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Albania: fenomeni sociali e rappresentazioni

I MEDIA ITALIANI E LA CRISI IN ALBANIA

Noi però sappiamo meglio di loro che cos’è la realtà, poiché li abbiamo designati a incarnarla. O semplicemente perché si tratta di ciò di cui noi, e tutto l’Occidente, manchiamo maggiormente. 
                                                                         Jean Baudrillard

I. Le immagini degli edifici disseminati di antenne paraboliche hanno percorso quasi tutti i servizi televisivi italiani sull’Albania, mentre nei reportage giornalistici non si dimentica mai di sottolineare il fatto che gli albanesi seguono molto la TV italiana. Vi si notano espressioni di compiacimento, stupore, incredulità e disapprovazione.

Durante i primi esodi albanesi degli anni ‘90 e ‘91 i media italiani furono accusati di aver ingannato un popolo intero con quella realtà patinata ma inesistente che mostravano nei loro programmi. Si è discusso parecchio anche su come hanno rappresentato gli albanesi e l’Albania in questi ultimi anni(1).

La crisi albanese dell’anno 1997 ha riproposto la questione ancora più concretamente: C’è un ruolo dei media italiani nella crisi albanese? E se c’è con quali modalità ed effetti lo ha svolto?

Il problema ci pare di estrema importanza e degno di qualche considerazione. Noi però, siamo lungi dal pensare che i media hanno un’influenza assoluta ed esclusiva sugli individui. Non apparteniamo né alla tribù dei colpevolisti ingenui, né a quella degli innocentisti fanatici. L’unico faro di salvezza può essere l’esame dello specifico contesto in cui i media operano.

E’ noto che la televisione ed i giornali italiani sono abbastanza utilizzati dagli albanesi, i quali hanno una discreta conoscenza della lingua italiana. Infatti il messaggio dei media italiani in Albania non incontra particolari ostacoli linguistici, come può succedere ad altri canali televisivi p.es. quegli slavi, i quali trovano pochi fruitori tra gli albanesi.

I media italiani sono abbastanza seguiti soprattutto in periodi particolarmente difficili, oppure quando si tratta di trasmissioni o articoli sugli albanesi. Si constata una forte esposizione del telespettatore o del lettore albanese nei confronti dei messaggi, accompagnata da una intensa attenzione nei loro riguardi; due elementi che costituiscono la base per raggiungere un effetto d’influenza sull’individuo.

L’ex Direttore di Gazeta Shqiptare, Carlo Bollino, quando ha spiegato la sua avventura giornalistica in Albania(2) ha ribadito che in quell’impresa di successo era stato aiutato anche dal fatto di essere straniero e "quindi di rimanere svincolato dalle lobby e dai rapporti che qualunque altro direttore albanese doveva invece subire". Dunque il vantaggio dell’indipendenza nel contesto albanese ha portato all’accrescimento della credibilità della testata. In verità questo era un privilegio riservato solo all’informazione straniera: "Qualunque cosa scrivesse Gazeta Shqiptare, assumeva un valore assoluto, un potere devastante" come sottolineava un po’ impaurito Carlo Bollino(3).

La credibilità della fonte è una specie di maledizione per i media italiani, i cui operatori si stupiscono continuamente dello status particolare di cui essi godono in Albania.

Espressioni del tipo: "Lascia perdere i giornali" o "Ma tu credi alla tv?" sono frequenti e salutari in Italia. In Albania invece, dove il sistema immunitario nei confronti dei media in democrazia è ancora immaturo, la TV italiana e i suoi giornali godono di una credibilità consistente.

In realtà non c’è neanche da stupirsi, perché sui giornali italiani appaiono quotidianamente giudizi e opinioni (talvolta banalissimi) sulla realtà italiana espressi da organi stranieri di informazione. Per gli operatori dei media, ma anche per altri, questo è un meccanismo abbastanza conosciuto (citazione di altre fonti) per aumentare la propria credibilità.

