Introduzione Le informazioni contenute in questa pagina sono messe giusto per completezza di informazione. Se cercate "Letteratura Piemontese" con un qualunque motore di ricerca, potete trovare molto, ma molto più materiale, indicazioni, titoli di libri "seri" e così via. Inoltre queste informazioni sono limitate dallo spazio web a disposizione e dalle capacità dello scrivente (non ripeterò mai abbastanza che non sono un "addetto ai lavori"). Nei secoli, molti documenti scritti in piemontese sono stati persi. Il motivo principale è che i piemontesi, ma ancor di più i governanti piemontesi, non consideravano importante o di rilievo il conservarli. Anche se tutti, dal Duca al Contadino, parlavano piemontese e a dispetto dei molti scritti in piemontese, la classe dominante riteneva il piemontese come cultura di secondo livello (almeno fino al 1600) ed ha preferito, successivamente, il Latino, il Provenzale, il Francese ed infine l'Italiano come lingue per l'arte e gli atti ufficiali, sebbene la grande maggioranza della gente non conoscesse queste lingue oppure ne avesse poche nozioni, tanto da essere imbarazzata ad usarle. Il piemontese è riconosciuto come lingua autonoma da tutti gli studiosi del mondo, è stato riconosciuto come tale dal Consiglio d'Europa nel 1981 (Rapporto n. 4745), è riconosciuto dall'UNESCO come lingua minoritaria meritevole di tutela, supporta una amplissima e secolare letteratura (vedere di seguito), contrariamente all'italiano appartiene al gruppo occidentale delle lingue neolatine, è parlata da 2.500.000 di persone, è presente in Piemonte da circa un millennio. È ufficialmente ignorata dall'Italia. Prima di dare un rapido sguardo alla letteratura piemontese nel corso dei secoli, vogliamo inserire una piccola premessa a riguardo di quella "Cultura di frontiera", normalmente dimenticata dalla "cultura" ufficiale. Nella rapida storia del Piemonte che abbiamo visto, appare chiaro come la popolazione piemontese, la sua lingua e la sua cultura siano conseguenza del fatto che il Piemonte è sempre stato terra di frontiera, terra sulla quale popoli diversi si sono incontrati e scontrati, mescolandosi culturalmente ed etnicamente, a partire dalla più remota preistoria. Anello di congiunzione tra le popolazioni italiche e le popolazioni galliche, terra fiera di una indipendenza mantenuta a caro prezzo nel corso dei secoli. Questo carattere di anello di congiunzione tra diverse culture è comune a tutte le popolazioni dell'arco alpino e, pur nella diversità che ciascuna popolazione esprime, forma la base di quella "cultura alpina" che si differenzia dalle culture cisalpina o transalpine e le collega, raccogliendone in sé i tratti fondamentali. Vita e cultura piemontesi sono state molto influenzate da questa "cultura alpina" o "cultura di frontiera", in particolare se si tiene conto che lo stato dei Savoia si estendeva su ambedue i versanti delle Alpi. L'idea delle Alpi come baluardo a difesa dell'Italia dai "barbari" che abitavano oltre la catena montuosa (ma vale anche l'ipotesi contraria di difesa dei "barbari" dall'aggressività dei Romani) era già sorta nell'antichità, ed era stata celebrata o invocata da poeti e letterati medioevali e rinascimentali, che però non conoscevano né le Alpi, né le popolazioni alpine. Le montagne venivano considerate luoghi orrendi e freddi, abitati solo da popolazioni selvagge e zotiche, luoghi da attraversare il più in fretta possibile, in caso di necessità. Terra di nessuno, pericolosa, utile solo in quanto ostacolo ai nemici. Nel corso della storia, comunque, le Alpi ben di rado avevano fermato qualche invasione: dai Celti a Brenno, dai Cartaginesi ai Longobardi e ai Franchi, fino alle armate di Napoleone, quasi a dimostrare che le montagne non dividono ma congiungono i popoli, almeno per la grande similitudine delle condizioni di vita sui due versanti. Troppo simili erano (e sono) i problemi sui due versanti, simile o uguale la lingua, il lavoro, le mucche, case fatte allo stesso modo, della stessa pietra, attorno a campanili uguali, dove la sopravvivenza a sempre richiesto collaborazione. Spesso i giovani di un versante andavano (e vanno) a cercare moglie sull'altro versante, sul quale dunque ci sono parenti ed amici. I viaggiatori che attraversavano gli stati sabaudi riconoscevano a questi uno spiccato carattere di transizione tra l'Italia e la Francia e li consideravano nettamente diversi dall'Italia, in quanto assegnavano loro un ambito culturale francesizzante (questo era in particolare sottolineato dai viaggiatori tedeschi). Si riportava che la vita a Torino aveva lo stile francese, che vi si parlava indifferentemente italiano o francese e che la lingua dei piemontesi non aveva nulla dell'italino, era pronunciata come il francese e