Si sa, la memoria storica pullula di miti e distorsioni, ma ci sono posti
particolari in cui distinguere la vera storia dalla fantasia e la propaganda risulta
difficilissimo. Che i Balcani siano stati da sempre un vero e proprio laboratorio di miti
e ideologie è una cosa nota, ma le ultime vicende del Kosovo fanno emergere con forza il
problema dell’interpretazione della crisi balcanica.
E’ perfino facile osservare che una delle vittime eccellenti della
complessità della crisi jugoslava è stato l’Occidente. Analisti, giornalisti,
politologi, politici, tutti si sono buttati a capofitto nella mischia e nella confusione
delle interpretazioni, aggiungendo migliaia di commenti, esposizioni, riflessioni, al fine
di capire e spiegare quello che stava e sta succedendo in Kosovo. Il problema è che
spesso si parte proprio da "peccati originali" per costruirci sopra delle vere e
proprie teorie. Così ad esempio la questione dell’autoctonia degli albanesi del
Kosovo è del tutto falsa e fuorviante. I serbi dicono che gli albanesi del Kosovo sono
arrivati nella regione durante l’occupazione ottomana, mentre gli albanesi sostengono
che ci vivono da secoli, addirittura prima dell’arrivo degli slavi in Europa.
Avventurarsi in interpretazioni che partono da presupposti del genere significa perdersi
nelle vie senza uscita del solito labirinto balcanico.
Innanzitutto bisogna partire da dati di fatto. Attualmente in Kosovo
vivono circa 2 milioni di albanesi, i quali costituiscono più del 90% della popolazione
della regione. La Costituzione jugoslava del 1974 riconosceva al Kosovo lo status della
regione autonoma, il che permetteva agli albanesi di godere un minimo di diritti, per
esempio l’uso della lingua materna nelle scuole e negli uffici pubblici.
Dopo la morte di Tito la repressione serba diventa più violenta
costringendo gli albanesi a scendere in piazza per protestare anche contro lo status di
regione autonoma all'interno della Federazione Jugoslava e per chiedere il rango di
repubblica come il Montenegro che peraltro ha quasi la metà della popolazione del Kosovo.
Le manifestazioni si svolgono inizialmente senza molti incidenti per poi arrivare agli
spari della polizia contro i dimostranti. In Kosovo entra l’esercito federale e
inizia una gigantesca caccia all’uomo. Vengono processati e condannati migliaia di
albanesi con l’accusa di separatismo.
Il 1987 è l’anno dell’ascesa al potere di Slobodan
Milosevic,
il quale sfrutta al meglio il potenziale e l’energia dei miti serbi sul Kosovo e
attacca con un nazionalismo sfrenato le posizioni moderate ottenendo un consenso unanime
da parte dei serbi. Il resto si riduce ad una graduale escalation della riconquista
serba del Kosovo, che passa per il licenziamento degli albanesi dal settore pubblico,
l’invio di altri serbi nella regione, i maltrattamenti continui della popolazione di
etnia albanese, la repressione degli scioperi e delle manifestazioni dei kosovari e la
proclamazione nel 1989 dello stato di emergenza nella regione che viene letteralmente
occupata dalle truppe federali. Il culmine si raggiunge con l’annullamento dello
status di regione autonoma e l’annessione completa del Kosovo nel 1990.
La politica serba aiuta in realtà quell’opinione diffusa secondo cui
i serbi e gli albanesi non possono vivere insieme in quanto molto diversi e sempre in
conflitto durante la loro storia.
Gli albanesi, infatti, rispondono con la formazione di una società
parallela e autonoma – principalmente con l’aiuto delle rimesse degli immigrati
in Europa - che può fare a meno dell’amministrazione interamente serba che li ignora
e li esclude dalla vita del Paese. Organizzano scuole private, ospedali, rafforzano
l’identità e i sentimenti nazionalistici, boicottano le elezioni, rifiutano di
svolgere il servizio militare nell’esercito jugoslavo e indicono un referendum (non
riconosciuto dalla Serbia) sullo status del Kosovo. Il risultato della consultazione
referendaria non lascia dubbi sulla volontà degli albanesi: 99,9% votano per
l’indipendenza.
In questi anni il Kosovo rimane un po’ in disparte, perché le
telecamere sono rivolte inizialmente verso la disintegrazione della Jugoslavia e poi verso
la guerra in Bosnia, ma ciò non significa che la situazione non sia esplosiva: le voci su
un imminente scoppio del conflitto si intensificano ma ragioni di politica interna alla
Serbia (impossibilitata ad aprire un altro fronte) e di politica internazionale (la
comunità internazionale è divisa e ha fretta di chiudere la questione jugoslava con la
soluzione del conflitto in Bosnia) rimandano l’evento.
Intanto la situazione nel Kosovo si radicalizza. La repressione serba
diventa più cruenta mentre gli albanesi cominciano a perdere la pazienza ed a non avere
più fiducia in Ibrahim Rugova, il fautore per la soluzione pacifica del problema.
E’ in questo momento che nasce l’UCK (Ushtria Clirimtare e
Kosoves – Esercito di Liberazione del Kosovo) una formazione che intende far fronte
alla repressione militare serba e raggiungere l’obiettivo dell’indipendenza.
A tal punto le cancellerie occidentali si accorgono che Dayton non basta
più, perché la politica serba e l’indifferenza occidentale hanno fatto sì che tra
i serbi e gli albanesi, invece dei ponti, si venisse a creare un enorme abisso.