La considerazione della TV come testimone infallibile di fatti e opinioni è diffusa, in varia misura, ovunque. Dietro di essa "si cela l’identificazione immediata del mezzo con la veridicità dei messaggi che veicola: l’adesione incondizionata e acritica a quanto il piccolo schermo propone, segnala l’attribuzione a questo di un potere veritativo"(4).

L’Albania in questo senso fa un caso a sé solo per la sua recente storia di 50 anni di comunismo selvaggio, durante il quale il pubblico non ha avuto modo di affilare gradualmente le armi della percezione selettiva, ossia quel filtro magico che permette di non prendere tutto sul serio e di conoscere gli effetti collaterali della libertà d’espressione.

L’influenza dei media è correlata ad una serie numerosa di fattori sociali di gruppo o individuali che interagendo contribuiscono insieme a determinare comportamenti e atteggiamenti. I media interagiscono con mentalità, tradizioni, aspirazioni e desideri con rapporti diversi, che a seconda del caso portano ad effetti vari.

E quando le strutture sociali, anche in qualità di contenitori di valori, entrano in coma o si distruggono, l’onnipotenza dei media non può essere considerata solo un’ipotesi.

Il rapido disfacimento dello Stato in Albania e la svalutazione dei valori incarnati da varie aggregazioni o modelli sociali hanno comportato un totale panico di riferimenti, una profonda confusione di indicazioni morali, con la pesante conseguenza di una crisi d’identità, anche se temporanea. Questo smarrimento pluridimensionale ha automaticamente portato quindi alla ricerca di se stessi. Il tubo catodico è diventato fatalmente uno specchio magico, da cui, come da tutti gli specchi, ci si aspetta l’assoluta verità. Un popolo senza specchi per 50 anni, adesso si è trovato di colpo in un labirinto speculare.

Da quel momento in poi il telecomando, predecessore moderno del kalashnikov, ha sparato nervosamente su tutti i possibili schermi televisivi, alla ricerca del sé perduto.

Emblematico il fatto che la TV albanese, durante tutta la crisi, un po’ per le difficoltà logistiche e un po’ per il notevole calo di credibilità, riprendeva le notizie sull’Albania dalla TV italiana.

Si è parlato molto e in centinaia di sedi su come gli albanesi hanno visto la realtà italiana tramite i canali televisivi italiani. Poco, se non niente, si è detto però su come loro vedono se stessi sugli schermi di un altro paese. L’ultima crisi è stata seguita principalmente sui media stranieri e italiani in particolare, poiché per parecchio tempo i media nazionali non hanno funzionato regolarmente a causa dello stato di emergenza.

Così gli albanesi si sono trovati produttori e ricevitori di immagini. Attori e registi, assassini e vittime, complici e assenti. Essi hanno seguito assiduamente tutte le tappe dell’illusione della guerra civile e si sono visti ai primi posti dell’agenda setting di molti organi d’informazione e per un periodo relativamente lungo.

I media si sono buttati in una gara di descrizioni patafisiche senza esclusione di colpi. Le immagini dei giovanotti che sparavano in aria ridendo, ci scorrono ancora davanti agli occhi: immagini rumorose col senso silenzioso o addirittura assente. Rumorosità che soffocava il senso vero mettendo in atto una sbalorditiva autoreferenzialità, un vuoto circolo vizioso di semiosi fallita, una vera e propria tautologia. Una ripetitività assordante, il cui unico obiettivo era di autoconfermarsi come documento di evento - fantasma, tutto in un campo minato di aspettative impazienti e agguati inflazionanti, che portava all’esasperazione ossessiva toccando il limite della comicità.

E più la realtà sembrava tale, più ci si allontanava da essa. Come un gioco impressionante tra convessità e concavità virtuali.

L’immagine dell’albanese che spara col kalashnikov è stata consumata fino all’inverosimile. L’inserirsi di immagini di carri armati o il semplice cambiamento di volto non è riuscito a celare la stanchezza della notizia.