di questo usava molte forme (Montaigne, seconda metà del '500). In realtà il piemontese era diverso dal francese per molti aspetti ed ancora di più dall'italiano, al punto che un diplomatico borgognone scriveva nei suoi rapporti che la sola conoscenza dell'italiano e del francese non permetteva di comprendere la lingua locale. Rousseau affermò di cavarsela bene a Torino in quanto conosceva bene il piemontese, e Stendahl ebbe modo di affermare che tra un piemontese ed un italiano vi è una differenza maggiore di quella riscontrabile tra un francese ed un inglese. A volte gli stati sabaudi non venivano neppure inclusi nelle descrizioni dell'Italia. Se a Torino si attribuiva uno stile francesizzante, a Chambery e nella Savoia tutto era di stile francese, ma si parlava anche un po' il piemontese, e qualche abitudine piemontese era presente. Il piemontese poi era parlato correntemente (e lo è ancora) anche nelle aree del Piemonte di lingua madre occitana, francese, franco-provenzale o walser. A partire dalla seconda metà del '500 (Emanuele Filiberto prima e Carlo Emanuele I dopo), tra i piemontesi iniziò a prendere forma il senso di una nazione piemontese. In quel periodo la lingua era completamente formata, e simile a quella attuale, ed inoltre era diffusa su tutto il territorio. Con l'assedio di Torino dei 1706 e la vittoria che ne conseguì, e più ancora con la battaglia dell'Assietta del 1747 e la successiva vittoria, questo senso di nazione piemontese si rafforzò. Ma nonostante le continue guerre contro la Francia, nei Piemontesi non sorse mai un vero sentimento antifrancese. Per la gente i legami con la Francia erano forse più forti di quelli con il resto d'Italia e le guerre erano questione di eserciti, di situazioni politiche, di difesa dell'indipendenza, di fedeltà al Duca ed al Ducato, ma mai una questione di popoli. Dall'anno 1783 il Piemontese ebbe la sua grammatica scritta, e l'autore (Maurizio Pipino), osservava che il Piemontese era parlato da tutti, inclusi la Corte ed il Re, e che alcuni Vescovi raccomandavano ai parroci la predicazione in Piemontese, (quello classico era giudicato possedere la dignità richiesta dalla Parola di Dio) che era compreso da tutti. Dunque il Pipino proponeva di insegnare Piemontese a scuola, ed anzi, di fare scuola in Piemontese, in modo che la lingua fosse correttamente conosciuta, e per evitare che la gente, per imparare a leggere, scrivere e contare fosse obbligata ad imparare anche l'italiano (che era per i più, in effetti, una lingua straniera, esattamente come il francese). In quel periodo si stava cercando di rendere il Piemontese più "ufficiale", dal momento che era la lingua nazionale. Un'altro scrittore, il Calvo che era medico e letterato, a cavallo tra il '700 e l'800, affermava che ognuno, nel suo paese, deve parlare la propria lingua (e si riferiva al Piemontese). Egli scrisse solo in Piemontese. La Rivoluzione Francese interruppe bruscamente questi progetti. Con l'occupazione francese, che seguì la rivoluzione, il Piemonte non fu incluso nella Repubblica Cisalpina, ma venne direttamente annesso alla Francia, perchè considerato non italiano. Si cercò di rendere il Piemonte anche culturalmente francese ed il Francese divenne la lingua ufficiale, sostituì l'Italiano ma non riuscì a sostituire il Piemontese, che era la lingua nazionale. In questo periodo si riconobbe da parte degli studiosi, che se il Piemontese avesse ricevuto più attenzione a partire dal XVI secolo, sarebbe diventato una lingua con una relazione con italiano o francese uguale a quella che intercorre tra Portoghese e Spagnolo o tra Olandese e Tedesco, ed avrebbe potuto essere la lingua ufficiale del Piemonte. Fino al 1861, dunque, i confini della cultura e del carattere italiani erano molto incerti e discussi tra gli studiosi. Escludevano l'arco alpino ed il Piemonte, benchè la lingua italiana fosse usata da alcuni celebri scrittori, quali ad esempio Vittorio Alfieri (il quale, per altro, scrisse almeno due sonetti in piemontese e tenesse quaderni su cui trascriveva in italiano e francese i modi di dire e vocaboli piemontesi), e venisse usata, invero in modo piuttosto impacciato e goffo, per gli atti ufficiali. Tuttavia in Piemonte, verso la metà del secolo XIX, in vista di una possibile unificazione dell'Italia, da parte di qualche intellettuale iniziò una campagna denigratoria nei confronti del piemontese. In quel periodo questo non scalfì la vivacità della produzione letteraria in piemontese ed anzi, qualcuno dei sostenitori della lingua italiana ad oltranza scoprì successivamente che l'espressività del piemontese non aveva paragoni in Piemonte (come ad esempio Vittorio Bersezio, che dopo aver criticato gli scrittori in piemontese, ebbe il primo grande successo con