia. Napoleone III teme ora che si possa formare una potenza troppo grande ai suoi confini, anziche piccoli stati sotto l'influenza francese, e dunque non conduce la guerra fino in fondo.
Ma Emilia e Toscana, eliminati i loro governi, chiedono ed ottengono l'annessione al Piemonte, che viene giustificata dalla necessità di dare una sistemazione a queste regioni per non correre altri e più gravi rischi. Il Regno di Sardegna cede alla Francia la Savoia e Nizza, secondo gli accordi. Ma ora sorgono problemi in Sicilia, che insorge e che ha forti spinte repubblicane. Parte la spedizione dei Mille (6 maggio 1860) di Garibaldi, che provoca il crollo del Regno delle due Sicilie. I Piemontesi sorvegliano che la situazione non sfugga di mano, e decidono la spedizione contro i volontari papalini accorsi a difendere lo Stato Pontificio, che ha contemporaneamente (o forse principalmente) lo scopo di impedire a Garibaldi un colpo di mano su Roma e la nascita di una repubblica nel sud d'Italia.
La situazione internazionale è tesa, la Francia chiede che Garibaldi venga fermato. L'intervento dell'esercito di Vittorio Emanuele II (11 settembre 1860) permette ai Piemontesi di riprendere il controllo della situazione. Il meridione viene annesso al Regno di Sardegna. Nel 1861 nasce il Regno d'Italia, sotto Casa Savoia, il cui primo Rè è Vittorio Emanuele II, e nella cui storia confluisce quella piemontese (notiamo che ai "plebisciti" del tempo era chiamato a partecipare meno del 2% della popolazione e che l'astensionismo era di circa il 50%).
La situazione economica e sociale nel secondo '800
Le condizioni economiche migliorano più rapidamente con le politiche degli anni '50 del secolo, la riorganizzazione dell'agricoltura e la realizzazione "intensiva" di ferrovie che in breve portano il Piemonte ad essere di gran lunga l'area italiana con più chilometri di strada ferrata. L'industria viene favorita e si sviluppa (tessile, mineraria, siderurgica, metallurgica), e così pure il commercio, al quale vengono tolti molti vincoli.Cavour infatti è un deciso sostenitore della libertà di commercio.
La modernizzazione dello stato marcia rapidamente e cresce il tasso di scolarità. Nel 1859 viene varata la legge che istituisce l'istruzione elementare obbligatoria. Si stà creando un nuovo proletariato con lo sviluppo dell'industria. Il dibattito si sposta dal come porre rimedio all'aumento dei mendicanti a temi quali il salario degli operai, la tutela della salute di donne e bambini che lavorano in fabbrica, sulle condizioni igieniche dei posti di lavoro, e così via. I contratti di lavoro che gli operai devono accettare sono peggiori delle pratiche di caserma e prevedono gravi sanzioni per ogni sciocchezza. Cresce la consapevolezza della classe operaia e la conflittualità per ridurre lo sfruttamento.
A metà del secolo, grazie alla libertà di associazione garantita dallo statuto, nascono le prime Società Operaie, che poi si organizzano in confederazione. Nascono le prime cooperative di consumo e le organizzazioni operaie a sostegno dei periodi di malattia, e a sostegno dei disoccupati con una sorta di ufficio di collocamento. Padroni e governo non ostacolano queste associazioni, purché non abbiano finalità politiche o sindacali. La spinta alla rivendicazione dei diritti elementari è forte, mentre in Europa cominciano a diffondersi idee socialiste e comuniste. Lo stesso Cavour ammette che l'unico modo per evitare lo scontro sociale e le lotte di classe è quello di migliorare le condizioni dei lavoratori.
Lo sviluppo industriale, partito nel '700 dall'Inghilterra, avviene in tutta Europa, e anche a Torino, con uno sfruttamento selvaggio del lavoro minorile e delle donne. Bastano pochi valori indicativi per illustrare la situazione. Fino al 1844 vi sono delle norme di legge che tutelano (un qualche modo) i giovani apprendisti, ma poi, nel nome del progresso e della libertà, quelle norme sono cancellate dai liberali. Da questo momento vi sono bambini di 8 o 9 anni che devono lavorare da 12 a 15 ore al giorno in situazioni a volte drammatiche ed in ambienti malsani. Perfino il Cavour sottolinea che in Inghilterra donne e bambini sono costretti a lavorare molto di meno, ma la situazione non cambia, perchè non si può toccare un certo tipo di "libertà" a senso unico. I piccoli, pur lavorando e producendo un utile al padrone, non sono pagati per i primi tre anni, con la scusa che "imparano soltanto". Nel 1886 viene varata una legge "di tutela" per i minori che recita che possono essere utilizzati per il lavoro notturno solo ragazzi dai 12 anni in sù, nelle miniere non possono lavorare bambini di meno di 10 anni e nelle fabbriche il limite di età è di 9 anni. La giornata lavorativa varia dalle 12 alle 14 ore.
La delusione dell'unità, crisi e rinascita
Ancora nel 1861, specialmente tra i nobili piemontesi, vi sono molte critiche all'unità italiana. La Contessa di Sambuy afferma che l'Italia può stare a casa sua, mentre anche il D'Azeglio è rammaricato che "i piemontesi si siano levati la pelle a profitto di questa razza buggerona". Con il trasferimento della capitale prima a Firenze e poi a Roma, i Piemontesi si accorgono che quella unità d'Italia che avevano cercato caparbiamente, con tanti sacrifici e tanto eroismo, più per senso del dovere che per convinzione, non riscuote poi tanto entusiasmo nemmeno tra gli italiani, che non gradiscono molto i Piemontesi, il loro stile, le loro regole, la leva militare e così via. Sono visti più come invasori che liberatori (a Roma sono detti "buzzurri", e non è un complimento). Sorge anche una guerriglia anti-piemontese, che eufemisticamente viene chiamata "brigantaggio", ma che impegna ben 60 battaglioni dell'esercito piemontese, che è repressa brutalmente e che porta, negli scontri che ne conseguono, anche alla distruzione di alcuni villaggi. Lo stesso D'Azeglio scrive che "...i napoletani devono farci sapere se ci vogliono oppure nò..." e che non avrebbe senso il rimanere in Italia meridionale come indesiderati.