Ma la realtà, intesa come verità, vale la pena spiegarla o almeno tentare, altrimenti dobbiamo accettare fatalmente il fatto che oggi "viviamo in un mondo in cui la suprema funzione del segno è quella di far scomparire la realtà e di mascherare nel contempo questa scomparsa"(5).

II. La storia si ripete. Gli albanesi sono partiti di nuovo verso le coste italiane, mentre coloro che sono rimasti seguivano l’odissea sugli specchi televisivi. Ma stavolta la puntata non è stata a lieto fine. Si è assistito ad un crescendo graduale dell’intolleranza verso gli albanesi. Immagini, servizi, titoli, titoloni, articoli, analisi, opinionisti, tutti si sono prodigati a inviare via etere il messaggio del rifiuto(6).

Già dal 2 marzo, quando dell’esodo non c’era traccia ancora, il Corriere della Sera ammoniva: "Bari, l’incubo dell’invasione" e poi articolava: "Da quest’altra parte dell’Adriatico, mentre le immagini televisive della rivolta albanese testimoniano di una situazione sempre più drammatica, torna lo spettro degli esodi del ‘90 e del ‘91".

Il 3 marzo il Messaggero titolava in prima pagina: "Albania nel caos, allarme in Italia. Controlli rafforzati in Puglia".

Gli inviati della RAI, dai porti ancora deserti, hanno tuonato al pericolo esodi. L’esodo non ha ripreso ancora ma il 6 marzo, su La Gazzetta del Mezzogiorno leggevamo: "Viva preoccupazione si esprime dagli operatori turistici. Nella loro nota si evidenziano "i riflessi negativi che potrà produrre sull’economia turistica pugliese", i quali per altri motivi chiedono "di evitare di provocare allarmismi ingiustificati".

Due giorni dopo i toni dei giornalisti italiani da Tirana erano abbastanza allarmistici. Il Messaggero del 8 marzo scriveva: "Migliaia di persone verso la costa pronte a fuggire in caso di conflitto". "Annunciati i primi arrivi. Continua il miniesodo delle famiglie albanesi terrorizzate dalla violenza" sottolineava L’Unità.

E così i giorni successivi, tra paure, allarmismi, incomprensione si cercava di descrivere l’esodo albanese.

Il 9 marzo Il Corriere della Sera annunciava: "L’Italia respinge i profughi albanesi. Niente asilo politico. Chi sbarca verrà riportato a Durazzo in un campo di assistenza".

La psicosi dell’invasione prendeva subito piede: "Il crollo dell’Albania, I ribelli a Tirana, fuga di massa verso l’Italia. Navi, aerei, elicotteri, gli albanesi invadono la Puglia" (La Repubblica, 14.3.1997). Il Corriere della Sera: "Per mare e dal cielo verso l’Italia. Elicotteri, vedette e traghetti scaricano centinaia di profughi in Puglia"; Il Giorno in prima pagina scriveva: "Sbarcano i dannati d’Albania. Ricomincia la fuga in Italia, allarme sulla costa adriatica", mentre nel suo editoriale, Giorgio Vecchiato argomentava meglio: "Non aiutano nemmeno, anzi danno un segnale ostile, le immagini che la gente ha visto in tv. Navi e cannotti sono gremiti da uomini che fino a ieri hanno tenuto il mitra in mano". Più in là: "Pur evitando di generalizzare, e con ogni comprensione umana, i resoconti su magnaccia e prostitute coatte sono materia di cronaca quotidiana, così come i delitti per motivi di infame concorrenza o, semplicemente, per fame".

L’Unità: "Prese d’assalto le coste italiane", mentre Il Manifesto: "L’Albania è qui. A Brindisi. La città teme il grande esodo". Ed in uno dei suoi servizi a proposito del paragone con i primi esodi leggevamo: "Sei anni dopo, lo stesso clima di tensione, di preoccupazione, di angoscia". Nello stesso giorno Il Giornale, in prima pagina e con grandi caratteri, spaventava: "La guerra sbarca in Italia".