l'opera teatrale "Le misérie ëd monsù Travet", ovviamente in piemontese). Dopo l'unità d'Italia si posero molti interrogativi circa la cultura e l'appartenenza delle popolazioni di frontiera, ed in qualche caso si cercarono soluzioni, che non sempre furono razionali. Questo successe, ad esempio, per la Valle d'Aosta, mentre per il Piemonte, che era stato l'artefice dell'unità, il problema non venne affrontato. Occorreva infatti che l'unità non apparisse come una "occupazione" piemontese dell'Italia, per non aggravare alcune situazioni critiche che si erano verificate (oltre ad un diffuso antipiemontesismo, sorse in qualche caso una guerriglia antipiemontese, in alcune regioni renitenza alla leva e diserzioni superavano il 50%). Anche per questo si ebbe il frettoloso trasferimento della capitale a Firenze e poi a Roma. Comunque, agli inizi del XX secolo, a scuola si studiava ancora il piemontese (mia madre lo aveva studiato alle scuole elementari). L'avvento del fascismo portò una decisa lotta alle culture locali, in particolare a quelle di frontiera. Da anelli di congiunzione le terre di frontiera e le Alpi erano ritornate "baluardo" contro il nemico e lo spartiacque doveva nettamente dividere i popoli e le culture. Il Piemonte fu invaso da "missionari" che dovevano redimere i piemontesi dalla barbarie della loro lingua e della loro cultura. Il Piemontese, contro ogni evidenza, fu classificato come un "rozzo" dialetto dell'italiano (non appartengono neppure allo stesso ceppo linguistico). La democrazia successiva proseguì sulla stessa strada, un po' per i residui della preparazione culturale fascista, un po' perchè la pluralità disturba qualunque governo accentratore, un po' per il razzismo antipiemontese nato con l'unità d'Italia stessa, un po' per incomprensibili paure circa l'unità (come se non fosse stata fatta dai piemontesi). Il tutto con buona pace della democrazia e dei diritti dell'uomo. Alcuni piemontesi finirono per considerare la loro lingua come qualcosa di legato a vecchie tradizioni contadine, un po' retrogrado, utile per sagre paesane e per scrivere scemenze da riderci sopra (senza, ovviamente, nemmeno sapere come si scrive il piemontese). E così per costoro un immenso patrimonio di poesia, di fermenti sociali, di profondi sentimenti, di vita vissuta che da secoli aveva accompagnato e sostenuto una accanita difesa dell'indipendenza e sorretto quella cultura di frontiera che aveva unito Italia e Francia, è andato perduto. Privi della loro cultura naturale che avrebbe assegnato loro un ruolo importante nel contesto europeo, muniti solo di una cultura scolastica standard, quando giunsero a contatto con altre culture prima italiane e poi straniere, si accorsero di non avere più la loro. Ebbero dunque paura e cercarono di tenere lontano il "diverso". Divennero razzisti. Il compito che il Piemonte ed i Piemontesi avevano svolto nella storia era stato ben diverso. Tracce di volgare piemontese Le prime tracce di parole in volgare, reperite in Piemonte, si trovano in tre iscrizioni in mosaici pavimentali, di cui una è andata perduta e rimangono di lei solo una descrizione ed un disegno. Erano nella chiesa di Santa Maria Maggiore, a Vercelli, e nella chiesa di Sant Evasio a Casale. Date proposte per queste iscrizioni sono, rispettivamente, il 1040 ed il 1106, ma naturalmente su queste date si discute. Sono poche parole, ma sicuramente riconoscibili (e riconosciute da esperti) come volgare locale. Noi non abbiamo la competenza sufficiente per dire la nostra ma, stando agli esperti, se parole di volgare compaiono in mosaici che decorano chiese, significa che il volgare è già parlato da molti anni dalla gente, e non solo dal cosidetto "popolino". Dalle parole si deduce che questo volgare è caratteristico della regione (vi sono riscontri successivi) e dunque è Piemontese. Naturalmente si tratta di piemontese arcaico, sebbene le parole siano ancora presenti nella lingua al giorno d'oggi. In ogni caso, intorno all'anno 1000, doveva già essere normalmente parlato il volgare piemontese, in modo generalizzato. Esistono tracce di canzoni popolari che fanno supporre che un volgare fosse già parlato ben prima. Il primo documento noto Il primo documento che conosciamo, scritto in piemontese arcaico, è un'opera piuttosto consistente. Va sotto il nome di Sermoni Subalpini, (Sermon Subalpengh) e si trova nella Biblioteca Nazionale di Torino (codice D.VI.10). È una raccolta di ventidue omelie complete, di commento alle letture della liturgia dell'anno. L'opera risale al XII secolo (poniamo una data di riferimento: anno 1150 giusto perchè sta a metà del secolo, ma più probabilmente si tratta di qualche decennio dopo). Si pensa, tra le altre ipotesi che possono essere ragionevoli, che sia stata scritta