Torino perde una buona parte delle sue risorse economiche, e la città, assieme a tutta la regione, subisce una forte crisi economica, e tende a chiudersi in un certo isolamento, anche perchè viene a trovarsi in una posizione periferica all'interno dello stato. I nobili piemontesi escono dignitosamente di scena, mantenendo comunque una assoluta fedeltà alla casa regnante. Lo stato stesso, sotto l'ispirazione dei Savoia, che a loro volta si ispirano al modello francese, assume subito un carattere molto centralista.
Il Italia l'anti-piemontesismo è diffuso. Già prima dell'unità d'Italia fra i patrioti italiani (piccolissima percentuale della popolazione) sono presenti sentimenti anti-piemontesi che si attribuiscono all'arroganza dei nobili e dei militari, ma che riflettono anche una diffidenza nella cultura scientifica e tecnica nelle quali il Piemonte è di gran lunga all'avanguardia. In realtà, nel periodo, esiste una nutrita letteratura, in Piemonte, spesso di ispirazioine sociale, ma è scritta in Piemontese, e dunque completamente oscura agli intellettuali italiani.
Si dice che occorre difendersi dal piemontesismo, e che la regione è governata a modo di caserma e di convento. Dopo l'unità i motovi di insofferenza aumentano. Si dice che i Piemontesi pensano di aver conquistato l'Italia e che l'istruzione obbligatoria, introdotta con i metodi piemontesi, non si adatta all'Italia.
L'esercito che reprime la guerriglia è diretto, sì, da ufficiali in maggioranza piemontesi, ma a tutti gli effetti dovrebbe essere considerato come esercito italiano. La repressione è durissima, la gente non capisce ed attribuisce ai Piemontesi la cosa. Così la coscrizione obbligatoria e le tasse sono attribuite all'opera dei Piemontese (sono in effetti le leggi che erano e sono in vigore in Piemonte), ed i Piemontesi, assieme allo stato, diventano i nemici. In particolare in Sicilia vi è l'abitudine di chiamare Piemontesi i militari ed i funzionari del nuovo stato.
A Torino resta comunque terreno fertile per lo sviluppo della scienza e della tecnologia, già avviato prima dell'unità. Studio e sperimentazione preparano il terreno alla nascita della grande industria, che riscriverà la storia di Torino e d'Italia. Le istanze sociali si fanno forti, la classe operaia si organizza in sindacati, e su questo terreno si prepara una nuova crescita, che rilancia fortemente il ruolo della città e della regione.
E la lingua?
Una prima nota: dicono gli storici che il Piemontese fosse l'unica lingua che Vittorio Emanuele II conoscesse bene, sebbene le lingue di corte ufficiali fossero il francese e l'italiano. Con l'italiano non se la cavava benissino: scricchiolava tanto come grammatica che come sintassi, ed il suo lessico italiano era molto limitato.
Per tutto l'800 prosegue la produzione letteraria in Piemontese, accompagnata da studi sulla lingua e da attività vocabolaristica. Vengono fondate alcune riviste letterarie in piemontese. Appaiono nuove grammatiche. L'800 è anche la grande stagione del teatro piemontese. Si vede che in questo periodo il Piemontese giunge là dove l'italiano stenta ad arrivare, esprimendo ciò che, in italiano, la maggioranza dei piemontesi non sa esprimere o capire. Il teatro in Piemontese è in grado di rappresentare il dibattito politico in corso, oltre che tutta l'altra gamma di soggetti teatrali, ed ottiene un grande successo (diventa un vero e proprio mezzo di comunicazione di massa). All'inizio del '900 si consolida anche l'attuale grafia piemontese, che viene unificata e riportata a quella della prima grammatica, che è poi anche la più usata dagli autori.
A tutt'oggi oltre 2,500,000 di persone continuano a parlare piemontese come loro lingua principale, ed il piemontese è parlato, o almeno conosciuto e compreso, da circa 3.500.000 di persone (molte delle quali non di origine piemontese). La letteratura, anche contemporanea, è vivace, e molte scuole piemontesi hanno la lingua piemontese come materia facoltativa. Per chi non lo sapesse, il piemontese è anche la lingua dei nomadi Sinti Piemontesi, che la insegnano anche ai loro figli. (I Sinti Piemontesi sono con noi da 500 anni e sono tra i più piemotesi abitanti del Piemonte). La lingua piemontese, che nulla ha a vedere con i dialetti italiani (appartiene ad un altro ceppo linguistico) e che è indipendente tanto dal francese come dall'occitano e dal franco-provenzale, è stata riconosciuta dalla comunità europea come lingua minoritaria da tutelare, la regione Piemonte la riconosce (per ora, ... c'é chi è ricorso alla Corte Costituzionale per impedirlo - incredibile ma vero -) come sua lingua regionale, l'Italia no (la democrazia ha sempre qualche acciacco). Sembra quasi che il Piemontese (o la cultura che supporta) faccia ancora paura a qualcuno, o che qualcuno non abbia ancora perdonato ai Piemontesi d'aver fatto l'Italia.
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