Nei giorni successivi gli allarmi aumentavano di tono. Il Mattino: "C’è curiosità ma anche preoccupazione e paura per questo nuovo esodo... Ed è invasione anche dal cielo"; Il Tempo in prima pagina: "Allarme per lo sbarco degli albanesi. Con battelli, navi e mezzi militari i profughi approdano a migliaia sulle coste italiane".

La Repubblica (16.3.1997): "Emergenza profughi, sbarcati a migliaia"; La Nazione: "La Puglia ‘scoppia’ di profughi".

Gli inviati di tutte le reti della RAI e MEDIASET si trovavano ormai in Puglia ed i servizi numerosi parlavano di una vera e propria ondata di invasori.

Il 17 marzo Il Giornale titolava: "Una guerra finta e l’Albania trasloca in Italia"; La Stampa: "Tensione in Puglia: tutti protestano. I fuggiaschi vogliono case, la gente ha paura". Il Tempo citava tra virgolette la frase "Albanesi tornatevene a casa" e poi precisava che "A Brindisi le strade sono invase di clandestini arrabbiati e sfuggiti ad ogni controllo"; Il Messaggero: "Puglia, l’invasione continua. Profughi anche nelle chiese".

Il giorno dopo tutti i titoli dei giornali si dedicavano principalmente al pericolo criminalità. La convinzione che tutti gli albanesi arrivati fossero delinquenti prendeva piede velocemente, insieme alle solite speculazioni. Il Tempo: "C’è un nuovo allarme, nascosti fra i profughi, evasi e delinquenti"; Il Messaggero in prima pagina: "Profughi e bande criminali"; Il Giornale: "A rischio le case delle vacanze. I profughi vogliono occupare le abitazioni vuote lungo la costa".

Il rischio criminalità otteneva un notevole spazio sui media. Anche se il 19 marzo L’Arcivescovo di Brindisi alla domanda: "Allora, monsignore: gli albanesi sono ormai una questione criminale nazionale" rispondeva: "Ma per piacere. Lo sanno anche i bambini che non è così. Mi meraviglio che persone intelligenti, sui giornali e nelle istituzioni, e alle volte anche all’interno della stessa chiesa, facciano questa lettura così superficiale".

Il 20 marzo si ricorderà per la relativa tranquillità. Infatti fu una giornata di tregua sul fronte profughi. Lo stesso giorno si annunciava il compito della Marina a difendere le coste pugliesi. La Stampa del 21 marzo: "Uno scudo di navi per bloccare l’esodo", Il Corriere della Sera: "La San Giusto a Durazzo e l’esodo si blocca. L’Ondata di profughi spaventa il turismo". Il Giornale d’Italia: "I Marò vegliano sull’esodo", mentre Avvenire sottolineava: "Continuando a dire che la gente non li vuole si fa solo propaganda razzista".

La curva dell’intolleranza nei giorni seguenti fu in continua ascesa, nonostante Cacciari ricordasse che "non dobbiamo erigere barriere o favorire il diffondersi di un deleterio senso comune, secondo il quale ogni albanese è un potenziale mafioso".

I media giravano intorno alle stesse parole: invasione, disordine, caos, rischio epidemie, danni al turismo, blocco navale ecc. Il sismografo mediatico impazziva. Il 27 marzo La Repubblica rilevava: "Un muro di no contro gli albanesi. Cresce in Italia l’ondata anti-profughi: ‘Sono degli invasori", mentre lo stesso giorno l’ex Presidente della Camera, Irene Pivetti, si raccomandava di buttare a mare gli albanesi (almeno così è stata riportata dai media).

È molto facile leggere la curva ascendente del rifiuto nei riguardi degli albanesi. Essa culmina con la dichiarazione della Pivetti e con l’organizzazione delle ronde padane antialbanesi, che hanno occupato un enorme spazio in tutti i media.