da un frate del convento di San Solutore, oppure della Curia vescovile. Altra ipotesi accreditata da un esame delle parole usate potrebbe indicare la prevostura di Oulx come luogo di origine, benché in quest'area si parlasse (e si parli) provenzale, mentre il documento è scritto in piemontese al di là di ogni dubbio, o perlomeno gli elementi piemontesi sono nettamente prevalenti. In effetti Oulx si trova sulla via del Monginevro e al tempo è frequentata da pellegrini nei due sensi, ed è un posto in cui possono ragionevolente convivere elementi dei volgari al di qua e al di là delle Alpi. L'intento dello scrittore sembra sia stato quello di fornire uno strumento pastorale ai predicatori, direttamente nella lingua che la gente capiva ed usava, che non era più il Latino (il Concilio di Tours nell'813 aveva già preso atto della necessità di una predicazione che fosse comprensibile alla gente e non a solo pochi "intellettuali", e dunque fatta nella lingua che la gente conosceva). La scrittura è agile e spigliata, e dimostra che l'autore se la cava bene a scrivere in volgare piemontese, tanto da far pensare che non sia questa la prima cosa che scrive, o che comunque abbia sottomano qualche altro esempio. Questo vorrebbe dire che altri precedenti documenti sono stati scritti in questa lingua, e che sono andati perduti. Quì un piccolo esempio. Si trovano qua e là delle frasi latine di riferimento, così come ancor oggi alcuni predicatori usano inserire nelle loro omelie: ... prendì nos la petite volp qui catzun a mal nostre vigne, zo est: ne lor o consentì mia mas la lor defendì e lanzai lor las pere e catzai los de la vigna; car i las vasten e esterpen e catzen a mal. Vos qui devez varder la vigna, zo est Sancta Ecclesia, decartzai los heretis. E cum que los en catzaré? Cum lo flael de resticulis, zo sun le paròle de Christ qui dis: Domus mea domus orationis est, vos autem fecistis speluncam latrorum. La mia maisun si est maisun d'oraciun mas vos en avez fait balma de lairun ... Questi sermoni, ad un esame attento, contengono già specifici caratteri della lingua piemontese e parole utilizzate ancora oggi (ad esempio: il vocabolo "balma" per "spelonca" è ancora oggi un vocabolo della lingua piemontese, come pure "pere" per "pietre", ove si nota la caduta dell'occlusiva "t" del larino "petra" ), anche se contiene elementi gallo-romanzi. Questo segue da una dettagliata analisi delle parti del discorso e del loro uso. Il loro studio ha impegnato ed impegna illustri specialisti nel mondo. Il documento riporta certo la lingua del tempo, ma ad una lettura più attenta rivela anche l'ambiente ed il carattere della gente del tempo, a cui si rivolge, nonché uno stile alquanto coinvolgente dell'autore, i cui esempi citati richiamano lo stile delle novelle. Dunque, oltre che linguistico, il suo interesse è anche letterario. Ovviamente non è possibile, dal testo, risalire a quella che era l'effettiva pronuncia delle parole (problema comune a tutti i documenti antichi). Ancora consistenti tracce di volgare piemontese Le prime parole piemontesi scritte di cui si ha una data certa, sono le note contenute in un documento latino, noto come "Dottrinale di Mayfredo da Belmonte" (biblioteca capitolare di Ivrea, codice VII) dove, in nota, alcune parole latine vengono esplicitamente tradotte in volgare, e questo volgare è Piemontese. Il documento di cui disponiamo è una trascrizione successiva (XIV sec.) dell'originale, il quale è datato 1225. Il documento, naturalmente, non ha rilevanza letteraria per il Piemontese. Un esempio: una nota indica la traduzione della parola latina avellana con il termine nizola (l'attuale piemontese è nissòla ed anche ninsòla). Più o meno di quel periodo, ma di datazione più incerta, sono altre carte, contenenti "Temi di traduzioni", (sempre nella biblioteca capitolare di Ivrea) che dànno spunti di traduzione dal latino al volgare. Si tratta di frasi di fantasia, che servono come esempio ad una regola della grammatica latina (come gli esercizi che si facevano alla scuola media inferiore dei nostri tempi). Anche in questi scritti è possibile osservare la transizione di alcune parole verso quello che diventerà il Piemontese moderno. I trovatori provenzali (e quelli piemontesi) Una forma di espressione più esclusiva, più riservata "a chi può", ed in questo ambito molto diffusa in Piemonte, a partire dal secolo XI e fino al secolo XIII, è la poesia provenzale (quella in lingua d'Oc). Alla corte dei Marchesi del Monferrato in particolare, ma anche alla corte dei Marchesi di Saluzzo e anche dei Savoia, sono molto di moda, in questo periodo, i trovatori. Poeti e giullari, lirici e satirici, danno lustro alle corti in cui lavorano ed in quel periodo sono la massima espressione dell'arte della parola. Accanto ai poeti di provenienza provenzale, vi sono celebri piemontesi. Fra questi va ricordato (principalmente perchè si ha qualche opera sua) Nicoletto da Torino. Mentre la lingua piemontese sta diventando la lingua della gente (anche nobile), del parlare quotidiano, l'espressione "colta" subisce pesantemente l'influsso provenzale e francese. In questo periodo i documenti in Piemontese di cui siamo a conoscenza sono pochi, soprattutto perchè, già di per sé non numerosi, non pareva, al tempo, importante che fossero conservati. Il Latino era ancora lingua ufficiale, Francese e Provenzale erano diffusi più che l'Italiano. In alcune aree piemontesi, infine, il Provenzale si afferma come il volgare parlato dalla gente (alte valli dell'area alpina, ove tuttore è lingua minoritaria). Una considerazione di Dante Alighieri circa il Piemontese Dante Alighieri, come è noto, fu il maggiore poeta italiano delle origini, uno dei primi a scrivere in volgare. Nella sua opera (scritta in Latino) "De vulgari eloquentia" in cui discute sull'uso scritto e parlato della lingua volgare e della sua importanza (vulgus in Latino indica popolo) accenna alla lingua volgare parlata in Piemonte. Definisce questo volgare "turpissimus", afferma che è incomprensibile a lui. Dice inoltre che se anche questo volgare venisse "ripulito", non potrebbe essere considerato un volgare italiano, a causa della eccessiva influenza su di esso dei linguaggi d'oltralpe. Dichiarò, in pratica, che il Piemontese non aveva nulla a che fare con l'Italiano, o con altri volgari peninsulari. Altri scritti del primo piemontese (fino al 1400) Per quanto visto sopra, non sono molti i documenti nel Piemontese delle origini ma, se non altro da un punto di vista linguistico, permettono almeno di seguire l'evoluzione della lingua, Posteriori ai Sermoni e contemporanei alle opere dei trovatori, si hanno almeno altri due documenti: Detto del Ré e della Regina (La dita dël Ré e dl’Argin-a) ed i Proverbi scritti da un tale Frà Colomba da Vinchio, conservati nalla Biblioteca del Capitolo della Cattedrale di Novara (codice 117). Il primo è un poemetto piuttosto oscuro, ed è intercalato dai proverbi. La sua datazione dovrebbe cadere a cavallo fra il XIII e XIV secolo. In questi scritti, fra l'altro, si nota la transizione delle desinenze dei verbi all'infinito da "are" a "er". Compare la parola "sagui" per "pungiglione" (ora, nel piemontese attuale è "savuj", ed altre interessanti cose. Un Piemontese più spigliato e "moderno" (ma ancora in crescita) lo si trova negli archivi del comune di Chieri in due documenti, di cui uno : Statuti dell'Ospizio della Società di San Giorgio di Chieri, (Jë Statù dl’Ospissi dla Società ëd San Giòrs ëd Chér), porta la data in cui è stato scritto. Si tratta di Sabato 25 luglio 1321. Riportiamo qui l'inizio di questo documento: A lo nom de nostr segnor Yhesu Christ amen. A l'an de la ssoa natività MCCCXXI a la quarta indicion, en saba XXV dì del meis de loign, en lo pien e general consegl de la compagnia de messer saint Georç de Cher a son de campana e a vox de crior en la chaxa de lo dit comun de Cher al mod uxà e congregà, el fu statuì e ordonà per col consegl e per gle consegler de lo dit consegl e per le rezior de la dicta compagnia gle qual adonch li eren en granda quantità e gnun de lor discrepant, fait apres solempn partì che gly infrascript quatrcent homegn .... L'altro documento riporta il giuramento ("sarament") che il reggitore ("resior") della compagnia doveva prestare, e di cui riportiamo poche righe, con una interpretazione grafica nella quale si distinguoni le u e le v, la y viene sempre scritta i, la h etimologica viene soppressa, le o che risultano aperte sono scritte con ò accento grave, e quelle il cui suono si suppone quello del dittongo eu, in questo caso sono indicate ö con dieresi, solo per mantenere l'originaria grafia o.: infatti, in questi documenti si può notare una grafia che non distingue "u" da "v" (ma questo è piuttosto comune) che usa "i" e "y" in modo piuttosto casuale, e l'uso di "ç" per indicare il suono che sarà poi rappresentato da "s" (questo, almeno, stando alla evoluzione delle parole che usano questo simbolo). Viene poi utilizzata la doppia n "nn" per il suono che ora è indicato dalla n faucale "n-" (questo secondo il criterio detto) , a volte il simbolo "r" stà dove poi vi sarà una "l", e questo secondo quanto ancora succede ora nelle aree chieresi ed astigiane, e così via. "...o jurerai al seint Dee wangere de reçer e de mantenir a bonna fai e sença engan ni döl le còsse le persone e le rassoign de la Compagnia de tuta vòstra possença e força , juxta i capitor e gli statutde la ditta Compagnia...". Notiamo che l'espressione "seint Dee wangere", che si traduce "al santo