Proprio in questa curva con valori negativi in salita c’è il senso del messaggio ricevuto dagli albanesi tramite i media. Là si nasconde la profezia della tragedia del Venerdì Santo. Una tragedia annunciata. Infatti, mediaticamente parlando, nella curva delle reazioni dei media ci sono anche i moventi della tragedia, basta leggerli con attenzione. Gli albanesi erano diventati troppo pericolosi, perciò andavano ributtati a mare. "Hecatomb was in the air" - scriveva Ardian Vehbiu su Internet(7). Ed aveva ancora ragione quando osserva che "Italian media went on treating Albania as a metaphoric archetype for what is supposed to threaten the opulent Europian fortress. All this, while people were suffering and perishing right under the castle walls". Questo è il senso dell’operato dei media sull’esodo albanese. Questo è il messaggio recepito dagli albanesi. Dunque, a prescindere dalla istituzione della commissione di inchiesta, dalla fiducia nella giustizia e dalle reazioni piagnucolose del giorno dopo, nell’infosfera la tragedia si è trasformata in delitto e si è consumata come da copione. Il caso è chiuso, anzi aperto.

Il caldo estivo di quell’anno ha portato con sé polemiche infinite sulla criminalità degli immigrati, sull’opportunità di misure più restrittive nei confronti dei clandestini e sull’espulsione degli albanesi, il cui permesso di soggiorno per motivi umanitari scadeva alla fine dell’agosto.

In qualità di messaggi non c’è stato pressoché niente di nuovo: il rifiuto, gli allarmismi e le generalizzazioni di sempre.

L’unico elemento innovativo è stato "il turista", ossia il simbolo esemplare della persona che ha faticato tutto l’anno e vuol passare in santa pace le sue vacanze estive. La figura del turista evoca l’Italia per bene, quella onesta e laboriosa. Il turista, per la sua stessa natura, è pacifico e tollerante, per cui, ogni peccato o crimine nei suoi confronti si considera doppiamente tale. In più "il turista" acquista in periodi particolari, come p.es. d’agosto o a dicembre, una sensibilità impressionante dal punto di vista emotivo, in quanto proiezione o prodotto di un processo di identificazione della gente in vacanza.

Purtroppo sembra sia stato lui la vittima eccellente di quella estate "clandestina". Sul fronte estero si sono registrati rapimenti di turisti italiani nello Yemen e pericoli di altro genere in Kenya - mentre sul fronte interno, a Rimini e in Abruzzo, cioè al mare e in montagna, si sono verificati episodi gravosi e tragici.

Se la vittima è stata la persona per bene (certo, con il suo valore simbolico), il carnefice non è rimasto l’individuo malvagio da condannare senza nessuna pietà, ma per gli effetti diabolici della retorica e della semplificazione massmediologica, si è esteso a tutti i clandestini stranieri e poi all’immigrazione extracomunitaria. La bufera demagogica ha spietatamente inghiottito anche questioni particolari come quello albanese, che differisce dalla costante immigrazione incontrollata che preoccupa giustamente l’Italia.

Il discorso albanese è slittato nel terreno scivoloso della politica non facendo altro che aumentare il nervosismo della pubblica opinione ed il disagio degli immigrati albanesi, consci di essere diventati ormai anche uno strumento efficace a servizio del consenso politico in ambedue i Paesi.

L’estate è apparsa come un interminabile processo, con le sue sedute scandite da dichiarazioni di pubblici ministeri, di avvocati e di giudici. E in queste vicende, al di là della causa impugnata, le divisioni sono assicurate, così come gli egoismi, i nervosismi, i trinceramenti e le paure, con le rispettive scontate conseguenze.