vangelo di Dio" , oltre all'uso di "r" al posto di "l", come visto, utilizza ancora la parola "Dee" come genitivo. Molte altre interessanti cose possono essere dedotte dal punto di vista linguistico, e vi sono molti vocaboli che si prestano ad una interessante analisi, anche legata ai loro sviluppi successivi. ma data la nostra breve esposizione si lascia questo agli esperti. Diciamo solo che la "r" finale dell'infinito dei verbi è ancora presente (scomparità qualche secolo dopo), ma forse non viene pronunciata, così come capita nel francese. Ancora dello stesso periodo (fine del XIII secolo o inizio del successivo) si trovano in Firenze (biblioteca nazionale) I parlamenti e le epistole (Ij Parlament e j’Epìstole) che sono modelli di lettera in Piemontese (quattro) con la relativa stesura in Latino, fatti a scopo didattico, e che indicano il Piemontese come lingua usata nella scuola. Il testo piemontese doveva essere tradotto in Latino dagli scolari. In un antico codice appartenuto alla Abbazia di Novalesa (fine del secolo XIV), poche pagine in cattivo stato, si trovano esercizi di traduzione dal piemontese al latino. Si presume che questi fogli appartenessero ad una antica grammatica, o qualcosa di simile (queste traduzioni erano una diffusa pratica scolastica). Il documento non è ancora stato reso pubblico al completo, e gli studi fatti su questo non sono ancora stati pubblicati. Più o meno della stessa epoca sono state pubblicate lettere tratte da un documentopresente nell'Archivio di Stato di Torino, scritte in un volgare con moltissimi elementi piemontesi. Si cominciano a scrivereLodi Sacre (Làude Sacre), e Ordinamenti e Statuti di Confraternite in Piemontese. In questo periodo la lingua piemontese è già più definita. Nei liberi Comuni viene usata a volte anche per atti ufficiali, come vedremo di seguito. Documenti del '400 Nell'Archivio Storico della città di Torino vol. 15 f. 138, a Torino, si trova un documento in versi dal titolo La presa di Pancalieri (La prèisa ‘d Pancalé) che è di autore anonimo, ma che ha una data: 1410, e celebra la vittoria di Ludovico d'Acaja nella relativa battaglia. Anche questo documento non è ancora stato studiato a fondo dal punto di vista di alcuni elementi lessicali. Con le stesse interpretazioni grafiche fiste prima, riportiamo pochi versi, che risultano piuttosto irregolari: Nòta que / Lo castel de Pancaler / que tùit temp era fronter / E de tute malvestai fontana /Per mantenir la bauzana / e al pais de Peamont trater darmage / ..... Ancora a Torino, nella Biblioteca Reale, si trova il documento in versi Le lamentazioni di Torino (La complenta 'd Turin) che è del 1427, e ancora sullo stesso tema abbiamo Lamentazioni di Vercelli (Biblioteca Capitolare di Vercelli) e Lamentazioni di Chieri (Collegiata chierese di Santa Maria della Scala). Nel loro insieme questi componimenti si collocano in quei Pianti di Maria che la fede, ormai da lungo tempo predicata in volgare, aveva diffuso un po' in tutta Italia, con caratteri molto regionali. La copia di cui si dispone delle Lamentazioni di Torino pare trascritta a memoria da qualcuno che non la ricordava bene, con l'intrusione di altri componimenti. Il testo è stato restaurato con una lunga ricerca delle fonti. Ne risulta un componimento che è stato definito dagli esperti "rozzo ma potente ". Riportiamo quì qualche verso: Quant lo fy oyt i dolor de soa mare / dis a Zoan: a ti l'acomando per mare / che tu Zoan i sies bon figliol e pare / .... Notiamo, in uno stralcio delle "Lamentazioni di Vercelli" l'uso delle forme verbali del passato remoto piemontese: .... / Io sum Zovan ch'i ò ben vist / Tutta la mòrt de Yhesù Crist / Como lo prendero li Zoè / L'abandonoro tuti y sé / ...... Per la "Lamentazione di Chieri", la copia che si ha è una trascrizione del 1575, ma l'originale è certo del XV secolo. La copia in questione ha subito qualche rimaneggiamentyo in volgare illustre, ma alcune parti sono in schietto Piemontese antico. Quì ne riportiamo l'inizio: Bin devema tùit pioré com gran dolor / la dura mòrt del nòstr bon creator, / chi vols morir per reymer li peccator / susa la crox assì gran desonor. / .... . La parola "peccator" (che è comunque invariante al plurale) rivela influssi esterni al Piemontese del tempo ("pecaor"), con la restituzione dell'intervocalica "t" e il raddoppio della "c". Molto interessante che fra questi documenti ci sia anche una sentenza: La Sentenza di Rivalta (Sentensa 'd Rivàuta) del 1446, proclamata dall'abate del monastero di San Pietro, per l'annullamento di una promessa di matrimonio. La sentenza è interamente scritta in Piemontese, con termini giuridici derivati con meccanismi autonomi dal latino, e dimostra che questo volgare è utilizzabile (ed utilizzato) anche in campo giuridico. Un altro documento amministrativo in piemontese si trova nell'archivio del comune di Poirino (Ordinati, vol. 1 f. 153) , noto come Atto di Poirino, ed è del 1 ottobre 1465. Raro esempio per il tempo, di sostituzione del Latino con il Volgare in atti di questo tipo. Nella Biblioteca Nazionale di Torino (G II 7) si trovano alcune note in volgare piemontese ad un testo latino (le metamorfosi di Ovidio), dove sono indicate le traduzioni in Piemontese di parecchi vocaboli latini. Ancora nella stessa biblioteca, si trovavano, di questo secolo, I testi Carmagnolesi, scritti in prosa (ora gli originali sono andati perduti in un incendio, nel 1904). Si tratta di due omelie ed una orazione. Abbiamo poi il Laudario di Saluzzo (Laudari ‘d Salusse) appartenente alla Confraternita del Gonfalone, che contiene una lunga serie di Raccomandazioni (che sono orazioni), dalle quali gli esperti hanno ricavato una gran quantità di informazioni linguistiche. Altro documento di interesse è "Gli ordinamenti e dei disciplinati e dei Raccomandati di Dronero" che è custodito dalla Confraternita di Dronero. Vi sono documenti di questo periodo che mostrano testi "importati" in volgare italiano e quindi piemontesizzati (ad esempio una delle "Laude di Saluzzo"). Sempre di questo periodo è "La passione di Revello", curiosamente scritto in toscano, ma con elementi lessicali piemontesi malamente tradotti, tali da dimostrare la scarsa familiarità dell'autore con la lingua toscana, e questo è esplicitamente dichiarato dall'autore (ad esempio : ancoy per oggi, costuma per usanza, darera per dietro e così via). Il latino del tardo medioevo Può essere interessante un esame dei documenti che in questo periodo venivano ancora scritti in Latino nell'area piemontese. In essi si trovano spesso parole decisamente piemontesi, appena un pò latinizzate. I neologismi che venivano introdotti nel Latino provenivano in gran parte dal Piemontese, mentre parole già presenti nel Latino classico venivano sostituite da parole piemontesi latinizzate. Da quasi tutti i documenti latini del periodo si può rilevare questo fatto, ed in particolare sono stati esaminati un inventario del castello di Rivoli (1417), gli statuti del paese di Villanova d'Asti e gli statuti di Bra. Come esempio ne riportiamo giusto qualcuno: Nel Latino classico "profondo" si traduce in "profundus", termine da cui la derivazione italiana è diretta. In Piemontese il termine italiano "profondo" si traduce in "creus, ancreus". Il termine latino usato in Piemonte era "crosus". Nel latino classico "caprone" si traduce con "caper", da cui deriva il termine italiano. In piemontese il "caprone" italiano si traduce con "boch". Il termine latino usato era "bouc". Nel Latino classico "botte" si traduce in "cupa, dolium". In Piemontese l'italiano "botte" si traduce in "botal". Il termine latino usato in Piemonte era "botallum". Ancora abbiamo un "amboczorium" per l'italiano "imbuto" ed il piemontese attuale "ambossor". Ed ancora un "ritana" per l'italiano "fossato con acqua corrente" ed il piemontese attuale "rian-a" oppure "arian-a". E così via. È comunque proprio da questi vocaboli latini "piemontesizzati" che si possono recuperare le tracce passate di parole che oggi fanno parte del Piemontese moderno. Uno studio in questo senso è stato condotto su tre fonti tardolatine che sono il registro delle spese sostenute per lavori di un castello di Filippo d'Acaja (1317 - 1320), gli statuti di Torino del 1360, ed infine di un registro del 1363 che riporta tutti i possessori di case e terreni in Torino. Fra quanto si può rilevare da questi documenti, ed a titolo di esempio, si trova che i cardini delle porte sono detti "polices ostiorum" e nel piemontese attuale i cardini sono detti "pòles". Così pure il conciatore è indicato come "affaytator", e lo stesso, nel Piemontese attuale, si dice "afaitor". Infine, lo sterco di equini o bovini è indicato con "bussas" e nel piemontese attuale è "busa" con plurale "buse". A proposito di Latino, Maurizio Pipino (autore della prima grammatica piemontese verso la fine del '700) riferisce che nel 1574, a Mondovì, fu pubblicato un vocabolario Piemontese - Latino, il cui autore era un certo Michele Vopisco, di origine napoletana. Lo scrivente, comunque, non conosce altra fonte per questa notizia. Così come il Latino subisce nel tardo medioevo, in Piemonte, un forte influsso dal Piemontese, tanto per vecchi vocaboli dimenticati come per i neologismi dell'epoca, altrettanto il Latino fà sentire l'influenza della sua struttura quando si tratta di scrivere in Piemontese le prime cose. Origini del teatro piemontese Si fanno risalire agli anni intorno al 1000 le prime rappresentazioni sacre dialogate in piemontese arcaico. Nei primi secoli, le uniche opere