III. I media hanno offerto una chiave di lettura ben precisa del fenomeno "emigrazione Albania". Agli albanesi però, il rifiuto è sembrato piuttosto immotivato, poiché ignoravano, oppure non erano del tutto consapevoli di una situazione difficile italiana o di altre ragioni. Dunque il messaggio nella sua sostanza è stato recepito bene, ma non erano chiari i motivi. Comunque, non possiamo dire che ha avuto luogo una comunicazione compiuta e neanche parlare di un banale malinteso. Il messaggio doveva spogliarsi dalla retorica e contenere chiare spiegazioni di quello che era successo e accadeva ogni giorno. Il processo di decodificazione per gli albanesi, riceveva per così dire, un carattere istintivo.

Un altro problema rimane la decodifica della retorica e specialmente gli artifici enfatici, che possono essere considerati innocui al di qua del mare - muro, ma certo non nel piccolo paese balcanico.

La codificazione del messaggio da parte dei media italiani è stato un processo basato sul contesto italiano e tenendo presente un modello di lettore ben preciso. L’errore di fondo è stato di non considerare il fatto che il target si estende anche al di fuori dei confini geografici della penisola appenninica.

"Difficile dire se le corrispondenze che partono dalla terrazza dell’Hotel Tirana, quartiere generale dell’informazione, potessero produrre conseguenze negative sull’evoluzione della crisi albanese. Esse riportano, più o meno tutte, la poca cronaca che da quel punto di osservazione si può elaborare. Anche gli inviati che si spingono verso quella sorte di fronte tra Tirana e Valona e oltre, verso il Sud, riferiscono compiutamente ciò che osservano"(8). Così affermava il giornalista Gorgoni anche se più avanti diceva che "la televisione italiana, dopo il 1990, ha di fatto plasmato una società che non aveva anticorpi critici rispetto al messaggio televisivo"(9). Quest’ultima asserzione ci pare eccessiva ed assolutamente semplicistica dal punto di vista scientifico.

Nessuna televisione, nessuna Grande Sorella, può plasmare un popolo intero. E’ vero, gli albanesi erano e sono sprovvisti di anticorpi critici, ma non nel senso che credono alla televisione in quanto tale. Tant’è vero che la TV albanese, secondo molti analisti, stenta a godere di grande credibilità nel suo pubblico. Agli albanesi servono soprattutto codici e sottocodici di lettura del messaggio televisivo straniero. Mentre gli è facile capire i messaggi della loro televisione, allenati da vere e proprie acrobazie semantiche ed iconiche durante il periodo di Hoxha, incontrano serie difficoltà di lettura di un messaggio mediatico proveniente dall’estero.

In questo senso le immagini possono essere più pericolose di un kalashnikov cinese nelle mani di un contadino. Difatti il continuo e disorganico susseguirsi di immagini di ribelli, soldati, bambini, delinquenti, nordisti, sudisti, mafiosi, politici, carri armati, canoni, esplosivi, bombe a mano, dinamite e la mancanza di ragionevoli letture analitiche hanno contribuito ad una incomprensione ancor più caotica.

L’impossibilità di dare una risposta ha gettato gli albanesi in una incomunicabilità insopportabile, da cui si poteva uscire solo violentemente, inconsciamente e liberatoriamente con un kalashnikov in mano.

La grande credibilità di cui godono i media stranieri in generale e quelli italiani in particolare in Albania, quando raggiunge livelli estremi può coincidere con l’investitura di una forte funzione oracolare, intesa come capacità d’analisi che può portare a previsioni plausibili.

Il rischio intrinseco del parlare di un evento che probabilmente dovrà accadere, invece di eventi già successi, raggiunge valori massimi e l’atto in sé, strani poteri di far avverare. In tal senso avanzare l’ipotesi di un ruolo guida degli eventi da parte dei media non è poi tanto azzardato. Sartori in un suo saggio sulla televisione parla di "un elemento modificatore" della realtà, che "in casi estremi crea eventi che non esisterebbero affatto senza la televisione-protagonista"(10).

Infatti ci vuole poco a capire che la diffusione sistematica della notizia (verso la metà di marzo), secondo cui il Presidente albanese si preparava a lasciare il Palazzo Presidenziale, trasmessa ripetutamente da tutti i TG italiani, poteva determinare (o può aver determinato) gravi risvolti politici e sociali nel Paese. Da qui poi l’opinione, probabilmente aleatoria, di una possibile utilizzazione manipolatoria dei media stranieri in Albania. E controbattere a tale insinuazione elencando argomenti sul disinteresse di quello o quell’altro paese a seminare caos in Albania sarà sempre più difficile, visto i veleni perenni che circolano in quell’area complessa. In realtà sospetti del genere continuano ad aleggiare nel Paese.

Questa funzione oracolare va considerata come una derivante della funzione di socializzazione dei media, i quali propongono in diversi modi opinioni, modelli sociali, valori ecc. che influenzano gli individui della società, anche tramite il confronto. In questo caso i media sembrano portavoci della collettività miranti ad indirizzare l’individuo verso una specifica via in conformità alle sue regole. Di conseguenza i vari "pare"(11) si trasformano come per magia in autoritari "must". E non stiamo farneticando. Ferrarotti(12), parlando a proposito degli insorti in Romania nel dicembre del 1989, ritiene che la tv sia stata "un suggeritore dinamico, nel senso che gli insorti vedevano se stessi in azione in televisione e ne traevano coscienza e conferma della propria iniziativa insurrezionale, comunicavano tra di loro e con il pubblico in generale, si scambiavano informazioni, consigli, parole d’ordine".

In Albania dove i media indipendenti sono pressoché inesistenti e dove la storia recente non ha nulla da insegnare su questo punto, si possono verificare processi tali, per cui una testata giornalistica o un TG italiano può rappresentare benissimo il Governo d’Italia.

Sono stati questi validi motivi a mandare su tutte le furie l’Ambasciatore italiano a Tirana, il quale si è scagliato in diretta nello Speciale TG1 in un duro "J’accuse" contro l’informazione italiana che non si rese conto della sua diffusione anche in Albania, sebbene un noto direttore disse dopo: "Ci mancherebbe altro se dovessimo fare TV tenendo conto di un Paese diverso dall’Italia. Come se l’Avvenire non dovesse spedire copie in Albania per non offendere la componente mussulmana".

In Occidente esiste una complicità consolidata da anni tra media e utenti, per cui il messaggio viene prima spogliato dagli "eccessi retorici" e poi consumato, oppure consumato deliberatamente com’è per un semplice effetto di piacere. Questo gioco è conosciuto da entrambi i protagonisti della comunicazione, ma che non può attuarsi in un contesto come l’Albania, dove gli "eccessi" vengono percepiti come facenti parte a pieno titolo del messaggio. Così dichiarazioni forti come quella della ex Presidente della Camera, Irene Pivetti, può essere snobbata da un lettore italiano, magari con un’imprecazione colorata, ma agli occhi del pubblico albanese possiede effetti devastanti.

Le notizie sull’Albania sono state piuttosto confuse. Bisogna fare attenzione però: la difficoltà di capire provoca fatica, che portata all’eccesso causa il rifiuto di comprendere. Ciò significa che dell’Altro non si vuol capire nulla, ma non perché non si vuole, bensì perché si è costretti all’incomprensione. Il passaggio dal crepuscolo della curiosità all’indifferenza è breve, mentre le prospettive di un totale disinteresse si aprono pericolosamente. E non capire gli interessi del vicino significa non capire i tuoi e dunque camminare a tentoni verso il nostro incerto futuro.

I media influiscono sull’opinione pubblica, interna e straniera, sui governi, sulla politica e su molte altre cose. Essi hanno il dovere di rappresentare bene. Solo la conoscenza della realtà e del proprio potere può portare ad una rivalutazione della propria responsabilità e di conseguenza ad una cautela nella rappresentazione di difficili contesti socio-politici. Forse la realtà è difficile da decifrare e tanto più da presentare, ma partendo da qui dovremo accentuare la cautela e non cadere nel pessimismo. Notiamo che le trasmissioni fatte in Albania (Pinocchio, Prima Serata) si sono distinte per la loro oggettività complessiva da cui si può dedurre che l’avvicinamento con la realtà del luogo e la consapevolezza di avere un altro lettore modello abbia svolto un ruolo attivo.