scritte per essere rappresentate in forma di dialogo hanno come tema argomenti sacri. Fra queste la più nota è la rappresentazione del Gelindo, sulla nascita di Gesù. Sono del periodo che va dal 1200 al 1400 le Làude della Compagnia dei disciplinati di Carmagnola, la rappresentazione della trilogia sulla Passione di Cristo a Revello (Marchesato di Saluzzo) e la rappresentazione del Ludo di San Giorgio alla corte dei Savoia. Seguono più tardi le satire e farse, in particolare ad opera dell'Allione, che vediamo quì di seguito. Per un vero Teatro in piemontese occorre comunque arrivare al 1600. Prima di questa data si ricordano Commedie pastorali di Bartolomeo Brayda del 1556, ancora una commedia pastorale scritta da Carlo Emanuele I, e quindi Le scolare di Niccolò Dal Pozzo (1596). Infine, già nel 1608, un professore dell'Università di Torino, Marco Antonio Gorena, compone (sempre commedia pastorale) Margarita. Tutti lavori, questi, di importanza limitata. Il lavoro più importante è senz'altro, verso la fine del secolo XVII, la commedia 'L Cont Piolet di Carlo Giovanni Battista Tana, marchese di Entraque. Gian Giorgio Alione di Asti Si tratta del primo scrittore in Piemontese di sicuro talento. Scrive in Francese, Italiano e Piemontese e vive a cavallo tra il secolo XV ed il secolo XVI. La data di nascita non è sicura (tra il 1460 ed il 1470) mentre la data di morte è il 1529. La sua opera è importante anche perchè segna il passaggio tra Medioevo ed Umanesimo. In Piemontese scrive le farse che sono un capolavoro del teatro comico. Nel periodo la città di Asti è possedimento degli Orleans, e senz'altro in città è presente l'influenza della scuola farsesca francese, ma al di là dello spunto di partenza, l'opera di Alione è del tutto originale. La raccolta più nota è Opera Iocunda no. D Johanis Georgii Alioni astensis - metro maccaronico materno et gallico composita e contiene dieci farse in versi novenari in Piemontese antico di tipo astigiano, che sono definite come "giochi di carnevale " ("zeu da carlever"), sette poesie nella stessa lingua e venti poesie in francese. Si conosce l'esistenza di quattro copie, di cui una Alla Biblioteca Reale di Torino, una alla Trivulziona e una alla Ambrosiana di Milano, ed infine la quarta è posseduta dfa un antiquario torinese. La copia che è conservata nella Biblioteca Reale è stata stampata il 12 marxo del 1521, almeno stando alla data che riporta. Le farse sono componimenti molto consistenti : la prima è composta da 915 versi e ha titolo : La commedia dell'homo e dei suoi cinque sentimenti, tema che ha già dei precedenti quando Alione lo scrive. Ne riportiamo un piccolo saggio : ... Gl'eugl: / L'é ben rason sì vel direu: / l'hom, voi saré servì da mi / com s'aparten dal bon amì / e servitor, megl ch'e' porreu / L'hom: / E de que? / Gl'eugl: / Mi ve monstrereu / belle ville, belle çità / belle giesie, belle meistà ..... Nella Farsa de la dona che si credia havere una roba de veluto dal franzoso alogiato in casa soa, che è più breve (436 versi) sono contenuti dialoghi bilingue piemontese e francese. L'introduzione inizia con i versi: Qui se dirà una farsa onesta / su el belle dòne chi fan festa / ai nòsg franços pr'aveir di scu / gorgios e ròbe de vellù / ben ch'o s'an trova dl'anganà / chi resto pos con una menà / de mosche an man, com o antandré / pr'esempi ciair. Gli argomenti di queste farse e anche delle poesie, sono di impostazione piuttosto triviale e di sicura comicità. Di questa opera vi sono poi riedizioni nel secolo XVI. Altre opere del '500 Nella Biblioteca Reale di Torino si trova una Comedia pastorale di Bartolomeo Brayda con data 1556. Questa commedia è dedicata "alla illustrissima et eccellentissima signora mia honorandissima madama Francesca de Foya contessa di Tenda e di Summariva, governatrice di Provenza e di Marsiglia". Si tratta di solo 119 versi in Piemontese occidentale. Si riportano un paio di versi, giusto per fare una nota. Or sù andema ... jé-lo pi nent de vin? / E veuj andé trové qualcun / che me mostra a bin parlé / e sortut a fé l'amò... / Notiamo nel primo verso la forma interrogativa con l'uso dei pronomi personali interrogativi. Nell'incendio del 1904 già visto è andata distrutta anche una tragicommedia di Marc'Antonio Gorena dal titolo "Margarita" di cui si ha qualche parziale trascrizione. Di questa commedia si sà che fù rappresentata in Savigliano nel 1608 in occasione del matrimonio delle figlie del Duca Carlo Emanuele I. La commedia, a quanto si sà, era multilingue, con un personaggio parlante Piemontese, uno Veneziano, uno Bolognese, ed un quarto parla un linguaggio involuto e complesso. Il 500 è un secolo travagliato per il Piemonte, e anche la produzione letteraria (scarsa quella pervenutaci) ne risente. . |