Infine bisogna dire che i media offrirono ancora una volta l’oggetto perfetto (e forse benatteso) del nervosismo sociale, del malessere socioeconomico della società. Qui sta la vera e unica funzione dell’emigrazione albanese: fare da catalizzatore. Ma negli albanesi la coscienza di essere parafulmini di saette sociali e d’intolleranza forse esisteva da tempo, ma era probabilmente assopita.

Ora, la tragedia di Otranto non riuscirà di certo a rovinare gli ottimi consolidati rapporti italo-albanesi, anche perché l’Italia ha mostrato in molte occasioni la buona fede dell’aiuto generoso e massiccio alla piccola Albania, la quale, da canto suo, è ben conscia di questo. La tragedia però, rimane una spina al fianco, una macchia nera, una potenziale trombosi per un domani reciproco. Almeno per come è stata vista ed interpretata.

Le passioni di rivincita, di risentimenti, di rancori trovano in tali rappresentazioni mediatiche il terreno fertile per uno sviluppo rapido e malefico, mentre le ideologie sono più che mai all’erta per aggregare la nebulosi dei malesseri. Per questo bisogna fare attenzione, poiché i vari "non ci siamo spiegati bene" ed i pentitismi tristi del giorno dopo, sono di poco valore.

Non esistono antidoti. L’unica misura è la prevenzione. Anche in questo gli albanesi vanno sostenuti, magari inviando, insieme alla Forza Multinazionale e la farina, "massicci aiuti di rappresentazione giusta".

E alla fine, il problema dei media non si pone unicamente sul piano etico, con i suoi modesti effetti trascurabili di diventare indesiderabili per gli albanesi, un problema che con un po’ di coscienza sorda si può anche ignorare. La vera questione - riduciamo intenzionalmente il problema anche se sembra oltremodo egoistico e cinico -, sta nelle ripercussioni rimbalzanti. Almeno nei loro confronti non bisogna comportarsi da struzzi insabbiati.

(1) Per un’accurata indagine in questo senso cfr. A. Vehbiu, R. Devole, op. cit., 1996.
(2) Carlo Bollino, Gazeta Shqiptare, Il Potere della notizia, in LIMES, Albania: Emergenza Italiana, 7/1997, p. 90.
Carlo Bollino, op. cit., p. 91.
(3) Gianfranco Bettetini, Meno potere più autorità in Quali poteri la TV?, a cura di Jader Jacobelli, Laterza, Bari 1990, p. 13.
(4) Jean Baudrillard, Il delitto perfetto, Cortina Editore, Milano 1996, p. 9.
(5) Bisogna dire che il mito mediatico ‘Albania’ creatosi in questi ultimi anni in Italia costituisce un archilettore per nuovi fenomeni, valido riferimento su cui aggrapparsi per leggere un altro avvenimento. La sua negatività funge altresì da rampa, ad un livello più alto, per letture scettiche anche di fenomeni neutri o positivi. Per il mito sugli albanesi cfr. (6) A. Vehbiu, R. Devole, op. cit., 1996.
(7) Aprile 1997, in ALBANIAN@LISTSERV.ACSU. BUFFALO.EDU.
(8) Raffaele Gorgoni, Una guerra inventata dai media?, in LIMES, op. cit., p. 88.
(9) Ivi, 93.
(10) Carlo Sartori, Un linguaggio postmoderno?, in Quali poteri la TV?, cit., p.122.
(11) Da notare che in albanese sono in disuso forme del tipo "pare" o il condizionale "sarebbe pronto a partire..." che sui TG italiani abbondano quotidianamente.
(12) Franco Ferrarotti, Un fascino perverso, in Quali poteri la TV?, cit., p. 57.